Ricordiamo Papa Francesco con una riflessione di Gaspare Sturzo.
A seguire i discorsi di Papa Francesco del 9 febbraio 2019 nell’udienza all’Associazione Nazionale Magistrati in occasione dei centodieci anni dell’Associazione, e dell’8 aprile 2022 ai membri del Consiglio Superiore della Magistratura.
Lo Spirito Santo soffierà di nuovo
di Gaspare Sturzo
Sono passati tanti anni da quando Papa Francesco si presentò al mondo dopo aver scelto questo nome quale successore di Pietro. Pochi sul momento capirono di un gesuita argentino che sceglieva di ispirarsi a un santo che aveva deciso la via della semplicità per testimoniare l’amore di Cristo al mondo. Ma lo Spirito Santo stava soffiando forte. Aveva attraversato continenti, solcato mari, sfondato mura di pregiudizio umano, per darci questa nuova guida spirituale. Le scelte di Papa Francesco furono conseguenti alla scelta del nome nelle relazioni con i poteri costituiti dentro e fuori la Chiesa, a cominciare da Casa Santa Marta e, poi, la messa aperta di primo mattino con un messaggio al mondo, ogni giorno nuovo, diverso e sempre più impegnativo. Anche nella comunicazione con i cattolici e gli altri cittadini del mondo, il nuovo Papa iniziò a parlare in modo semplice, diretto e senza i filtri della gerarchia. Come non ricordare la frase “la corruzione spuzza”, o i discorsi in Calabria contro le mafie o gli interventi diretti in certe trasmissioni televisive anche laiciste. Un coraggio francescano misto alla forza teologica di un gesuita. Ma il suo ministero pontificio fu dedicato, con forza, alla ricerca di collegamenti con le Chiese del mondo per cercare le radici del male nell’umanità, come elemento comune su cui riflettere, pregare ed agire.
Diverse immagini restano nei nostri occhi tra cui le preghiere del Papa a Lampedusa per le stragi di migranti, consumate dai mercanti di uomini che sfruttano i sogni e la fame come la fuga dal terrore dei signori della guerra. La lavanda dei piedi ai detenuti. O le parole del Papa contro la violenza e lo sfruttamento delle donne definiti come “un crimine che distrugge l’armonia, la poesia e la bellezza che Dio ha voluto dare al mondo”. Dunque, il male, quello che è dentro ciascuno di noi e che può manifestarsi come indifferenza, egoismo, sfruttamento, inganno, calunnia, prepotenza e violenza. Il male come senso del dominio sul prossimo reso servo dalle mire di chi, per abuso del potere conquistato, crede di dover avere ragione oltre la ragionevole natura della ragione stessa.
Ed ecco la Chiesa che Papa Francesco ci presenta, quella a servizio del bene umano, che parla di pietà, di amore e di saper riconoscere il prossimo che soffre, anche oltre il mero diritto positivo ma su una base di diritti naturali che per i credenti si illuminano della Luce della Verità: il sacrificio di Gesù. Una croce che il Papa si è caricato sulle spalle nel cercare di fermare il male e il cattivo uso del potere umano.
Le sue battaglie contro le false culture dello scarto umano, cioè dell’abuso sessuale dei bambini, del rifiuto degli anziani e dell’abbandono di malati e sofferenti, come dello sfruttamento sistematico e illimitato di ogni risorsa del pianeta, del globalismo finanziario, dell’edonismo sociale, della guerra risolutrice dei conflitti umani, trovano nelle encicliche e nei discorsi di Papa Francesco non solo un rinnovarsi della dottrina sociale cristiana, ma una preghiera all’uomo e per l’uomo: non arrendersi al male. Avere sempre la speranza che assieme, mano nella mano, anche con chi la pensa diversamente, si possa fare almeno un tratto del cammino; scalare quel mondo di cattiveria che ci siamo creati per causa dei nostri vizi e percorrendo, ciascuno con la propria piccola o grande croce, il sentiero che porta alla sommità della speranza umana di un nuovo bene comune: l’amore incondizionato per il prossimo e, per chi crede, in quel prossimo che ha il volto di Cristo. Sulla sommità di quel monte oggi sarebbe bello non vedere croci che attendono ma sedersi lì per ascoltare il vento dello Spirito Santo che tornerà a soffiare per indicare il nuovo successore di Pietro. Ricordando ancora gli insegnamenti di Papa Francesco.
