Un film: “Francesca e Giovanni” – un libro: “La mafia non deve fermarvi”
Il coraggio di Francesca e Rosaria

di Mirella Cervadoro

1. Sabato 23 Maggio 1992, la strage di Capaci.

Alle 17 e 56 minuti del 23 maggio 1992, i sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata, in Sicilia, registrarono una forte onda d’urto. A provocarla non era stato però un terremoto.

Nel tragitto da Punta Raisi a Palermo, all’altezza dello svincolo autostradale di Capaci, un’esplosione di inaudita potenza aveva investito la Fiat Croma blindata, su cui viaggiavano il giudice Giovanni Falcone e la moglie Francesca, e le due auto della scorta. Nell’attentato, persero la vita Francesca Morvillo, Giovanni Falcone, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Numerosi i feriti, anche gravi, tra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista Giuseppe Costanza.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il 23 maggio dell’anno scorso, in occasione della Giornata della legalità e della commemorazione della strage di Capaci nel Comune di Bagheria, così ha ricordato le vittime e gli eventi di quella stagione:

«L’attentato di Capaci fu un attacco che la mafia volle scientemente portare alla democrazia italiana. Una strategia criminale, che dopo poche settimane replicò il medesimo, disumano, orrore in via D’Amelio. Ferma fu la reazione delle Istituzioni e del popolo italiano. Ne scaturì una mobilitazione delle coscienze. La lezione di vita di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino divennero parte della migliore etica della Repubblica.

A trentadue anni da quel tragico 23 maggio è doveroso ricordare anzitutto il sacrificio di chi venne barbaramente ucciso: Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Vito Schifani. Insieme a loro ricordiamo Paolo Borsellino, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Li Muli, Claudio Traina. Testimoni di legalità, il cui nome resta segnato con caratteri indelebili nella nostra storia.

I loro nomi sono affermazione di impegno per una vittoria definitiva sul cancro mafioso e il pensiero commosso va ai loro familiari che ne custodiscono memoria ed eredità morale.

Come sostenevano Falcone e Borsellino, la Repubblica ha dimostrato che la mafia può essere sconfitta e che è destinata a finire. L’impegno nel combatterla non viene mai meno. I tentativi di inquinamento della società civile, le intimidazioni nei confronti degli operatori economici, sono sempre in agguato. La Giornata della legalità che si celebra vuole essere il segno di una responsabilità comune. È necessario tenere alta la vigilanza. Gli anticorpi istituzionali, la mobilitazione sociale per impedire che le organizzazioni mafiose trovino sponde in aree grigie e compiacenti, non possono essere indeboliti.  L’eredità di Falcone e Borsellino è un patrimonio vivo che appartiene all’intera comunità nazionale. Portare avanti la loro opera vuol dire lavorare per una società migliore».

La storia – come ben sappiamo – non la fanno i contemporanei, che non raramente molte cose ignorano e altre non comprendono, altre ancora preferiscono non conoscere.  La storia viene fatta dopo da coloro che la studiano con attenzione, e con altrettanta attenzione la raccontano e la interpretano quando gli eventi sono passati. Spesso occorre molto più tempo di quanto si possa immaginare perché questo processo abbia esito.

Aspettando i tempi della storia, i contemporanei possono dare però un contributo importante, per mantenere vivo il ricordo ed evitare le mistificazioni. A ogni commemorazione della strage di Capaci, non posso fare a meno di ricordare e ricordarmi infatti che «allora come oggi la grammatica comunicativa è la stessa, se non peggiore»[1].

Chi, come me, all’epoca era già magistrato, ricorda esattamente quando e come ebbe la notizia dell’attentato, e – con la notizia – lo sgomento e i pensieri.

Le immagini terribili trasmesse in quel sabato pomeriggio di maggio, nel corso dell’edizione straordinaria dei telegiornali, evocavano in tutto il loro orrore il fragore della deflagrazione. A quel fragore “visto” da lontano ma assordante non potei non associare nell’immediatezza il ricordo dell’applauso fragoroso e prolungato, una vera ovazione[2], quando al termine dell’ intervento al convegno organizzato a Erice nell’ottobre del 1988 dal Centro Majorana, Corrado Carnevale, all’epoca presidente della prima sezione penale della Corte di Cassazione, aveva fatto riferimento ai pool antimafia, a suo dire discutibili «quando rivendicano l’esclusiva trattazione di processi di un certo tipo»[3].

