La nostra Costituzione è nata da un compromesso, talora faticoso, tra forze politiche diverse.
«Ma nessun compromesso è possibile quando non vi sia un accordo su alcuni principi. E questi principi, sui quali poggia la norma fondamentale della nostra esistenza come nazione», sono affermati – come insegna Norberto Bobbio[1] – in alcuni articoli che tutti noi conosciamo e dovremmo elevare a regola di condotta.
L’ideale di pace. Articolo 11: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.
L’ideale della libertà personale. Articolo 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti fondamentali dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità”.
L’ideale della giustizia. Articolo 3: “Tutti i cittadini hanno pari dignità e sono uguali davanti alla legge, senza distinzioni di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”.
2. Nell’ottantesimo anniversario della liberazione, oggi 25 aprile 2025, vogliamo celebrare questa ricorrenza ricordando i numerosi magistrati italiani che durante la Resistenza italiana (1943-1945) si distinsero dagli indifferenti, e contribuirono alla lotta contro il nazifascismo, pagando con la vita la loro fedeltà a tali ideali di pace, libertà e giustizia. Alcuni morirono arrestati e torturati dalle SS, altri combattendo i repubblichini o deportati nei lager.
Dieci anni fa, il 10 settembre 2015, a ricordo e memoria delle loro storie di vita e di coraggio, è stata apposta una lapide nell’atrio del Ministero della Giustizia, in via Arenula a Roma.
I sedici magistrati ivi ricordati sono:
Dino Col, nato a Sassari nel 1904, pretore nel 1932 a Iglesias, e successivamente a Sampierdarena. Il rifiuto di conformarsi alle direttive del regime portò al suo arresto nel Palazzo di giustizia genovese. Deportato a Flossenburg, morì l’ultimo giorno del 1944, a seguito delle vessazioni subite.
Pasquale Colagrande, nato a L’Aquila nel 1911, sostituto procuratore del re a Ferrara, dopo il 25 aprile 1943 ordinò l’immediata scarcerazione di tutti i politici ivi detenuti in carcere. Arrestato dai fascisti un mese dopo l’armistizio, venne ucciso il 15 novembre 1943, dopo essersi rifiutato di sottrarsi, lui solo, alla fucilazione. «Pareva che dicesse il magistrato: la Legge, anche quella del sacrificio, è uguale per tutti. E poiché gli altri non si salvarono, egli uscì dalla porta del carcere, a passo sicuro, incontro al plotone d’esecuzione, prima di tutti gli altri». E poco dopo, davanti al plotone d’esecuzione, alzò il grido: «Assassini», ma «quella non fu un’imprecazione; egli era un magistrato: quella fu una sentenza, l’ultima inappellabile sentenza di un magistrato eroico»[2].
Francesco Drago, nato a Messina nel 1906, sostituto procuratore del re a Savona, arrestato per motivi politici dagli agenti dell’Ufficio politico della Questura, evase e si unì ai partigiani. Venne ucciso il 30 dicembre 1944 nel corso di uno scontro a fuoco con i repubblichini.
Carlo Alberto Ferrero, magistrato piemontese, già Pretore a Chiusa Pesio, poi giudice del Tribunale di Cuneo e successivamente Presidente del Tribunale di Nuoro, nella primavera del 1943 era stato nominato consigliere della Corte d’Appello di Torino. Fu tra le vittime del rastrellamento di Chiusa Pesio, nel cuneese, condotto con spietata efferatezza dalle truppe tedesche tra l’11 e il 19 dicembre 1944. Alle ore 14 del 19 dicembre Ferrero e il giovane Mauro Bernardino, di 22 anni, che era stato fermato per omonimia con un partigiano ricercato, vennero sottoposti a un processo sommario, durato pochi minuti; scortati da sei soldati e costretti a portare al collo un cartello – su quello del giudice vi era la scritta “Traditore”, su quello del giovane “Bandito” – furono condotti sul luogo dell’esecuzione, in località Pietra Scritta. I cadaveri, deturpati dalle percosse ricevute, vennero lasciati sul posto tutta la notte, sotto la pioggia, e ritrovati il giorno successivo dal parroco del paese a cui venne interdetta la celebrazione dei funerali.
