Abstract [It]: La proposta di riforma costituzionale della giustizia non si limita a introdurre la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, ma ridisegna la fisionomia dell’ordine giudiziario: scinde il CSM, sopprime la sua elettività e istituisce l’Alta Corte disciplinare, giudice speciale con mandato parziale. Dietro l’intento dichiarato di rafforzare l’imparzialità della giurisdizione, svuota progressivamente le garanzie costituzionali di autonomia e indipendenza della magistratura, sostituite da assetti strutturali che rischiano di assoggettare l’organo requirente all’indirizzo politico di turno. Né il disegno riformatore è in grado di potenziare i diritti dei cittadini, perché altera l’equilibrio tra accusa e difesa e inoltre indebolisce la funzione giurisdizionale nella sua essenza costituzionale. In definitiva, la riforma invece che innestarsi nel solco della tradizione garantista delineata dal Costituente, si orientata verso una torsione ordinamentale che interroga la tenuta dello Stato di diritto.
Abstract [En]:The constitutional reform proposal of the judicial order does not merely establish a separation of careers between judges and public prosecutors but redraws the identity of the judicial order divides the CSM; abolishes its elective nature, and creates the High Disciplinary Court, a special judge with a limited mandate. Despite the stated objective of enhancing the impartiality of the judiciary, the reform progressively undermines the constitutional guarantees of judicial autonomy and independence, replacing them with structural arrangements that risk subjecting the prosecutorial body to the prevailing political influence. Moreover, the reform fails to strengthen the rights of citizens, as it disrupts the balance between prosecution and defense and weakens the judiciary’s constitutional function at its core. In conclusion, rather than building upon the tradition of constitutional safeguards established by the Constituent Power, the reform appears to pursue an institutional shift that calls into question the stability of the rule of law.
Parole chiave: riforma della giustizia; autonomia della magistratura; indipendenza della magistratura; CSM; Alta Corte.
Keywords: judicial reform; autonomy of the judiciary; independence of the judiciary; High Council of the Judiciary and High Court.
Sommario: 1. Il discorso intorno alla riforma costituzionale della giustizia. – 2. Esame nel merito della riforma e dei tre assi portanti. – 3. Una riforma che rafforza i diritti? – 4. Conclusioni.
- Il discorso intorno alla riforma costituzionale della giustizia
Un chiarimento per iniziare: la Costituzione non prevede la regola della carriera unica per i magistrati. La Corte costituzionale[1], infatti, ha affermato che spetta al legislatore ordinario scegliere di unificare i percorsi professionali dei magistrati o di mantenerli separati. Ciò significa che, vigente il modello della carriera unica, il Pubblico ministero non è bloccato sine die nel ruolo dell’accusatore: può farlo come decidere di cambiare.
Il fatto che il potere costituente non abbia risolto in prima battuta questa alternativa tra i sistemi è apprezzabile perché lascia un certo grado di flessibilità al sistema giudiziario, riservando alle maggioranze politiche future l’opzione in campo. Detto ciò, se il legislatore scegliesse di separare le carriere, dovrebbe però disegnare attentamente il nuovo assetto, senza necessariamente ricorrere all’art. 138 Cost., perché il passaggio si può compiere anche con una legge ordinaria. Il Governo invece con l’A.S. 1353[2] ha intrapreso proprio la via dell’art. 138 Cost. per apportare la modifica in esame, pur non essendovi tenuto, assegnando quindi all’atto una forma eccessiva rispetto alla sua sostanza. Mentre la revisione costituzionale ritorna a essere necessaria per inserire nel tessuto costituzionale le ulteriori innovazioni, di cui parleremo nel corso del ragionamento. Dunque, la revisione costituzionale limitatamente alla questione carriera unica o separata non è imposta dal sistema delle fonti, ma è una scelta politica del Governo, che da un lato intende bloccare l’ordinamento giudiziario sul modello separazione dei percorsi per evitare cambiamenti futuri e dall’altro lascia intendere che ci sia un obiettivo ulteriore e diverso dalla dichiarata distinzione delle carriere, punto che vedremo dopo.
Abbiamo usato l’avverbio “attentamente” per indicare il grado di attenzione che il decisore politico dovrebbe prestare, in caso scegliesse per le carriere separate, quando si appresta a disegnare la riforma affinché la stessa si muova entro i margini costituzionalmente tracciati: da un lato il rispetto dell’autonomia interna dei giudici e dall’altro l’obbligo per ogni potere di osservare l’indipendenza dei magistrati. Muoversi entro queste due linee mette il PM, una volta separato, al riparo dalle insidie dell’Esecutivo, storicamente interessato ad attrarlo alla sua orbita, pericolo invece di fatto compensato dal sistema dell’unicità.
Ne consegue che la riforma A.S. 1353 dovrebbe andare nella direzione di rafforzare proprio i paletti dell’autonomia interna e dell’indipendenza esterna al fine di evitare il temuto rischio.
Chiariamo il significato di questi paletti che dovrebbero sostenere l’ordine giudiziario: non si tratta di privilegi riservati alla magistratura perché il Costituente non ha regalato a nessuno, pubblico o privato, ingiustificati vantaggi; quindi, autonomia e indipendenza non rendono la magistratura immune dalla rule of law, rappresentando invece la legge il vincolo espresso e unico imposto ai giudici (art. 101, co. 2, Cost.)[3].