 E quindi mi tornò in mente una frase di Giovanni Falcone:

«Per essere credibili bisogna essere ammazzati in questo Paese»[4].

2. Il film “Francesca e Giovanni” di Simona Izzo e Ricky Tognazzi

Per commemorare le vittime della strage di Capaci, e con loro tutte le vittime della mafia, preferiamo – in questo trentatreesimo anniversario – ricordare gli eventi attraverso la vita e la memoria di due donne coraggiose i cui destini si sono incrociati in quel terribile sabato pomeriggio: Francesca Morvillo e Rosaria Costa, giovanissima moglie di Vito Schifani.

Di Francesca Morvillo non vi sono interviste. Gli amici e i colleghi, che le erano vicini, la definiscono donna affettuosa, dolce, molto riservata nella vita privata[5], magistrata rigorosa e sensibile nella vita lavorativa: «era un rigore elegante, perché anche nella forma c’è un significato. Quando presentava le ragioni dell’accusa con una descrizione dei fatti, e quindi un riferimento specifico alla personalità degli autori, lo faceva con grande attenzione verso la persona imputata e il suo vissuto […]alla Procura per i minorenni […]anni intensi […]i ragazzi seguiti da lei potevano avere una chance in più […] Soprattutto nei confronti dei minori questo tipo di approccio è fondamentale perché  ci si muove nell’ottica del recupero che è l’obiettivo fondamentale del processo […]  Come  donna  aveva fatto una scelta di vita molto netta, aveva abbracciato l’ideale di essere donna in una società, impegnandosi affinché quella stessa società potesse migliorare. Era convinta che la vita dovesse essere spesa affinché dopo rimanesse del nostro passaggio anche una briciola di positività. Lei è stata moglie di Falcone come conseguenza del suo modo di essere. Sentiva la giustizia come la bellezza della società e quindi ha fatto di tutto perché questi ideali potessero realizzarsi, anteponendo un ideale anche a sé stessa ed alla sua vita. Impegnarsi, lottare, affrontare tutti i sacrifici che si presentavano, compreso quello di rinunciare a una vita normale per vivere insieme a questo uomo, e coltivare insieme i medesimi ideali, tutto questo è significativo ed esprime una donna che è capace di un sentire straordinario. E questo deve essere l’esempio, impegnarsi attraverso il contributo che ciascuno di noi può dare»[6].

La storia di Francesca Morvillo è raccontata in questi giorni nelle sale cinematografiche dal film “Francesca e Giovanni – Una storia d’amore e di mafia” di Simona Izzo e Ricky Tognazzi. La storia d’amore è quella tra Francesca Morvillo e Giovanni Falcone. La storia di mafia è quella della Palermo degli anni Ottanta e Novanta dove gli uomini dello Stato venivano uccisi in attentati sanguinari.

Il 6 maggio 2025, nella Corte Suprema di Cassazione – Aula Avvocati, il film è stato presentato in anteprima. La proiezione è stata introdotta dal Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, Paolo Nesta, e preceduta dagli interventi della Prima Presidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, del Procuratore Generale della Corte di Cassazione, Pietro Gaeta, del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Roma, Giuseppe Amato, e di altre importanti cariche istituzionali.

Alfredo Morvillo, magistrato anche lui e già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trapani, ha raccontato le origini di questo progetto e la volontà di rendere omaggio a sua sorella Francesca e al cognato Giovanni con un racconto emozionante e intimo. L’autore del libro “Francesca – Storia di un amore in tempo di guerra” a cui il film è ispirato, Felice Cavallaro, e il regista Ricky Tognazzi hanno, quindi, raccontato la genesi del film attraverso il loro punto di vista artistico, e l’orizzonte narrativo, focalizzato sulla figura di una donna così importante, ma poco conosciuta e raccontata, soprattutto per quanto riguarda la sua attività di magistrato, come quella di Francesca.

Scritto da Simona Izzo insieme a Domitilla Di Pietro e Felice Cavallaro, la pellicola si muove tra una realtà storica importante e libertà narrativa. L’intenzione degli Autori, nel narrare una storia di amore e mafia, è quella di guardare dentro le vite spezzate dall’attentato di Capaci, e in particolare dentro la vita di Francesca Morvillo.