Mario Finzi, nato a Bologna nel 1913, di famiglia ebrea, a 24 anni era diventato magistrato, ma le leggi razziali del 1938 gli impedirono di svolgere le funzioni. In prima fila nell’aiutare gli ebrei perseguitati nella sua Bologna, morì il 22 febbraio 1945 ad Auschwitz Birkenau, dove era stato deportato dopo un primo internamento nel campo di Fossoli. È stato definito lo “Schindler della porta accanto”, per aver assistito almeno trecento ebrei perseguitati e averne salvati da sicura morte non meno di venticinque.
Mario Fioretti, nato a Roma nel 1913, membro della Resistenza romana e amico di Eugenio Colorni[3], venne ucciso a Roma in piazza di Spagna, da un fascista che lo aveva seguito dopo un “comizio volante” contro l’occupazione tedesca, nel novembre del 1943. In Piazza di Spagna una lapide ricorda il suo sacrificio.
Giuseppe Garibba, nato a Cividale del Friuli nel 1912, pretore di Cles (TN), membro del Partito d’Azione clandestino, presidente del primo CLN a Soave, medaglia d’Argento al valor militare alla memoria. Pur avendo subito un attentato nel giardino di casa con il lancio di una bomba a mano che lo ferì a un ginocchio, incurante dell’ammonimento, proseguì nell’attività clandestina fino al giorno dell’arresto, che avvenne nella sua abitazione il 25 settembre 1944 a opera di una brigata nera. Il mattino seguente, il cancelliere della Pretura presentò ricorso al Comando tedesco in quanto l’arresto era stato eseguito senza emissione di un regolare mandato di cattura; la brigata fu costretta a rilasciarlo ma con l’impegno a non muoversi da casa. Malgrado la possibilità di sottrarsi all’obbligo di dimora, la dignità di magistrato e la parola data glielo impedirono. Dopo poche ore venne nuovamente arrestato e tradotto a Verona, e sottoposto a interrogatorio. Quindi, insieme a due coimputati, l’arciprete di Soave don Ludovico Aldrighetti e l’avvocato Giovanni Perezzan, vicepretore, venne inviato al campo di concentramento di Bolzano, quindi a Dachau dove, ridotto allo stremo dalle fatiche, dalla fame e dal gelo, morì il 25 marzo del 1945.
Vincenzo Giusto, nato a Torino nel 1916, fra i primi a salire in montagna per non sottostare agli ordini tedeschi, partecipò alla Resistenza e cadde nel corso di un’azione partigiana il 13 aprile 1945. È stato insignito della medaglia d’oro al valore militare alla memoria.
Cosimo Mariano, nato a Copertino in provincia di Lecce nel 1915, cadde da partigiano nel corso dell’estate del 1944 durante un feroce rastrellamento tedesco nel bellunese, dove si era trasferito essendo stato assegnato al Tribunale di Belluno.
Cosimo Orrù, nato a San Vero Milis nel 1910, pretore a Ittiri (SS), quindi sostituto procuratore del re a Bergamo, fu catturato dalle SS la mattina del 20 giugno 1944 per la sua attività politica clandestina e per la sua condotta di magistrato indipendente e autonomo. Trasferito a Milano, poi a Bolzano, quindi deportato in Germania, morì nella baracca n.23 per i maltrattamenti subiti nel campo di Flossenburg.
Nicola Panevino, nato a Carbone in provincia di Potenza nel 1910, giudice al Tribunale di Savona, partigiano con il nome “Silva”, venne arrestato dai militi della San Marco e quindi trasferito a Marassi e poi alla Casa dello studente di Genova sede del comando SS, torturato e quindi ucciso per rappresaglia il 23 marzo 1945 insieme ad altri 19 prigionieri nei pressi del cimitero di Cravasco. All’esterno della casa natale, a Carbone, è apposta una lapide che lo ricorda, con una frase dettata da Benedetto Croce: «su ogni forma di oppressione trionfano eternamente giustizia e libertà»
Pietro Amato Perretta, nato a Laurenzano in provincia di Potenza nel 1910, giudice del Tribunale di Como, per le sue posizioni di indipendenza nei primi anni del regime[4] e la sua collaborazione a un periodico di ispirazione crociana, subì un trasferimento punitivo e venne dichiarato decaduto per non aver raggiunto l’ufficio di destinazione. Iniziata la professione forense, il suo studio venne devastato dagli squadristi. Ancor prima del 1943, Perretta si attivò per la costituzione di gruppi della Resistenza. La sera del 13 novembre 1944, fu sorpreso nel suo alloggio clandestino a Milano da elementi delle SS e della “Muti”; ferito da una raffica di mitra alle gambe e trasferito all’Ospedale di Niguarda chiese ai medici di non essere operato per non dover sottostare a interrogatori che avrebbero potuto portarlo a svelare dati sensibili sulla Resistenza. Morì la mattina del 15 novembre.