Il Costituente ha voluto garantire questa coppia di principi perché essenziali a creare il terreno dove la magistratura si muove per adempiere al compito che le è stato riservato: garantire l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Infatti, quest’ultima per compiere il suo progetto egalitario[4], equiordinare le persone nel trattamento giuridico, ha bisogno di un giudice imparziale, che intervenga per dare a ciascuno quello che la legge ha stabilito prima in termini astratti e generali. Quindi, l’imparzialità del legislatore incontra la sua misura di effettività nell’imparzialità del giudice, soggetto neutrale rispetto alla controversia, che, comunque la ha decida, non gli procurerà né vantaggi, né pregiudizi.
La centralità del giudice rispetto alle parti in causa si rafforza e si completa nella sua impermeabilità agli input suggeriti dai colleghi; il giudice, infatti, non può ricevere ordini dal giudice che lo ha preceduto ma neppure da chi verrà dopo di lui. Questa insensibilità di un giudice all’altro giudice è concretamente possibile in quanto questi non occupano nessun gradino della scala gerarchica, contrariamente ai funzionari pubblici dislocati secondo il modello cavuriano, che ancora li obbliga al rispetto del vincolo gerarchico verso il proprio superiore.
Completa lo status del magistrato una condizione soggettiva: non possono essere i legittimi destinatari di direttive o consigli dell’Esecutivo. Per cui l’obbligo di una Pubblica Amministrazione di sottostare agli indirizzi del vertice politico diventa l’oggetto di un simmetrico divieto, quando a riceverlo sia un giudice. Quest’ultimo, infatti, dovrà essere insensibile ai suggerimenti altrui, soprattutto se a suggerire sia il Governo.
Solo se le condizioni di autonomia, interna/esterna, individuale/organica, vengono garantite sul piano dell’effettività, i cittadini si rivolgeranno al giudice con quella necessaria serenità, che nasce dalla convinzione di ricevere lo stesso trattamento che ha ricevuto la persona venuta prima, e che presumibilmente spetterà a chi verrà dopo.
2. Esame nel merito della riforma e dei tre assi portanti
Proponiamo ora di analizzare i tre assi portanti della riforma in vista degli obiettivi costituzionali, che ogni riforma della giustizia dovrebbe osservare: autonomia interna/esterna dei giudici e uguaglianza dei cittadini, come detto prima.
A) Il primo asse è la separazione tra Pubblico ministero e giudice.
La riforma afferma che la separazione renderà il giudice più imparziale. Tuttavia, secondo la lettera della riforma, il PM, una volta separato, continuerà ad appartenere allo stesso potere al quale appartiene il giudice. Stando così le cose, riesce difficile comprendere come questa separazione, senza creare un ordine diverso, possa rendere il giudice più autonomo dal PM rispetto a quanto non lo sia già ora. È difficile capire perché un giudice attende il promesso miglioramento in qualità e quantità della sua imparzialità[5]; sarebbe invece più ragionevole temere che accada l’inverso, cioè la soggezione del giudice al PM.
Esamineremo in seguito se questo rischio sia concreto oppure remoto.
B) Passiamo al secondo punto della riforma: la divisione del Consiglio Superiore della Magistratura in due distinti organi, uno per il requirente e l’altro per il giudicante (art. 3., d.d.l., in luogo dell’art. 104 Cost.).
Ricordiamo la stretta connessione che lega il CSM alla magistratura[6]: il primo è il terreno di effettività della pretesa autonomia e imparzialità del secondo, che grazie all’esistenza di un soggetto di autogoverno, disegnato nel rispetto delle linee costituzionali, vede garantito il nocciolo duro della coppia imparzialità/autonomia, suscettibile invece di essere compromessa se l’identità del CSM dovesse subire un’alterazione sostanziale.
Lo è quella in esame?
I Costituenti hanno scritto e pensato con razionalità il testo costituzionale; una prova, attinente al nostro tema, si può leggere nei contenuti dei commi in cui si articola l’art. 104 Cost. La norma in apertura dichiara che la magistratura sia un “ordine”, non un “potere”, il che la differenzia dall’amministrazione, chiamata “potere” perché cura un interesse pubblico specifico. Dal raffronto tra i due soggetti risulta una magistratura che persegue l’interesse generale all’amministrazione obiettiva della giustizia.
La disposizione costituzionale si completa, nei successivi commi, con il disegno statico e funzionale del CSM, organo sconosciuto all’esperienza statutaria, divenuto necessario nel contesto repubblicano, al fine di assicurare l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati (art. 104, co.1). La sequenza indipendenza della magistratura/indispensabilità del CSM conferma la ragionevole preoccupazione dei Costituenti di non consentire nuovamente l’asservimento della magistratura al Governo, nonostante il mutato assetto istituzionale, rischio possibile in mancanza di un robusto sistema di guarentigie idonee a minimizzarlo.
Il disegno di legge in esame nello spezzare il CSM in due tronconi taglia le gambe ai magistrati, pur senza toccarli formalmente. “L’esistenza di un Csm unitario rappresenta il più esplicito indicatore e, al contempo, il primo vincolo costituzionale nel senso della unitarietà dell’ordine della magistratura…. La creazione di due organi separati altera quel modello perché punta alla formazione di due magistrature non solo funzionalmente, ma pure istituzionalmente e culturalmente distinte”[7].