La scelta di tradurre in immagini filmiche il libro di Cavallaro, in cui ogni capitolo è una piccola storia a sé stante sulla base dei racconti del fratello e della cognata di Francesca, nonché di toccanti esperienze personali dello stesso Autore, non era scelta facile, così come non era facile l’obiettivo perseguito e raggiunto di raccontare Francesca andando oltre l’etichetta di “moglie di Giovanni Falcone” che le tragiche e dolorose circostanze della Strage di Capaci le hanno conferito. Troppo grande poi la storia di Falcone, troppo riservata e poco conosciuta la storia e l’attività professionale della Morvillo.

Il film, pur muovendosi tra realtà storica e finzione narrativa, riesce comunque a evidenziare bene la figura di magistrato di Francesca, i suoi ideali, e il suo originale contributo alla giustizia minorile. L’intento anche educativo, ma non didascalico, di ridare una dignità umana e professionale a Francesca Morvillo attraverso il suo operato professionale, e alle sue idee, è stato quindi sicuramente centrato; e da questo punto di vista, il lavoro di Simona Izzo e Ricky Tognazzi assume già un forte valore. La narrazione pacata e discreta che potrebbe a una prima e superficiale lettura apparire opaca, e l’interpretazione sempre misurata di Ester Pantano sono poi perfettamente adeguate e in linea con il profilo di Francesca, che – moderna eroina da tragedia greca dotata di forza straordinaria e profonda consapevolezza del suo ruolo – sentiva e viveva i suoi ideali con determinazione e coerenza, ma esprimeva la sua sofferenza in modo più soppresso e silenzioso, nella ricerca costante di una vita “normale”, che forse trovò – alla fine – in quei pochi e ultimi giorni a Roma.

Il punto di forza del film è quindi quello di aver scelto di spostare l’orizzonte narrativo e lasciare che sia lo sguardo di Francesca Morvillo a mostrarci la storia attraverso il suo personale e intimo punto di vista.

La storia inizia a Palermo nel 1979. Palermo è sconvolta dagli attentati di mafia. Francesca Morvillo è una sostituta procuratrice al Tribunale per i minorenni di Palermo; viene chiamata per seguire un efferato caso di omicidio che coinvolge un giovanissimo ragazzo di nome Dino, accusato dell’uccisione del padre. E la madre è pronta a sacrificare il proprio figlio in un ostile e rigido clima di omertà.  È qui che emerge in tutta la sua grandezza e originalità la figura di Francesca, giovane magistrata fedele ai suoi valori che cerca di cambiare un sistema giudiziario e penitenziario retrogrado e inadeguato, che vorrebbe solo punire i minori invece di educarli, riabilitarli e offrire loro un futuro diverso da quello dei propri padri.

L’inizio e la fine del film sono quindi legati dal forte ideale di Francesca di impegno per una società migliore. Mentre Palermo brucia e tanti eroi dell’antimafia, e amici e colleghi di Francesca e Giovanni, cadono per servizio, i due protagonisti continuano la loro vita “normale”, due vite che si sostengono e si completano nel reciproco amore ma che sono perfettamente consapevoli che molto difficilmente per loro arriverà il lieto fine.

È palpabile nella narrazione la percezione pur lieve e sussurrata del fato, unitamente alla resilienza e alla grande forza interiore dei protagonisti. La capacità di affrontare le difficoltà e di reagire di fronte alle sfide, anche quando il destino sembra avverso, è del resto un tratto distintivo della narrativa e della cultura siciliana.

Un film semplice e garbato, come Francesca, che procede spedito, intrattiene e commuove, ricordandoci l’importanza di uomini e donne comuni sì ma dall’elevato senso di giustizia che la vita prima e la tragedia finale hanno reso infine degli eroi a pieno titolo. E con essi l’ideale di Francesca che sentiva la giustizia come la bellezza della società.

3. Il libro “La mafia non deve fermarvi” di Rosaria Costa

Il 23 maggio 1992 Francesca Morvillo, che aveva creduto fortemente nella giustizia, perdeva la vita. Il 23 maggio 1992 Rosaria Costa, una giovanissima mamma e maestra, cominciava il suo doloroso cammino alla ricerca della giustizia. Due storie, due percorsi di vita e di coraggio, che si sono drammaticamente incrociate in quel caldo e tragico sabato pomeriggio.

Rosaria all’epoca aveva appena ventidue anni, era la moglie di Vito Schifani e la mamma di un bambino di quattro mesi, Antonino Emanuele.