Pasquale Saraceno, consigliere alla Corte d’Appello di Firenze, morì nel 1944, colpito al petto da una fucilata di franchi tiratori fascisti annidati nei tetti, mentre si affacciava all’ingresso del Palazzo della stessa Corte, tenendo per mano il figlioletto Pietro.
Vittorio Scala, nato a Nola nel 1901, giudice al Tribunale di La Spezia, membro del CLN, arrestato dalle SS, torturato e deportato a Mathausen, dove morì il 15 marzo 1945.
Mario Tradardi, nato a Foligno nel 1908, procuratore del re a L’Aquila, entrò nella Resistenza[5] dopo la morte dell’amico e collega Pasquale Colagrande. Capitanò una delle formazioni partigiane dei “Volontari della Maiella” e morì per mano tedesca, nel dicembre del 1944.
Mario Viglino, nato ad Alba nel 1907, avvocato antifascista, capitano di artiglieria di complemento e vice pretore ad Alba, prese parte attivamente alla Resistenza e rappresentò il Partito Socialista nel CLN di Alba costituitosi durante il 1943 e operante durante “i 23 giorni” della resistenza della città. Catturato dai fascisti durante un rastrellamento dopo la caduta di Alba, fu fucilato a San Donato di Mango il 19 novembre 1944.
Ad essi va aggiunto, poi, Emilio Sacerdote, nato a Monteleone di Calabria (oggi Vibo Valentia – Catanzaro) il 9 gennaio 1893. Nel 1939, a Milano, mentre svolgeva il suo ruolo di procuratore del re, offeso in una pubblica udienza perché ebreo, Sacerdote si dimise dalla magistratura e passò a fare l’avvocato. Pochi mesi dopo, con l’entrata in vigore delle leggi razziali, fu radiato anche dall’albo degli avvocati. Chiamato alle armi allo scoppio della Seconda guerra mondiale, al momento dell’armistizio entrò nella Resistenza in una formazione partigiana autonoma denominata “Valle di Viù” operante nella zona di Torino. Passato nell’aprile del 1944 nella 19ma Brigata Garibaldi, nel settembre del 1944 (“Dote”, il suo nome di battaglia), entrò nella IV Divisione “Giustizia e Libertà”, ricoprendo l’incarico di capo di stato maggiore e di presidente del Tribunale partigiano. Il 30 settembre del 1944, Sacerdote, per la denuncia di un delatore, fu arrestato dai fascisti a Lemie (TO) e consegnato ai tedeschi che, pochi giorni dopo, lo trasportarono nel campo di concentramento di Bolzano. Nel lager di Gries il magistrato fu trattenuto due mesi e mezzo e poi deportato in Germania, a Flossenberg; di qui fu trasferito a Bergen Belsen, dove si spense per gli stenti e le sevizie subite, l’8 marzo 1945.
Altri magistrati, tra i quali Giovanni Colli e Luigi Bianchi D’Espinosa, lasciarono le loro sedi di lavoro e si collegarono ai movimenti della resistenza o agli alleati. E altri ancora[6], pur continuando a lavorare negli uffici giudiziari, collaborarono in vario modo, con le forze della resistenza. Alcuni giudici del Tribunale di Gorizia furono destituiti dall’autorità germanica per essersi rifiutati di applicare la pena di morte secondo le direttive dell’autorità occupante. Nella regione Piemonte, una rete organizzata di magistrati venne infine attivamente coinvolta negli organismi politici e militare della Resistenza[7].
Tutti e sedici i magistrati menzionati nella lapide, e anche quelli i cui nomi non compaiono ma che hanno collaborato in vario modo rischiando la propria vita nel periodo della Resistenza, meriterebbero un racconto più approfondito della loro storia di uomini e magistrati. Nell’impossibilità di farlo, ricordiamo in particolare Dino Col, con il documento dell’Istituto storico della Resistenza in Liguria inviato alla redazione dal caro amico Rodolfo Sabelli, procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari, e Pasquale Saraceno, con le parole cariche di commozione da Piero Calamandrei.