Del resto, la riforma assume a modello per esplicita ammissione il disegno di legge A.C. 4275, XVI Legislatura[8], battezzata dal suo primo firmatario, il Presidente del Consiglio dei ministri Silvio Berlusconi, la Riforma “madre”. A questa va il merito della coerenza; infatti, il d.d.l. 4275 dichiarava apertamente il destino del PM, al quale si evitava di vagare nel nuovo ordine giurisdizionale privo di riferimenti istituzionali, venendo invece attratto all’orbita governativa. Nel momento in cui la riforma negava l’obbligatorietà dell’azione penale a favore della sua discrezionalità, faceva il primo passo verso un PM più prossimo al potere esecutivo che non a quello giudiziario. Risultato che si sarebbe conseguito in quanto il decisore di maggioranza gli avrebbe indicato di volta in volta specifiche priorità di politica criminale, alle quali il PM si sarebbe dovuto attenere. La riforma madre non diceva però apertamente che il PM era diventato uno docile strumento nelle mani del Governo, ma è come se lo avesse detto nel momento in cui rimetteva alla maggioranza di turno gli orientamenti generali e particolari delle future azioni penali, che le Procure avrebbero dovuto fare propri (art. 13 dell’AC 4275[9] in sostituzione dell’art. 112 Cost.[10]).
Tornando alla riforma in corso, A.S. 1353, questa nel dividere il CSM in due tronconi determina qualche dannosa conseguenza: in primis, si apre alla possibilità che ciascun Consiglio elabori proprie regole relative alla sua magistratura che autogoverna. Né si potrebbe escludere a priori l’ipotesi che ciascun Consiglio assuma decisioni di amministrazione attiva distinte o persino antagoniste a quelle prese dall’altro. Infine, si potrebbe verificare il caso che sulla medesima proposta di legge i due Consigli diano pareri contraddittori, vanificando così il loro ruolo di consulenti speciali del decisore politico. Quanto detto mostra che la scissione farebbe perdere di vista una visione unitaria della giustizia. Né queste criticità sarebbero recuperabili in sede di legge sull’ordinamento giudiziario perché sono strettamente connesse all’operata scissione, e come tali inevitabili; infatti, neppure il ddl 4275/11 si era spinto fino a distinguere il CSM in due, limitandosi invece alla più tenue soluzione di una sua articolazione interna in due sezioni.
La riforma in esame non si accontenta però di duplicare quanto andava mantenuto unitario e unico, ma gli nega in assoluto l’elettività dei suoi componenti. Su questo punto ci sia consentito dissentire da chi ci ha preceduto in questa giornata di Audizioni[11], perché riteniamo che l’elezione sia un elemento essenziale per assicurare a un soggetto l’autogoverno, non dunque un mero accessorio, che, venuto meno, lascia intatta l’attitudine ad autogestirsi all’organo, benché mutilato nella rappresentatività. Con questa riforma invece si creerebbe un organo di autogoverno a rilevanza costituzionale atipico perché non elettivo, con una composizione affidata alla sorte; un sistema questo, che investe sia i togati che laici, salvo una lieve attenuazione per questi ultimi.
La prova dell’errore politico/giuridico di questa ultima scelta è dimostrata da un emendamento, presentato da Forza Italia, che voleva restituire almeno alla componente laica l’elettività. Ebbene, l’emendamento fu immediatamente ritirato su indicazione del Governo, che, dominato dalla preoccupazione di chiudere quanto prima la riforma, non volle aprire una discussione neppure sulle ragioni che avevano spinto il suo alleato di governo[12] a rompere la blindatura del progetto.
Al momento in cui si scrive l’intero CSM ha perso l’elettività. Ciò desta preoccupazione in quanto sintomo della volontà della maggioranza politica di punire la magistratura. Se è innegabile che il CSM abbia dato una cattiva prova di sé come giudice dell’illecito disciplinare, almeno nelle precedenti consiliature, perché tiranneggiato dal correntismo, è altrettanto vero che questa sanzione indifferenziata e sproporzionata investe l’intero corpo dei magistrati, considerati inadatti a scegliere i loro rappresentanti al punto da essere trattati da soggetti incapaci di intendere e di volere. La sensazione di una magistratura “sotto protezione forzosa” è l’idea sottostante questa riforma, la quale lascia intendere che, in presenza di giudici inadatti a badare a loro stessi, rimane solo la Dea bendata.
Questa soluzione non risolve però una contraddizione di fondo: come è possibile che i magistrati, incapaci di eleggere i loro rappresentanti, siano poi riscattati dal giudizio di inettitudine e resi nuovamente abili, quando devono pronunciare una sentenza di condanna? E, ancora, perché il cittadino dovrebbe continuare ad avere fiducia nel giudizio obiettivo di un magistrato, se è la legge a consegnargli la patente di incapace?
Dunque, la norma rompe con il principio dell’autogoverno, perché nega in radice ogni rappresentatività all’organo, trascurando una regola elementare di ogni tipo di diritto, a prescindere dal suo aggettivo qualificativo: se si toglie un anello da un processo, questo rischia di cadere a pezzi per intero dato l’intreccio che lega il frammento che viene prima con quello di dopo. Nel nostro caso questa interdipendenza funzionale comporta che, negata la rappresentatività al CSM, venga meno in sincronia la sua capacità di autogoverno; annullato questo attributo, la garanzia di autonomia e indipendenza, affidata al CSM, perderà effettività perché la sua base di appoggio è stata cancellata con la perdita di rappresentatività del Consiglio.