Della mattina del 23 maggio 1992, Rosaria ricorda «un Vito taciturno e pensieroso. Stette con Antonino tutto il giorno stringendolo al petto. “Come sta crescendo, il mio Bibi” continuava a ripetermi. […] Durante il nostro ultimo pranzo, Vito continuava a ripetere: “Mi hanno messo di turno un’altra volta, e me lo hanno comunicato all’ultimo momento”. Ero spaventata, ma Vito continuava a tranquillizzarmi dicendo che bisognava assicurare la protezione al magistrato, e che, quel sabato, sarebbero stati in tre a subire il cambio di programma e sostituire dei colleghi che non potevano garantire la scorta al giudice Falcone»[7].

I meno giovani hanno visto le immagini trasmesse dalla televisione dei funerali di Stato per le vittime della strage di Capaci, e ricorderanno il volto addolorato di Rosaria, quando – avvicinatasi all’altare – trova la forza di leggere tra le lacrime una lettera ai mafiosi che si conclude con la frase: «So che siete anche qui. Vi perdono ma inginocchiatevi»[8].

Da quei fatti tragici del 23 maggio 1992, «quando a vincere sul bene furono uomini votati al male»[9] sono passati trentatrè anni.

E il percorso di Rosaria Costa è stato lungo e doloroso, come lei stessa racconta nel libro “La mafia non deve fermarvi”. Ma, convinta sin da giovanissima che «ognuno di noi, con il proprio comportamento, può fare la differenza»[10], ha affrontato con determinazione e coraggio tutte le numerose “prove” della vita e ha trasformato la rabbia dei giorni successivi alla strage in un percorso di verità e giustizia.

Nell’introduzione, scrive Rosaria: «La mia vita, un’esistenza traboccante di eventi, così veloci da potersi considerare meteore nella notte di San Lorenzo; le vedi, provi a seguirle con lo sguardo prima che divampino, frantumandosi, scomparendo per sempre, lasciando dietro di sé una lieve scia che rapidamente diventa un ricordo indelebile. E quando ci ripenso, eccole le mie meteore, i miei ricordi di attimi rapidi e sfuggenti che hanno lasciato un segno, un solco, che comincia dal principio.

Nasco negli anni Settanta in una città alla mercé della mafia, la mia Palermo in cui, a fatica, ogni tanto faccio ritorno, nel quartiere di Vergine Maria».

E della sua infanzia narrano i primi capitoli: «Per noi bambini vivere nella borgata di Vergine Maria era il massimo. La casa dove abitavamo sorgeva ai piedi del monte Pellegrino, immersa in un verde florido dalle mille sfumature. Il mandorlo, il pesco, il gelso, maestosamente carico di frutti color sangue, davano il meglio di sé nel pieno della stagione estiva, quando il caldo del meriggio ti avvolgeva, bagnandoti la fronte»[11].

Il racconto continua con episodi e personaggi dell’adolescenza che, si sa, «è problematica», della famiglia patriarcale «ovattata da sani e solidi principi morali, alla quale il male era sconosciuto», del fratello Giuseppe che aveva abbandonato gli studi a causa di un grave trauma nell’infanzia, delle avventure turistiche e dei desideri per il futuro. Voleva diventare operatrice turistica, e ha frequentato due anni dell’Istituto Tecnico. Poi, alla fine del biennio, per volere del padre che temeva «grilli per la testa», aveva dovuto iscriversi all’Istituto Magistrale, così avrebbe potuto «insegnare e stare vicino a casa, invece di viaggiare per il mondo». Quindi l’incontro con le missionarie americane e le visite alle famiglie bisognose dello Zen.

Gli episodi di vita di Rosaria sono interpolati dagli eventi drammatici di quegli anni a Palermo: l’uccisione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro nel 1982, di Rocco Chinnici nel 1983, di Beppe Montana, Ninni Cassarà e Roberto Antiochia nel 1985. E nel 1986 il maxi-processo, che spaccò la città in due, lamentandosi una parte dei cittadini dei pericoli per loro di rimanere vittime di esplosioni o accidenti vari, e finanche delle sirene delle autovetture della polizia.

La prima delle tante prove dolorose che Rosaria dovrà affrontare è la morte del padre nel 1989. Quindi l’abbandono della casa dell’infanzia. L’Uditore era il quartiere nel quale era cresciuta la madre e dove Rosaria, la madre e la sorella andarono a finire loro malgrado, senza più il profumo degli alberi e del mare.