“Uno è Pasquale Saraceno, consigliere alla corte d’appello di Firenze, ove nel 1944 era arrivato ancor giovanissimo, per concorso, dalla pretura di Viareggio. L’avevo conosciuto negli anni della guerra, mentre era ancora pretore, e spesso veniva a trovarmi nella mia casa al mare. Passavamo lunghe ore a discutere di problemi di diritto, per cercare un rifugio e un diversivo contro quell’angoscia che sempre più ci schiacciava. Egli era tutto preso dai problemi della ricerca della verità nel processo penale: l’errore giudiziario era la sua ossessione. Aveva chiesto, con ingenua serietà, al Ministero il permesso di esser rinchiuso sotto falso nome per qualche mese in un carcere, tra i delinquenti comuni, per misurare coll’esperienza le loro sofferenze e cercare nella realtà del carcere la giustificazione (se c’è) della pena. E soprattutto lo turbava l’idea del povero, preso negli ingranaggi della giustizia, che non ha mezzi né cultura per difendersi anche se è innocente: e gli pareva che la giustizia e il patrocinio, come sono ordinati da noi, si riducessero spesso ad essere un privilegio dei ricchi. Anche egli finì in un modo, che a ripensarlo ora, mi sembra pieno di significati simbolici. Durante le settimane della battaglia di Firenze, mentre nelle vie vicine al centro i partigiani insorti si battevano contro le pattuglie tedesche appostate alle cantonate e contro i franchi tiratori fascisti annidati nei tetti […] Pasquale Saraceno, che si era rifugiato colla famiglia nel grande palazzo della corte in via Cavour, si affacciò un istante sulla soglia, tenendo per mano accanto a sé il suo bambino. Bastò che si sporgesse appena, e subito una fucilata da un tetto lo colpì: c’era, puntata in permanenza contro il portone della giustizia, la mira di un assassino. Ma il bambino[8] restò incolume: ora sarà un giovinetto. Quando sarà diventato uomo anche lui, sentirà ancora nella sua mano fatta adulta la stretta e l’incoraggiamento di quella calda mano paterna che credeva nella giustizia».
Pasquale Saraceno non è l’unica figura di magistrato ricordata da Piero Calamandrei, nel famoso “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”. Nella fondamentale prefazione alla terza edizione dell’opera nel 1955, dedicata «alla memoria di Pasquale Colagrande, di Pasquale Saraceno, di Aurelio Sansoni[9], magistrati fieri ed umani, per i quali la giustizia fu non svogliato disbrigo di pratiche burocratiche, ma impegno religioso di tutta la vita», Calamandrei spiega i motivi per i quali il titolo del volume era rimasto lo stesso, dopo venti anni dalla seconda edizione del 1935, nonostante le persecuzioni politiche e razziali, la guerra, i tribunali speciali e “il faticoso decennio del dopoguerra, durante il quale è avvenuto, purtroppo, che gli scandali giudiziari siano diventati a poco a poco l’arma preferita delle lotte di parte”, affermando che «Se la vita dello Stato non precipitò nel caos e il domani della liberazione poté vedere l’ordine ristabilito con una rapidità che parve miracolo, a ciò contribuì in maniera decisiva la continuità di una magistratura rimasta fondamentalmente sana anche attraverso la macerazione del ventennio». Quindi ancora elogio – scrive Calamandrei – non alle leggi ma alla condizione umana del magistrato italiano «a quest’ordine di asceti civili … capaci di rimanere con dignità e discrezione al proprio posto anche in tempi di generale rovina».
3. A tali espressioni di elogio nulla di più e di meglio si può aggiungere in questa ricorrenza, se non il discorso sulla Costituzione del 26 gennaio 1955 con il quale lo stesso Calamandrei, a Milano, nel Salone degli Affreschi della Società Umanitaria, illustrò – nel corso di un ciclo di conferenze rivolte agli studenti universitari e medi – i valori fondanti della carta costituzionale “testamento di centomila morti”.
«La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l’indifferenza alla politica. È un po’ una malattia dei giovani l’indifferentismo. «La politica è una brutta cosa. Che me n’importa della politica?». Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: «Ma siamo in pericolo?» E questo dice: «Se continua questo mare tra mezz’ora il bastimento affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda». Quello dice: «Che me ne importa? Unn’è mica mio!».