C) Esaminiamo il terzo punto della riforma, apprezzabile come principio in sé, non anche nella sua formulazione in precetti costituzionali: l’istituzione dell’Alta Corte.
Si tratta di un organo inedito, che già i progetti di revisioni costituzionali precedenti avevano provato a introdurre. Si trattava di visioni riformatrici di più ampio respiro rispetto a quella in atto: prendiamo come esempio la Bicamerale D’Alema[13]. Ebbene, questa affidava all’Alta Corte un compito disciplinare omnibus, cioè esercitabile nei confronti di ogni giudice, ordinario e speciale. Questa idea dilatata della funzione giurisdizionale – essendo pacifico l’acquisizione del processo disciplinare all’attività di ius dicere[14] – potrebbe giustificare a certe condizioni la creazione di un organo ad hoc a composizione mista, capace di tenere dentro entrambi gli ordini giudiziari. Questa giustificazione non vale anche per il disegno di legge in oggetto, perché esso circoscrive il compito disciplinare dell’Alta Corte ai soli magistrati ordinari. Questo limite di mandato della Corte rinnova in avvenire l’anacronistica distinzione tra giudici ordinari e speciali, la cui iniziale ragion d’essere si è sbiadita man mano che il sistema giuridico si stava spostando verso l’unità disciplinare. L’ordinamento aveva spostato il suo fuoco nel bisogno di tutelare secondo uguaglianza ogni situazione soggettiva, indipendentemente dal giudice adito o dalla natura della stessa, in linea peraltro con la tendenza europea di semplificare il sistema giustizia in vista dell’omogeneità regolativa.
Quindi, il potere giudiziario, prima diviso con la separazione delle carriere e poi rafforzata questa distinzione con la disarticolazione del CSM in due tronconi, ritroverebbe quasi per miracolo la sua originaria unità nell’Alta Corte. A nostro avviso, la recuperata unità di per sé sarebbe anche apprezzabile, ma rimane aperta la riflessione su come delocalizzare la funzione disciplinare della Corte. Non è irragionevole la scelta di collocare fuori dall’ordine giudiziario chi giudicherà disciplinarmente i magistrati, perché questa soluzione sottrae il CSM dalle pressioni correntizie, impedimento alla sua obiettività di giudizio nel processo disciplinare. Influenze queste, che nel nuovo assetto potrebbero essere attenuate dalla diversa composizione dell’Alta Corte, pur rimanendo prevalente la componente togata di nove su sei membri laici.
La riforma però non è andata fino in fondo perché, se avesse voluto neutralizzare realmente la funzione disciplinare, cioè, isolarla dalla pressione giudiziaria dei giudicandi, avrebbe dovuto fare un ulteriore passo verso tale obiettivo, che invece non fa. In sintesi, l’A.S. 1353 si presenta scoperto su tre profili significativi.
Del primo si è già detto: la mancata estensione del raggio di azione dell’Alta Corte a ogni magistratura.
La seconda ragione coglie il limite di questa delocalizzazione, che non coinvolge anche la fase iniziale del procedimento disciplinare, rimasta invece nella disponibilità del Procuratore generale e del Ministro della Giustizia. Questo è un punto debole che potrebbe compromettere la piena indipendenza dell’Alta Corte, visto che l’azione introduttiva del processo disciplinare è ancora nelle mani dei vertici politici e giudiziari. Si potrebbe sospettare che il legislatore di revisione non abbia voluto assicurare fino in fondo l’indipendenza del giudizio disciplinare da ogni influenza che potrebbe compromettere la neutralità e obiettività dell’esito, considerato che l’atto introduttivo non spetta a un’autorità indipendente dalla politica o dal novero dei soggetti passibili di giudizio. Sarebbe stato preferibile rivolgersi a un soggetto neutrale, scegliendo tra quelli già disponibili nell’ordinamento o, in mancanza, crearne uno nuovo; o in extrema ratio perché non prevedere l’attivazione d’ufficio della Alta Corte stessa. Ma la questione è stata del tutto trascurata, di essa non si fa parola nel dibattito parlamentare, neppure in quello animato dalle opposizioni.
La terza ragione ha a che fare con l’aspetto sostanziale dell’illecito disciplinare: ci stiamo spostando dal terreno procedurale a quello contenutistico del comportamento vietato. Ebbene, questo illecito è comunque una condotta contra ius, che però si presenta priva della necessaria tipizzazione normativa al punto da sostenere la riduzione dell’illecito disciplinare del giudice alla violazione dei soli obblighi deontologici. Questa concezione minimale non convince perché, come ogni illecito, anche quello disciplinare è l’inosservanza di obblighi giuridici, che in questo caso hanno titolo direttamente nel tessuto costituzionale; mentre quelli deontologici rimangono ancillari ai primi, nel senso che contravvenire ai soli doveri deontologici non basta per integrare la fattispecie dell’illecito disciplinare.