I capitoli 16, 17, 18 e 19 sono dedicati all’incontro con Vito, il ragazzo con la barba lunga, gli occhi grandi e il sorriso disarmante che sognava di vincere il concorso per elicotterista, ai bambini della colonia comunale che quando conobbero Vito in divisa da poliziotto rimasero contrariati e le rimproverarono di essersi fidanzata con uno “sbirro”, al matrimonio e alla nascita di Antonino Emanuele.

Seguono i capitoli della vigilia e della tragedia di maggio. E i funerali di Stato.

Dopo, il mondo intero si fece sentire. Tante le lettere, tante le telefonate di conforto. Tra le tante, le parole di affetto di Saveria Antiochia, madre di Roberto, chiamata da Rosaria “madre coraggio”, perché fino alla fine dei suoi giorni ha parlato del figlio e girato per le scuole, combattendo il silenzio e dando voce al cuore.

Nel capitolo 28 Rosaria racconta l’incontro con Paolo Borsellino; e nel capitolo 33 “Addio al giudice fedele” la strage di via D’Amelio.

Seguono notti insonni, e mesi difficili. Un viaggio negli Stati Uniti d’America e l’incontro con il Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro.

Nell’agosto 1995, una nuova vita si apre per caso, e dopo il matrimonio con Gianluigi la partenza da Palermo. Quindi la nascita di Desirée e di Erika. Poi Rosaria deve affrontare un’altra dura prova della vita.

Gli ultimi capitoli del libro sono dedicati al ballo con il figlio Emanuele nella serata organizzata dalla Guardia di Finanza per i cento giorni mancanti al termine del biennio dell’Accademia (capitolo 49), al venticinquesimo anniversario della strage (capitolo 51), e quindi alle riflessioni dell’Autrice sulle stragi, su Cosa nostra o meglio “cosa sporca” come preferisce chiamarla[12], al suo ritorno a Palermo.

Termina così il viaggio nella memoria di Rosaria, cominciato nel 2003 per fugare i fantasmi e culminato nella stesura di un libro venti anni dopo. La storia di una bambina curiosa e sensibile, che amava il mare e che avrebbe voluto viaggiare per il mondo, una ragazza che a soli ventidue anni ha visto distrutto il suo amore e il suo piccolo universo ed è rimasta sola con un bimbo di quattro mesi, una donna che ha continuato a cercare per tutta la vita la verità e la giustizia, ed è rimasta sempre in prima fila nella sua missione di testimonianza. Una donna serena e coraggiosa che sa che i fantasmi torneranno ancora provocando disagio, ma che oggi lei sa anche come combatterli.

Grazie, Rosaria, di averci permesso di ricordare la strage di Capaci e le sue Vittime tramite le pagine del tuo libro e la tua testimonianza. La mafia non ti ha fermata. Sei stata costretta ad accettare la morte, ma hai vinto e sei riuscita a trasformare la rabbia in ricerca di Verità e Giustizia.

Grazie, Rosaria, anche del ricordo di Vito “Le anime belle mai si dimenticano” che mi hai inviato, e che a nome mio e della redazione tutta della rivista Diritto Giustizia e Costituzione dedichiamo con riconoscenza e affetto a Vito Schifani, a tutte le Vittime della strage di Capaci e a tutti i rappresentanti delle forze dell’ordine che hanno perso la vita, uccisi in attentati della mafia.

A Vito Schifani
e a tutte le Vittime della mafia

Le anime belle mai si dimenticano

Cara Mirella, come promesso ti mando un ricordo.
Incontrarti è stato un segno dal cielo. E di questo ne sono molto felice.
Ho conosciuto Vito Schifani, giovane poliziotto davanti all’ufficio di collocamento dove io mi accingevo a presentare la mia domanda di assunzione alla colonia comunale, ero una giovane maestra in attesa di lavoro.
Vito aveva un sorriso disarmante e modi gentili, da quel giorno nasceva un amore…
Della mattina del 23 maggio ricordo un Vito taciturno e pensieroso. Stette con nostro figlio tutto il tempo, stringendolo al petto.
Durante il nostro ultimo pranzo continuava a ripetere: “mi hanno messo di turno un’altra volta”.
Ero spaventata, ma Vito continuava a tranquillizzarmi dicendo che bisognava assicurare la protezione al magistrato. NON ASPETTARMI SVEGLIA perché non sappiamo a che ora smontiamo. Queste sue parole mi fecero capire che sarebbe tornato a casa tardissimo.
Il Giudice Falcone era molto legato alle sue sorelle e quando tornava a Palermo da Roma le andava a trovare.
Alle 15.30 ricevetti una telefonata di Vito:
“Che fai? Ha mangiato il bambino?”
Cara Mirella, queste furono le ultime parole di Vito. Il pensiero del figlio.