Il Papa ai magistrati: rispettate la dignità della persona e giudicate con uno sguardo di bontà
Nell’udienza del 9 febbraio 2019 all’Associazione Nazionale Magistrati, che in quell’anno compiva centodieci anni, il Papa esortò i giudici ad amministrare la giustizia con misericordia e ricordò anche i vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all’inizio e alla fine della vita.
Cos’è la giustizia? A quali mete deve tendere? Quali sono oggi le sfide per i magistrati?
Proiettando il proprio discorso rivolto ai magistrati verso questi orizzonti, che oltrepassano l’ambito meramente giuridico, Papa Francesco ricorda che viviamo “in un tempo nel quale così spesso la verità viene contraffatta”. È quindi necessario, sottolinea il Papa, “affermare la superiorità della realtà sull’idea”. Quest’ultima, invece, è solo una elaborazione della realtà.
I giudici, aggiunge, sono chiamati ad accertare “la realtà dei fatti” con puntualità e accuratezza attraverso “uno studio approfondito” e un “continuo sforzo di aggiornamento”. Ma questo fondamentale impegno si inserisce, spesso, in un tessuto sociale sfibrato e lacerato:
«Viviamo in un contesto attraversato da tensioni e lacerazioni, che rischiano di indebolire la tenuta stessa del tessuto sociale e affievoliscono la coscienza civica di tanti, con un ripiegamento nel privato che spesso genera disinteresse e diventa terreno di coltura dell’illegalità. La rivendicazione di una molteplicità di diritti, fino a quelli di terza e quarta generazione connessi alle nuove tecnologie, si affianca spesso a una scarsa percezione dei propri doveri e a una diffusa insensibilità per i diritti primari di molti, persino di moltitudini di persone».
La giustizia è una virtù
Per dare nuova linfa al tessuto sociale, afferma Francesco, va dunque riaffermato “il valore primario della giustizia, indispensabile per il corretto funzionamento di ogni ambito della vita”. Il Papa ricorda che la giustizia, secondo la tradizione filosofica, è “una virtù cardinale” che “indica la giusta direzione”. “È un punto di appoggio e di snodo”:
«La giustizia è dunque una virtù, cioè un abito interno del soggetto: non un vestito occasionale o da indossare per le feste, ma un abito che va portato sempre addosso, perché ti riveste e ti avvolge, influenzando non solo le scelte concrete, ma anche le intenzioni e i propositi».
Giustizia e pace
Senza il fondamentale punto di appoggio della giustizia, sottolinea il Pontefice, “tutta la vita sociale rimane inceppata, come una porta che non può più aprirsi, o finisce per stridere e cigolare, in un movimento farraginoso”. “Tutte le energie positive presenti nel corpo sociale”, devono concorrere al conseguimento della giustizia, perché questa “è il requisito principale per conseguire la pace”:
«A voi, magistrati, la giustizia è affidata in modo del tutto speciale, perché non solo la pratichiate con alacrità, ma anche la promuoviate senza stancarvi; non è infatti un ordine già realizzato da conservare, ma un traguardo verso il quale tendere ogni giorno».
Vuoti legislativi
Il Papa ricorda che i magistrati incontrano “mille difficoltà” nel loro quotidiano servizio, ostacolato “dalla carenza di risorse per il mantenimento delle strutture e per l’assunzione del personale”, “dalla crescente complessità delle situazioni giuridiche”, “dalla sovrabbondanza delle leggi”, “dal conflitto tra leggi diverse, antiche e recenti, nazionali e sovranazionali”. A questi ostacoli, osserva Francesco, si aggiungono vuoti legislativi.
Vuoti legislativi in alcune importanti questioni, tra le quali quelle relative all’inizio e alla fine della vita, al diritto familiare e alla complessa realtà degli immigrati. Queste criticità richiedono al magistrato un’assunzione di responsabilità che va oltre le sue normali mansioni, ed esige che egli constati gli eventi e si pronunci su di essi con un’accuratezza ancora maggiore.