Ora, se l’obiettivo è garantire la piena imparzialità dell’Alta Corte, ricordiamo che una funzione, per essere imparziale, non basta che lo sia solo la sua procedura, ma occorre che l’illecito sia disegnato da norme astratte e generali, capaci di tipizzare ex ante e con sufficiente precisione la condotta vietata[15]. Qui è mancato un lavoro regolatorio a monte, cioè nella fase che precede il processo disciplinare, quella diretta a fotografare i comportamenti proibiti, che sono stati lasciati invece nell’incertezza prescrittiva. A tal fine sarebbe stato necessario quantomeno un rinvio al legislatore ordinario per sollecitare un suo intervento diretto a identificare gli elementi oggettivi dell’illecito. Questo invece è rimasto protetto da un’opacità crescente, nel passare dalla magistratura ordinaria a quella speciale, il che è un danno alla certezza del diritto e alla consapevolezza del giudice di contravvenire ai suoi obblighi.
A questi forti critiche di incostituzionalità del d.d.l. in esame, si può aggiunge un’altra doglianza, che attiene al regime di impugnazione dei provvedimenti dell’Alta Corte (art. 4 del d.d.l. che modifica l’art. 105 Cost.). Dal tenore della norma l’unica impugnazione ammissibile è quella verso l’Alta Corte stessa, in una composizione diversa da quella operante in primo grado. Quindi, la norma di revisione costituzionalizzerebbe il facoltativo secondo grado di giudizio, mentre negherebbe il necessario ricorso in Cassazione per violazione di norma di legge, pur imposto dall’art. 111, co. 7, Cost, esclusione suggerita dalla lettera dell’art 4 del d.d.l. La disposizione in fieri nell’usare “soltanto” esclude proprio il ricorso di legittimità, in aperta violazione del precetto costituzionale, che neppure una norma di revisione potrebbe superare legittimamente, visto che è considerato un principio fondativo dell’assetto costituzionale con capacità di resistenza anche alle revisioni costituzionali, in quanto concorre a comporre fisionomia della Repubblica democratica.
Ora una considerazione di chiusura rispetto all’Alta Corte, riguardante proprio la sua legittimazione a esistere. A nostro avviso, la Corte dovrebbe poter vantare una ragione oggettiva come titolo legittimante la sua esistenza. Si tratta invero di un giudice speciale, non favorito dal Costituente, che infatti aveva vietato la creazione di nuovi rispetto ai già esistenti. Questo sfavore è superabile con una legge di revisione, tale è quella in esame, in quanto non riteniamo il divieto di specialità un principio irrivedibile, per quanto controversa sia questa categoria. Detto ciò, è necessario capire perché il legislatore abbia voluto creare un nuovo giudice. E a quale bisogno il neo giudice risponderebbe?
Un giudice speciale ad hoc è una deroga al divieto di cui all’art. 105 Cost., eccezione che, come deviazione dall’ordinario corso della vita istituzionale, deve fondarsi su solide ragioni che la giustifichino. In questo snodo tra il neo giudice speciale e il divieto costituzionale si inserisce una doglianza ulteriore verso la riforma: il deficit di un suo solido titolo giustificativo; dunque, una qualsiasi motivazione non basterebbe, in caso di sua assenza o debolezza l’eccezione sarebbe lesiva del principio di uguaglianza. A nostro avviso qui non ricorrerebbe alcuna ragione, seppur tenue, perché il disegno di legge, come afferma la sua relazione di accompagnamento, giustifica la divisione del CSM con la necessità di rafforzarne l’imparzialità. Se dunque l’organo di autogoverno, grazie al sistema di selezione oggettivo e neutrale, affidato ai dadi in luogo del voto consapevole e personale, gli restituisce imparzialità, è giusto chiedersi che senso abbia creare l’Alta Corte.
Se il CSM diventa imparziale, riscattandosi dal peccato originale del correntismo, viene meno ogni impedimento a mantenergli gli originari compiti disciplinari. Stando così le cose, l’Alta Corte vede allontanare da sé ogni ragione che poteva giustificarne la nascita: saremmo dunque in presenza di una deroga all’assetto costituzionale sine causa, come costituzionalmente illegittima.
Detto che la riforma non è all’altezza del compito promesso, rafforzare l’autonomia interna/esterna della magistratura, chiediamoci se sia in grado di rafforzare i diritti dei cittadini, visto che l’autonomia interna ed esterna sono binari paralleli che procedono sincronicamente per garantire su piani diversi i diritti delle persone dinanzi al giudice.
Riflettiamo dunque se questa riforma procuri un vantaggio al cittadino in termini di potenziamento delle sue pretese secondo diritto.