Seppi della strage da un amico di Vito, Massimo. Che con la voce rotta dal dolore, mi disse: «Rosaria, hanno fatto un attentato al giudice Falcone! Mi dispiace che tu lo venga a sapere da me, ma ci sono dei morti».
Il resto è storia. Pensa che, quando telefonai alla Questura, non mi seppero dare neanche loro notizie. Mi dissero guardi il telegiornale.
Con l’aiuto di alcuni vicini di casa andai in ospedale a cercare Vito tra i feriti. A tarda sera Gaetano, collega e amico di Vito, con le lacrime agli occhi mi confermò la morte di mio marito e degli altri suoi due colleghi: Rocco Di Cillo e Antonio Montinaro.
Mirella cara, per anni ho sentito nella mia mente le urla di dolore delle madri dei caduti a Capaci e in via D’Amelio, mai potrò dimenticare i funerali di Stato, le cinque bare disposte una accanto all’altra nella chiesa di San Domenico. Gremita di dolore. Le urla della gente comune che invitava i politici ad andare via da quella chiesa.
Erano giovani e pieni di vita gli otto poliziotti caduti per mano di uomini senza Dio. Soprattutto erano consapevoli di essere facili bersagli come i loro magistrati.
Il compito delle persone per bene, cara Mirella, è quello di ricordare donne e uomini dello Stato che non volevano morire. Vite e sogni spezzati di figli, mariti e padri di famiglia che amavano la vita.
Chi ha scelto come noi di vivere nella Legalità e nella Giustizia ha il dovere sacrosanto di essere d’esempio per le nuove generazioni. Come hanno fatto donne e uomini dello Stato che non si sono piegati a nessuno.
Credo fermamente che l’uomo non sia altro che il riflesso della propria anima, e che gli assassini di Capaci siano delle belve, colpevoli di essersi macchiati le mani di sangue innocente, che dalla terra grida giustizia in alto dei cieli.
Cara Mirella grazie!

Con affetto
Rosaria


[1] Così R. Saviano, Falcone voleva vivere e i suoi nemici non erano solo i mafiosi, in La Repubblica, 23 Maggio 2017

[2] All’epoca ero una giovane magistrata con pochi anni di servizio, ma avevo già potuto constatare quanto fosse difficile il mestiere di magistrato. E sull’agenda non passava anno che non venisse annotata la morte di un collega o di un rappresentante delle forze di polizia caduto per mano di terroristi o della mafia. Il Convegno, organizzato a Erice nell’ottobre del 1988 dal Centro Majorana, aveva ad oggetto la normativa del nuovo codice di procedura penale, che sarebbe entrato in vigore di lì a poco, e quell’applauso, in piedi, fragoroso e prolungato di una platea variegata di giuristi, dopo un riferimento critico del relatore ai pool antimafia come strutture deputate a effettuare indagini per determinate tipologie di reati, mi stupì e sconvolse allo stesso tempo. Non tanto per la cosa in sé, che peraltro mi sembrò inusuale, quanto per il luogo in cui ci trovavamo, a pochi chilometri da Trapani dove nel giro di poche settimane, appena un mese prima, erano stati uccisi per mano di Cosa nostra Alberto Giacomelli (magistrato, Presidente di Sezione del Tribunale di Trapani fino  al 1987, ucciso il 14 settembre 1988, perché nel 1985 aveva firmato il provvedimento di sequestro di beni a Gaetano Riina, fratello di Totò Riina) e Mauro Rostagno (giornalista, simbolo della lotta contro la mafia e dell’impegno civile, assassinato in contrada Lenzi, mentre rientrava alla comunità Saman, che dirigeva, dopo aver trascorso la giornata negli studi della televisione locale RTC, dove curava il notiziario, il 26 settembre 1988).

