“Passi” è il racconto della memoria: quella della Resistenza, genesi della democrazia a seguito della liberazione dal nazifascismo, di cui quest’anno ricorre l’80esimo anniversario, e quella del risveglio della coscienza individuale di ciascuno, quale ricerca del proprio posto nel mondo.

Protagoniste sono le donne, due donne: una nonna – Lia – e una nipote – Sybille che, smarrita, grazie al diario rosso di sua nonna, che si sviluppa per 12 mesi attraverso storie di guerra e ricostruzione, si ritrova.

Storie di un passato doloroso, quello dei rastrellamenti, che nonna Lia ha deciso di disvelare alla nipote, per non dimenticare e tenere viva la memoria, attraverso le pagine di questo diario che, a poco a poco, con grande delicatezza ci riporta in una Roma del 1953 che vuole rinascere dalle macerie della guerra ormai finita, fotografata da una giovanissima napoletana – Lia- lì apparentemente solo per ritrovare il suo amore perduto, Umberto.

Motore della scena iniziale è il racconto di Romina, in arte Ebe, una staffetta partigiana che, con la sua storia (vera) spinge nonna Lia a ritornare a Roma per ritrovare il suo Umberto ma è proprio a Roma che nonna Lia scopre la storia della sua famiglia, a poco a poco, pezzo pezzo, come quei pezzi dei messaggi che i suoi nonni, vittime dei rastrellamenti nazifascisti, si sono inviati fino alla morte; pezzi ritrovati in parte nella casa romana dei nonni e, in parte, grazie all’ aiuto di un rigattiere Quirino-Ludovico che lega, a doppio filo, la storia delle due donne.

La memoria e il valore della stessa, quale componente imprescindibile dell’essere, una memoria che stiamo progressivamente smarrendo, sempre più disorientati in un mondo che corre veloce e ci rende sempre più distratti, assenti, insensibili anche in giorni come questi che hanno segnato l’inizio della nostra storia, come democrazia, come Repubblica costituzionale. Piero Calamandrei, nel discorso del 26.01.1955, ai giovani milanesi diceva “Dietro ogni articolo di questa Costituzione o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa Carta. Quindi quando vi ho detto che questa è una Carta morta: no, non è una Carta morta. Questo è un testamento, un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio, nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati, dovunque è morto un italiano, per riscattare la libertà e la dignità: andate lì, o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione.”

Partigiane e partigiani, donne e uomini giovanissimi che, per la nostra libertà, la libertà di festeggiare il 25 aprile, hanno sacrificato la vita.

Sempre Piero Calamandrei scriveva “I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell’adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all’improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!». Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza”.

E, allora, proprio perché i ragazzi non lo sanno, gli adulti hanno il dovere morale di ricordarlo, di tenere viva la memoria, anche attraverso queste letture romanzate che segnano un ponte tra quello che siamo stati, che siamo, che saremo, per non dimenticare e per resistere contro le ingiustizie sociali e per i diritti, perché i diritti così come i doveri sono di tutti e tutti noi abbiamo il dovere di difenderli per il futuro dell’Umanità,  della democrazia e della giustizia sociale perché, come diceva Sandro Pertini, non c’è libertà senza giustizia sociale.

L’autrice, Anna Ausilia Ranieri, al suo secondo romanzo, è esempio vivo di come la parola narrata possa avere una forza dirompente nell’immaginario individuale e collettivo perché nel suo racconto c’è un pezzetto della storia di libertà e di rinascita che accomuna la storia di molte famiglie italiane.

Le storie che si intrecciano, come i papaveri della copertina (due come le storie narrate e i profili di donna rappresentati), ci rimettono sui “nostri passi” perché la vita è continuo movimento, continua Resistenza, come ci ha ricordato anche il nostro Presidente Mattarella.

Scarica il pdf

Condividi