Partiamo dal Pubblico Ministero, un magistrato che, dopo la riforma Cartabia[16], vede accentuarsi quell’atteggiamento da nuotatore sul punto di eseguire un tuffo di testa, in questa immagine la direzione in avanti del PM è la fase giudicante del processo. Come disposto dalla riforma, il PM infatti manda gli atti al giudice, solo se con attenta prognosi ex ante abbia valutato le prove raccolte idonee a fondare un giudizio anticipato di presumibile condanna dell’imputato (art. 408 c.p.p.). In questa ottica, infatti, si muovono anche altre disposizioni, ad esempio quelle che invitano il PM a promuovere la definizione del procedimento in fase predibattimentale, applicando sanzioni alternative. Rimanendo in questa cornice e in linea con il suo ruolo di parte pubblica imparziale, si può comprendere ora con maggiore cognizione di causa la ragione per cui la legge gli ha imposto di cercare anche le prove a favore dell’imputato perché, diversamente da quest’ultimo, il PM agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi, mentre l’imputato agisce in nome di una libertà individuale e a difesa dei propri diritti fondamentali. Come ha chiarito la Corte costituzionale[17], esiste nel processo penale un’insopprimibile asimmetria strutturale tra la parte privata e quella pubblica; e questa distanza non è eliminabile perché è la premessa per consentire al PM di partecipare a un dialogo ininterrotto con il giudice, un evento questo che appartiene alla fisiologia del sistema: non c’è patologia in questo agire verso un fine comune perché entrambi i magistrati condividono il compito di fare giustizia, pur nella diversità dei ruoli.
Cosa accadrà per effetto di questa riforma sul terreno della ricostruzione probatoria?
Il PM, allontanato dal giudice, assisterà a una crescita esponenziale della sua autorità e del suo peso nell’ordinamento rispetto a quella che è la sua identità attuale, perché potrà contare su un CSM tutto suo, composto esclusivamente da Pubblici ministeri. In questo snodo organico, chiuso in una logica di casta, si insinua il pericolo di un CSM, incline a coprire i suoi piuttosto che a difendere la legalità oggettiva, sottratto a ogni dialettica con la magistratura giudicante, soffocato da una fastidiosa autoreferenzialità, dovuto al suo appiattimento sulla categoria dei PM.
Questo rafforzamento, che definiamo “gigantismo” del PM, ha effetti rilevanti[18].
Prima di tutto, incide nel rapporto con l’imputato: il PM disporrà di mezzi e risorse pubblici non paragonabili a quelli disponibili a spese dell’imputato. Quindi, non solo non si realizzerà l’annunciato riequilibrio tra le parti, ma si accentuerà l’effetto contrario: un rafforzamento oltre misura del PM a danno dell’uguaglianza tra accusa e difesa, nonostante la promessa egualitaria della riforma.
Ma c’è di più: questo rafforzamento non si limiterebbe al momento istruttorio, incidendo anche sulla fase del giudizio. Il PM rischia di diventare di fatto il dominus indiscusso dell’intera istruttoria; è vero che il giudice potrà sempre intervenire e chiedere un supplemento o persino la revisione integrale di quanto fatto in precedenza dal PM, ma rimane come fatto insuperabile che il giudice avrà davanti a sé un accusatore dalle spalle robuste, perché protetto da un CSM unilateralmente ordinato; il che consentirà al requirente di guadagnarsi sul campo una posizione soverchiante il giudice, o almeno idonea a esercitare su di lui una pressione alla quale difficilmente resisterà.
Il termine nudge – la spinta gentile, di cui parlava Cass Sunstein in altro contesto – sarà tutt’altro che gentile sul giudicante. Il PM a Costituzione invariata deve avere una visione sistemica del processo, perché compone l’istruttoria in ragione del giudizio, e in questa funzionalizzazione del prima rispetto a un dopo si coglie la tendenza del PM “a proiettarsi verso la dimensione giudiziaria”; mentre a seguito della riforma si ridurrebbe a un accusatore accanito, permanentemente partigiano, non più dedito alla cura oggettiva della legalità processuale. Oggi gli viene ancora chiesta una prestazione di mezzi: costruire un’istruttoria completa. Domani invece la prestazione sarà di risultato: portare a casa quante più condanne può. Quindi, il PM rischierà di essere giudicato in sede di valutazione di professionalità in base al numero di sentenze di condanna conseguite a seguito delle azioni proposte; ciò determinerà un suo inevitabile accanimento terapeutico pro-condanna, a prescindere dagli indizi di colpevolezza e in aperta violazione con la presunzione di innocenza e con il favor rei, principi basilari del nostro assetto istituzionale.
Questo significa alterare l’equilibrio del processo e quindi non rendere un servizio secondo giustizia.
3. Una riforma che rafforza i diritti?
Partiamo dalla situazione presente per poi disegnare un possibile scenario post-riforma.
Oggi se il PM dispone una misura cautelare personale, cioè un provvedimento limitativo della libertà personale in ragione dell’urgenza di provvedere e del periculum in mora (artt. 272 e ss. c.p.p.), non opera come esecutore di una volontà altrui, perché non dispone acriticamente la misura sulla base dei soli accertamenti della Polizia giudiziaria, ma entra nel merito della vicenda, valutando la fondatezza e la sufficienza degli elementi di prova raccolti, e, solo dopo, decide secondo diritto se ricorrano o meno i presupposti per concedere una certa misura, oppure altra o nessuna. Il PM si comporta come il ‘custode primo’ di due principi fondamentali dell’ordine costituzionale: la riserva di legge e la riserva di giurisdizione. Custodisce la prima riserva perché applica le sole misure e nei soli casi tassativamente disposti dalla legge; e da difensore della seconda riserva ragiona come un giudice. È vero che i provvedimenti come perquisizioni, ispezioni, allontanamento dalla casa sono caratterizzati dalla temporaneità e dall’urgenza del provvedere, ma la loro efficacia transitoria non ne altera la natura giuridica: sono e rimangono atti di giudizio, in cui il PM esamina un fatto con cognizione sommaria, stante il rischio di un danno irreversibile per il trascorrere del tempo, e poi lo inserisce in un astratto modello di comportamento – e qui che si consuma la sussunzione del fatto nel diritto – normativo, secondo la sua valutazione discrezionale, rimanendo ferma la loro efficacia temporanea, potendo non essere convalidati dal giudice. Insomma, questo PM si comporta non diversamente da come farebbe un giudice, con l’unica differenza, che la valutazione del secondo è definitiva e quindi irremovibile ex tunc.