Dedizione disinteressata
“In un contesto sociale nel quale sempre di più si percepisce come normale, senza alcuno scandalo, la ricerca dell’interesse individuale anche a scapito di quello collettivo”, i magistrati sono in particolare chiamati “ad offrire un segno della dedizione disinteressata” per tenere lontani “favoritismi e correnti” ed essere liberi “dalla ricerca di vantaggi personali”, capaci di respingere pressioni, segnalazioni o sollecitazioni. Francesco esorta anche l’Associazione Nazionale Magistrati a vigilare “sull’importante prerogativa dell’indipendenza della magistratura”. E, soprattutto, a rispettare la dignità di ogni persona:
«Proprio i tempi e i modi in cui la giustizia viene amministrata toccano la carne viva delle persone, soprattutto di quelle più indigenti, e lasciano in essa segni di sollievo e consolazione, oppure ferite di oblio e di discriminazione. Pertanto, nel vostro prezioso compito di discernimento e di giudizio, cercate sempre di rispettare la dignità di ogni persona, senza discriminazioni e pregiudizi di sesso, di cultura, di ideologia, di razza, di religione. Il vostro sguardo su quanti siete chiamati a giudicare sia sempre uno sguardo di bontà. “La misericordia infatti ha sempre la meglio nel giudizio”, ci insegna la Bibbia con queste parole ricordandoci che uno sguardo attento alla persona e alle sue esigenze riesce a cogliere la verità in modo ancora più autentico».
Non funzionari, ma modelli
Il Pontefice, rimarcando che i magistrati sono “ben più che funzionari, ma modelli di fronte a tutta la cittadinanza e in particolare nei confronti dei più giovani”, auspica infine che la giustizia “diventi sempre più “inclusiva”, “attenta agli ultimi e alla loro integrazione”. E si congratula con i magistrati perché custodiscono, con la memoria, le loro radici più importanti:
«Mi congratulo con voi perché fate memoria dei magistrati che hanno sofferto e perso la vita nel fedele svolgimento della loro mansione. A ciascuno di loro rivolgo anch’io, oggi, un particolare e riconoscente ricordo».
Discorso del Santo Padre Francesco ai Membri del Consiglio Superiore della Magistratura
8 aprile 2022
Illustri Signore e Signori!
Rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, al vostro Presidente, il Signor Presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella, al Vice-Presidente David Ermini, al primo Presidente della Corte di Cassazione Pietro Curzio, al Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione Giovanni Salvi, ai membri togati e ai membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura.
Siete stati chiamati a una missione nobile e delicata: rappresentate l’organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza dei magistrati ordinari e avete il compito di amministrare la giurisdizione. La Costituzione italiana vi affida una vocazione particolare, che è un dono e un compito perché «la giustizia è amministrata in nome del popolo» (Art. 101).
Il popolo chiede giustizia e la giustizia ha bisogno di verità, di fiducia, di lealtà e di purezza di intenti. Nel Vangelo di Luca, al capitolo 18, si racconta che una povera vedova si recava ogni giorno dal giudice della sua città e lo pregava dicendo: «Fammi giustizia» (v. 3). Ascoltare ancora oggi il grido di chi non ha voce e subisce un’ingiustizia vi aiuta a trasformare il potere ricevuto dall’Ordinamento in servizio a favore della dignità della persona umana e del bene comune.
Nella tradizione la giustizia si definisce come la volontà di rendere a ciascuno secondo ciò che gli è dovuto. Tuttavia, nel corso della storia sono diversi i modi in cui l’amministrazione della giustizia ha stabilito “ciò che è dovuto”: secondo il merito, secondo i bisogni, secondo le capacità, secondo la sua utilità. Per la tradizione biblica il dovuto è riconoscere la dignità umana come sacra e inviolabile.
L’arte classica ha rappresentato la giustizia come una donna bendata che regge una bilancia con i piatti in equilibrio, volendo così esprimere allegoricamente l’uguaglianza, la giusta proporzione, l’imparzialità richieste nell’esercizio della giustizia. Secondo la Bibbia occorre anche, in più, amministrare con misericordia. Ma nessuna riforma politica della giustizia può cambiare la vita di chi la amministra, se prima non si sceglie davanti alla propria coscienza “per chi”, “come” e “perché” fare giustizia. È una decisione della propria coscienza. Così insegnava Santa Caterina da Siena, quando sosteneva che per riformare occorre prima riformare sé stessi.
La domanda sul per chi amministrare la giustizia illumina sempre una relazione con quel “tu”, quel “volto”, a cui si deve una risposta: la persona del reo da riabilitare, la vittima con il suo dolore da accompagnare, chi contende su diritti e obblighi, l’operatore della giustizia da responsabilizzare e, in genere, ogni cittadino da educare e sensibilizzare. Per questo, la cultura della giustizia riparativa è l’unico e vero antidoto alla vendetta e all’oblio, perché guarda alla ricomposizione dei legami spezzati e permette la bonifica della terra sporcata dal sangue del fratello (cfr n. 252). Questa è la strada che, sulla scia della dottrina sociale della Chiesa, ho voluto indicare nell’Enciclica Fratelli tutti, come condizione per la fraternità e l’amicizia sociale.