[3] La relazione del presidente Carnevale, e le sue dichiarazioni ebbero all’epoca un grande risalto sulla stampa nazionale. V. F.Cavallaro, Perché sono diventato un ammazzasentenze, in Corriere della Sera, 30 ottobre 1988; Id., Noi viviamo la realtà mafia, Carnevale soltanto i dossier, in Corriere della Sera, 31 ottobre 1988; Id., Andò difende Carnevale, la protesta si allarga alla Calabria, in Corriere della Sera, 1 novembre 1988; F.Vitale, Mafia? Non devo combatterla io, in l’Unità, 30 ottobre 1988.

Giampaolo Pansa, sul quotidiano La Repubblica del 1.11.1988, scrisse poi un articolo dal titolo “Se Alice arriva nel paese della mafia”, nel quale commentava l’intervento al convegno, osservando tra l’altro che «dalla rocca di Erice, il dottor Corrado Carnevale ha detto la sua a proposito di alcune questioni di non poco conto: la mafia, la lotta alla mafia, i pool antimafia, la funzione del giudice, i cosiddetti giudici intoccabili e/o infallibili. Il dottor Carnevale ha pieno titolo per affrontare questi temi. Egli, infatti, è un magistrato molto importante. Presiede in Roma la prima sezione penale della Corte di Cassazione. In tale veste ha annullato per vizi di forma molti verdetti in processi di mafia e molti mandati di cattura. A causa di ciò, le malelingue l’hanno ribattezzato l’ammazzasentenze. A mio parere, quest’ etichetta è senza fondamento e, di conseguenza, ingiusta. Infatti, se il dottor Carnevale è arrivato ad uno scranno così alto, sarà di certo un ottimo professionista. E dunque avrà avuto le sue buone ragioni per contribuire alle decisioni d’annullamento. Queste ragioni, qui, non ci sogniamo di discuterle. Ci piace, invece, discutere alcune delle opinioni espresse ad Erice dal dottor Carnevale. Discussione legittima poiché quelle opinioni sono state dichiarate in pubblico, e non da un Signor Nessuno ma, appunto, da un altissimo magistrato. Il quale altissimo magistrato vien descritto così dall’ inviato di un giornale: un’ intransigenza d’acciaio celata dall’ aspetto quasi dimesso di un impiegato un pò grigio e un pò all’antica. Non conoscendo di persona il dottor Carnevale, non dubito che l’effetto numero uno prodotto dal medesimo sul prossimo sia proprio questo. Ma se debbo stare alle sue parole, l’effetto numero due è un altro: quello d’ un viaggiatore venuto dalla Luna e piombato per caso in una parte del pianeta terrestre chiamata Italia».

V., altresì, con riferimento alla strage di Capaci, dello stesso Autore, Quando Falcone cominciò a morire, nella rubrica “Bestiario”, in L’Espresso, 7 giugno 1992, nel quale viene passato in rassegna con il rigore del cronista il clima intorno al magistrato e al pool: « […] Il 31 luglio, il Giornale di Milano descrive i giudici del pool così: «Super-magistrati, super-scortati e super-specializzati nello scardinamento delle cosche», «un ristretto e impenetrabileclub di toghe», giudici «ammantati di speciali meriti antipiovra». Su tutti campeggia Falcone, ossia «Mito», «Fenomeno», «Falconcrest»: «La sua scorta è leggendaria», «la stampa l’ha intervistato a più riprese e osannato». Ma dietro Falcone chi c’è? Il Pci, naturalmente. Scrive il Giornale: «I comunisti mirano a controllare l’antimafia e appoggiano a spada tratta i magistrati-personaggio della cordata Falcone». […] Il 2 agosto 1988, ancora il Giornale giudica così il lavoro di Falcone e del pool: «Indagini che vanno a rilento. Inchieste che mancano il bersaglio. Rinvii a giudizio che si trasformano in clamorose assoluzioni». Il 3 agosto compaiono altri due capi d’accusa: «Cultura del sospetto» e «oltranzismo antimafioso».

[4] Così Giovanni Falcone aveva risposto nel corso di un programma televisivo a una ragazza che gli chiedeva: «In Sicilia si muore perché si è lasciati soli. Giacché lei fortunatamente è ancora tra noi, chi la protegge?». Erano i giorni in cui girava voce che l’attentato all’Addaura (era stata trovata una borsa di tritolo sulla scogliera davanti alla sua casa al mare) lo avesse organizzato da solo per fare carriera, perché la mafia non sbaglia: se vuole uccidere uccide.