Questo trascorre da un’efficacia temporanea a una definitiva, non incide però sulla natura dell’atto, che richiede l’impegno di energie volitive, siano esse del PM o del giudice, perché si sussume un fatto in modello astratto: cioè, più semplicemente si giudica. Il ragionamento obbedisce a una logica induttiva perché si parte in basso per poi arrivare in alto, a condizione che il PM segua il diritto oggettivo, nonostante i suoi atti abbiano efficacia temporanea. Se invece egli si attenesse acriticamente alle richieste della Polizia giudiziaria, la logica rimarrebbe in basso, non ci sarebbe la verifica della concreta condotta perché il PM avrebbe abbandonato il terreno del diritto oggettivo per porsi al servizio dell’Esecutivo, invertendo peraltro la fisiologica relazione di dipendenza della Polizia giudiziaria al PM, come prescritto in Costituzione Questo rischio non è una nostra proiezione, anche se di essa non fa parola l’A.S. 1353, ma è l’esito ultimo della riforma per le ragioni che stiamo per dire.
Un PM, strappato dalla cultura della giurisdizione, non può rimanere a lungo adespota e vagare senza punti di riferimenti istituzionali nell’ordinamento giuridico; alla fine si avvicinerà all’Esecutivo, che avrà argomenti sufficientemente convincenti per attirarlo a sé[19].
Inoltre, la riforma si ispira al modello portoghese[20], che, se da un lato ha separato il PM dal giudice; dall’altro, ha ceduto l’indipendenza del primo. Invero, i PM si differenziano, non solo per carriera, ma anche per status dai giudici, perché la Costituzione portoghese dispone che l’intera Procura sia nominata dal Presidente della Repubblica su proposta del Governo, con la possibilità di scegliere i procuratori anche tra i laici.
La riforma ha reso pertanto i pubblici ministeri disponibili alla politica penale del Governo, dovendo a quest’ultimo la loro nomina. A ciò si aggiunga che per una serie di concause si è affermata una cultura burocratica, schiacciata sull’adempimento di direttive gerarchiche e all’ottenimento di “risultati misurabili in statistiche, anziché nel perseguimento dei compiti fondamentali che sono attribuiti alla magistratura inquirente”[21]. Solo di recente si è cercato di supplire a questo deficit di organico creando unità speciali e miste, cioè, integrate con magistrati esperti delle diverse fasi processuali, per le indagini sui reati più gravi.
Attualmente lo statuto del Pubblico ministero portoghese è un via di trasformazione, sia per supplire alle descritte deficienze di organico, che al difetto di autonomia finanziaria, impedimento all’esercizio di quella funzionale, e soprattutto per restituire al sistema requirente, se non l’indipendenza, almeno una certa distanza dal governo.
Quindi, anche l’attuale trend normativo prova che il modello portoghese è un esempio che non merita di essere seguito: il Portogallo vorrebbe tornare sui suoi passi con un improbabile self-restraint, che chiama in causa il Governo. Questi si dovrebbe limitare nell’orientare la pubblica accusa in modo da restituirle un più ampio margine di autonomia[22].
Domanda: perché affidare agli Esecutivi l’arduo compito di contenersi?
Dall’esperienza portoghese possiamo trarre l’insegnamento che sia preferibile lasciare le cose come stanno, piuttosto che riformarle con la perdita dell’indipendenza dei giudici.
4. Conclusioni
Un giudizio per tirare le fila di queste riflessioni, che rimangono comunque aperte alle idee che verranno.
Siamo davanti a una riforma che promette di consegnare al Paese giudici più imparziali, ma non è in condizione di mantenere la promessa fatta per come il legislatore di revisione ha articolato il progetto riformatore. Mentre non si esclude che quest’ultimo possa assicurare con la separazione delle carriere PM prossimi agli Esecutivi, se non addirittura asserviti alle maggioranze politiche di turno.
* Professoressa ordinaria di Diritto Costituzionale – Università degli Studi di Napoli Federico II.
** Il contributo, a seguito di peer review,è stato pubblicato in Nomos, 1/2025. L’Autrice elabora con ulteriori riflessioni, non consentite dai tempi parlamentari, l’Audizione resa alla 1a Commissione del Senato, e ivi pubblicata, durante il ciclo di Audizioni informali promosso dalla stessa Commissione sui d.d.l. 1353 e d.d.l. 504 (Ordinamento giurisdizionale e Corte disciplinare), https://youtu.be/qkhAmlEDUYk?si=kGTafuJEsVKBCRI1.