L’atto violento e ingiusto di Caino, infatti, non colpisce il nemico o lo straniero: è compiuto contro chi ha lo stesso sangue. Caino non può sopportare l’amore di Dio Padre verso Abele, il fratello con cui condivide la sua stessa vita. Come non pensare alla nostra epoca storica di globalizzazione diffusa, in cui l’umanità si trova a essere sempre più interconnessa eppure sempre più frammentata in una miriade di solitudini esistenziali? Questo rapporto che sembra contraddittorio tra la interconnessione e la frammentazione: ambedue insieme. Come mai? È la nostra realtà: interconnessi e frammentati. La proposta della visione biblica è, al cuore del suo messaggio, l’immagine di un’identità fraterna dell’intera umanità, intesa come “famiglia umana”: una famiglia in cui riconoscersi fratelli è un’opera a cui lavorare insieme e incessantemente, sapendo che è sulla giustizia che si fonda la pace.
Quando le tensioni e le divergenze crescono, per farsi nutrire dalle radici spirituali e antropologiche della giustizia occorre fare un passo indietro. E poi, insieme agli altri, farne due in avanti.
Così, la domanda storica sul “come” si amministra la giustizia passa sempre dalle riforme. Il Vangelo di Giovanni, al cap. 15, ci insegna a potare i rami secchi senza però amputare l’albero della giustizia, per contrastare così le lotte di potere, i clientelismi, le varie forme di corruzione, la negligenza e le ingiuste posizioni di rendita. Questa problematica, queste situazioni brutte voi le conoscete bene, e tante volte dovete lottare fortemente perché non crescano.
Il “perché” amministrare ci rimanda invece al significato della virtù della giustizia, che per voi diventa un abito interiore: non un vestito da cambiare o un ruolo da conquistare, ma il senso stesso della vostra identità personale e sociale.
Quando Dio chiede al re Salomone: “Cosa vuoi che io faccia per te?”, il figlio di Davide gli risponde: «Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male» (1Re 3,9). Bella preghiera! Per la Bibbia “saper rendere giustizia” è il fine di chi vuole governare con sapienza, mentre il discernimento è la condizione per distinguere il bene dal male.
La tradizione filosofica ha indicato la giustizia come virtù cardinale per eccellenza, alla cui realizzazione concorrono la prudenza, quando i principi generali si devono applicare alle situazioni concrete, insieme alla fortezza e alla temperanza, che ne perfezionano il conseguimento. Dal racconto biblico non emerge un’idea astratta di giustizia, ma un’esperienza concreta di uomo “giusto”. Il processo a Gesù è emblematico: il popolo chiede di condannare il giusto e di liberare il malfattore. Pilato si domanda: “Ma che cosa ha fatto di male costui?”, poi però se ne lava le mani. Quando si alleano i grandi poteri per auto-conservarsi, il giusto paga per tutti.
Sono la credibilità della testimonianza, l’amore per la giustizia, l’autorevolezza, l’indipendenza dagli altri poteri costituiti e un leale pluralismo di posizioni gli antidoti per non far prevalere le influenze politiche, le inefficienze e le varie disonestà. Governare la Magistratura secondo virtù significa ritornare a essere presidio e sintesi alta dell’esercizio al quale siete stati chiamati.
Il Beato Rosario Livatino, il primo magistrato Beato nella storia della Chiesa, vi sia di aiuto e di conforto. Nella dialettica tra rigore e coerenza da un lato, e umanità dall’altro, Livatino aveva delineato la sua idea di servizio nella Magistratura pensando a donne e uomini capaci di camminare con la storia e nella società, all’interno della quale non soltanto i giudici, ma tutti gli agenti del patto sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia. «Quando moriremo – sono le parole di Livatino –, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili». Livatino è stato assassinato a soli trentotto anni, lasciandoci la forza della sua testimonianza credibile, ma anche la chiarezza di un’idea di Magistratura a cui tendere.
La giustizia deve sempre accompagnare la ricerca della pace, la quale presuppone verità e libertà. Non si spenga in voi, illustri Signore e Signori, il senso di giustizia nutrito dalla solidarietà nei confronti di coloro che sono le vittime dell’ingiustizia, e nutrito dal desiderio di vedere realizzarsi un regno di giustizia e di pace.
Il Signore benedica tutti voi, il vostro lavoro e le vostre famiglie. Grazie.