[5] Secondo le persone a lei più vicine sembra difficile, se non impossibile, che venga fuori qualche racconto sulla vita di Francesca. Da parte di tutti c’era il rispetto di questa sua riservatezza; e per questo, forse, oltre ai ricordi familiari del fratello e della cognata –  non si  trovano  episodi che la riguardano.

[6] Così descrive Francesca la collega Amalia Settineri, nel corso di una lunga intervista “Amalia Settineri e il ricordo di una collega e amica geniale: Francesca Morvillo”, in La voce di New York, “Primo Piano”, 14 dicembre 2019. Sottolinea la Settineri, collega di Francesca ai tempi della sua attività alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i Minorenni di Palermo, che la caratteristica maggiore della Morvillo nell’ambito professionale era «senz’altro l’ascolto, che è ciò che distingue un magistrato minorile da qualsiasi altro magistrato. Dote che nasce dalla propria  personalità e dalla  consapevolezza che nel minorile si deve arrivare con ogni sforzo al recupero del ragazzo, dunque risulta necessario conoscere il minore ascoltando, capendo, e rendendosi conto. Esattamente pregi che possedeva Francesca, perché ascoltava i ragazzi e i familiari, cercava di andare a fondo nelle ragioni, nella condotta, e tentava di comprendere  il reato del minore. I motivi prossimi di un’azione delittuosa  sono quasi sempre stereotipati, viceversa la ricerca dei motivi remoti che portano un ragazzo a fare delle scelte dipendono da  alcuni eventi nella vita dello stesso. In Francesca vi era questa sensibilità in tempi in cui ancora non era codificata». In quegli anni non c’era la contezza che il minorile potesse essere un settore anche per la lotta alla criminalità organizzata: «a quel tempo era solo un’intuizione del singolo ma non c’era l’apparato che lo consentisse. Ad esempio, per intervenire  nelle famiglie mafiose si deve lavorare in sinergia conuna serie di figure professionali, soprattutto con i servizi o con le associazioni di contrasto alla mafia. Intorno al 2013/2014, ho cominciato a rivolgermi a delle associazioni  per inserire i ragazzini provenienti da famiglie mafiose in un percorso di legalità perché bisognava avere delle figure sulle quali affidarsi e quindi portare a termine un certo percorso, ma nel 1986 non c’era nulla. Molte associazioni nacquero anni e anni dopo». L’apporto di Francesca, in quel periodo, è servito per cambiare una visione del minorile che non era consueta negli anni ottanta. Conclude infine la Settineri, osservando che « Francesca è morta perché era accanto a Giovanni, lei non era l’obiettivo della mafia, è morta  perché compagna di Giovanni, ma il punto è che non è casuale la sua presenza nella vita di Giovanni Falcone. È una scelta che nasce dal suo modo di essere, Francesca era accanto a Giovanni perché ne condivideva in pieno gli ideali  e gli obiettivi. E questi erano anche i suoi  a prescindere da Giovanni. […] Ricordo che una volta parlammo dei pericoli, e lei disse una cosa disarmante, cioè, che se scegli di fare un percorso di vita prima ancora che professionale – perché la professione diventa espressione del tuo percorso di vita – allora tutto ciò che può accadere dipende dal tuo modo di vivere, di esistere o di scegliere. L’idea di base era che fosse inutile pensare che potesse accadere una cosa così tragica, bisogna andare avanti, cercare di evitarlo in tutti i modi possibili ma non esserne condizionati. C’era la consapevolezza del pericolo e di doverlo evitare in ogni modo possibile, ma il pericolo non poteva essere il discrimine tra un modo o un altro di essere»

[7] Cfr.R.Costa, La mafia non deve fermarvi, Rizzoli, Milano, 2023, La tragedia di maggio, p.118

[8] V.R.Schifani-F.Cavallaro, Lettera ai Mafiosi. Vi perdono ma inginocchiatevi, Pironti, Napoli, 1992; R.Costa, cit., Funerali di Stato, p.139

[9] Tutte le parole tra virgolette basse sono tratte dal libro di Rosaria Costa “La mafia non deve fermarvi

[10] Cfr.R.Costa, cit., La prova della vita, p.88

[11]  V.R.Costa, cit., Infanzia a Vergine Maria, p.24

[12] R.Costa, cit., Cercavo la verità, p.177

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