[1] Corte Cost., sent. n. 37/2000, in cui legge che: “pur considerando la magistratura come un unico “ordine”, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio superiore (art. 104), non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti…”; si veda anche la sent. n. 58/2022. In queste pronunce la Corte dichiarò ammissibili i referendum sull’ordinamento giudiziario volti ad abrogare le norme sull’unicità della carriera perché, in assenza del principio costituzionale dell’unicità della carriera, i rispettivi quesiti referendari non avevano ad oggetto una legge a contenuto costituzionalmente vincolato: da qui la loro ammissibilità.
[2] XIX Leg., ddl di rev. cost., A.S. n. 1353, recante “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare” al momento in cui si scrive il ddl è ancora in corso di esame alla 1a Commissione del Senato, nel testo trasmessole dalla CD il 16 gennaio 2025. Per la trattazione in Commissione e in Aula della Camera, cfr. AC 1917; mentre per la trattazione in Commissione al Senato si consultino i lavori: https://www.senato.it/leggi-e-documenti/disegni-di-legge/scheda-ddl?did=58803.
[3] R. Guastini, Art. 101, in Commentario alla Costituzione, fondato da G. Branca e continuato da A. Pizzorusso, Bologna-Roma, 1994, 140-194.
[4] L. Ferrajoli, Manifesto per l’uguaglianza, Bari, 2019, passim.
[5] Domanda che si è già posto il CSM nel citato parere (p. 13), rilevando peraltro che l’affermazione dell’atteso guadagno in termini d’imparzialità, vantato dalla Relazione di accompagnamento, non era stata completata dall’illustrazione delle sue comprovate ragioni.
[6] Così: L. Daga, Il Consiglio Superiore della Magistratura, Napoli, 1974, 284 ss.; recentemente con ulteriori argomenti: N. Zanon-F. Biondi, Il sistema costituzionale della magistratura, Bologna, 2024, 22.
[7] Così: R. Balduzzi, Le proposte di revisione costituzionale d’iniziativa parlamentare in tema di giustizia, in Rivista ‘Gruppo di Pisa’, 1/2024, 352.
[8] Leg. XVI, CD. ddl rev.cost., recante “Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione”, presentato il 7 aprile 2011, in https://leg16.camera.it/701?leg=16&file=GI0558_0 .
[9] Per comodità del lettore si riporta il testo della proposta riforma, il cui art. 13 disponeva che: “L’Ufficio del pubblico ministero ha l’obbligo di esercitare l’azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge” (corsivi nostri).
[10] M. Villone, La “riforma epocale” della giustizia nel ddl costituzionale AC 4275: continuità o rottura?, in Costituzionalismo.it, 2/2011, per puntuali e articolate critiche ai profili sia formali che sostanziali della progettata riforma.
[11] Così: A. Baldassarre, Audizione informale, davanti alla 1a Commissione del Senato sui d.d.l. 1353 e d.d.l. 504, cit., seduta del 27/2/25, in https://webtv.senato.it/webtv/commissioni/ordinamento-giurisdizionale-e-corte-disciplinare-1.
[12] Si legga l’emendamento 3.1028, a firma dell’on.le Calderone, ritirato nella seduta del 9 gennaio 2024 per quanto detto nel testo. Significative le critiche dell’opposizione al ritiro dell’emendamento perché, come affermava il Min. Nordio, il testo doveva proseguire “blindato”: XIX Leg., Resoconto stenografico dell’Assemblea, Seduta n. 406 di giovedì 9 gennaio 2025, in https://www.camera.it/leg19/410?idSeduta=0406&tipo=stenografico.
[13] Commissione Bicamerale D’Alema, Progetto di legge costituzionale, Parte seconda, 4 novembre 1997, art. 122, in https://leg13.camera.it/parlam/bicam/rifcost/ressten/sed07102.htm.
[14] C. Castelli, Il sistema disciplinare dei magistrati una cosa seria, in Costituzionalismo.it, 1/2022, 137, ivi bibliografia citata.
[15] D. Cavallini, Gli illeciti disciplinari dei magistrati ordinari prima e dopo la riforma del 2006, Milano, 2011, in part. cap. II, 29 ss.; A. Caputo, Gli illeciti disciplinari, in E. Albamonte, P. Filippi (a cura di), Ordinamento Giudiziario. Leggi, regolamenti e procedimenti, Torino, 2009, 713 e M. Fresa, La giustizia disciplinare, Napoli, 2021, 26 ss.
[16] D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari.
[17] Corte Cost., sent. 26 febbraio 2020, n. 34, per un ampio commento arricchito da dottrina e giurisprudenza, si veda: L. Tavassi, Appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna, in Arch. Pen., 3/2020,3 ss.
[18] A. Pizzorusso, La Costituzione ferita, Roma-Bari, 1999, 149;
[19] Tra i molti, si veda: G. Canzio, Il disegno di lege costituzionale sulla separazione delle “distinte carriere” dei magistrati. Eterogenesi dei fini, aporie e questioni aperte, in www giustiziainsieme.it.
[20] Constituição da República Portuguesa – CRP – Título V. Decreto de Aprovação da Constituição em vigor. Diário da República 86/1976, Série I de 1976-04-10.
[21] E. M. Costa, Un’esperienza di separazione delle carriere: l’ordinamento portoghese, in Quest.Giust., 1/2018, 77.
[22] P. Costantini, Il modello portoghese di autogoverno della magistratura: evoluzione nella stabilità, in Dir. Pubbl. Comp. Eur., 4/2020.