Questo è l’indifferentismo alla politica. È così bello, è così comodo! è vero? è così comodo! La libertà c’è, si vive in regime di libertà. C’è altre cose da fare che interessarsi alla politica! Il mondo è così bello vero? Ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi della politica! E la politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica…Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell’Italia e del mondo. Ora io ho poco altro da dirvi. In questa Costituzione c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…
E quando io leggo nell’art. 2: «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale»; o quando leggo nell’art. 11: «L’Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie… ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini! O quando io leggo nell’art. 8: «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour! O quando io leggo nell’art. 5: «La Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo! O quando nell’art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popoli, ma questo è Garibaldi! E quando leggo nell’art. 27: «Non è ammessa la pena di morte», ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani… Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa Costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti».
[1] V. N. Bobbio, discorso pronunciato a Torino, in piazza San Carlo, il 25 aprile 1957 e pubblicato nel libro “Eravamo diventati uomini”, Torino, 2015, con il titolo “Cittadini torinesi, uomini e donne della Resistenza”, nel quale afferma che “non c’è documento partigiano che non rechi traccia della fede in questi tre ideali della pace tra le nazioni, della libertà personale, della giustizia sociale. Coloro che hanno partecipato alla Resistenza si riconoscono tra loro e si distinguono non solo dagli indifferenti per l’entusiasmo morale con cui hanno accettato di correre il rischio supremo per difendere valori ideali, ma si riconoscono tra loro e si distinguono dagli avversari per i valori che hanno difeso, cioè per la fede che essi hanno riposto nella interdipendenza e nella solidarietà dei tre valori della pace, della libertà e della giustizia contro i mali della guerra, dell’oppressione e del privilegio. Qui bisogna cercare lo spirito della Resistenza. E questo spirito è stato consacrato, o cittadini, nella Costituzione; e dunque è diventato, piaccia o non piaccia, lo spirito della nazione”.
[2]Cfr. P.Calamadrei, Discorso Commemorativo, Ferrara novembre 1950
[3] il quale, mentre era confinato, in quanto socialista e antifascista, nell’isola di Ventotene, partecipò con Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi, anch’essi lì confinati, alla scrittura del Manifesto per un’Europa libera e unita, che poi da quel luogo prese il nome.
[4]Nel 1924 fece approvare a una assemblea di giudici lombardi un documento per l’indipendenza della magistratura. L’anno dopo venne trasferito per punizione a Lanciano.
[5] «Dopo l’8 settembre e lo sbandamento seguito all’armistizio, Tradardi, congedato per indisponibilità di magistrati, riprende servizio ad Aquila. Ma la situazione politica è mutata in questa metà dell’Italia occupata dai Tedeschi. Come ricordò il sostituto procuratore Mario Sangiorgio, Tradardi “si dichiarava insofferente, quasi colpevole di servire comunque i nazi-fascisti esplicando le sue funzioni“. Ecco allora che nei primi mesi dell’occupazione tedesca egli inizia ad opporre una Resistenza occulta, sia fornendo aiuti finanziari, sia intercedendo affinché siano ospitate nel monastero aquilano della Beata Antonia, in via Sassa, alcune signore ebree (la signora Lia Levin Albano è, in particolare, sua vicina di casa). E aderisce tra i primi al gruppo clandestino aquilano della Democrazia Cristiana diretto dal ragionier Francesco Marrama». Così W.Cavalieri, In memoria di Mario Tradardi (16 dicembre 1944 -16 dicembre 1994) “L’Aquila in guerra. Il secondo conflitto mondiale sul territorio del capoluogo e della provincia”, in http://www.brigatamaiellasvp.it/documenti/
[6] V. C.Brusco, Magistrati e Resistenza: storie da non dimenticare, in Questione Giustizia, 25.04.2015, che ricorda anche Emilio Ondei, che, dopo aver fatto parte della redazione della rivista “Il diritto razzista”, durante il regime di Salò, «assumerà posizioni di coraggiosa opposizione ai nazifascisti, annullando, come pretore, arresti illegali e rischiando a sua volta la cattura», e Salvatore Messina, primo presidente f.f. della Corte di Cassazione di Roma, che (ancora sotto l’occupazione tedesca) preannunziò al ministro che la grande maggioranza, se non la totalità, dei magistrati della Cassazione si sarebbe astenuta dall’aderire all’invito di prestare giuramento al regime. Del resto, generalizzato fu il rifiuto dei magistrati di prestare il giuramento di obbedienza alla Repubblica di Salò tanto che il ministro Pisenti prese atto della situazione e sospese l’efficacia del decreto che aveva imposto tale obbligo.
[7] A Torino, dopo il 25 luglio 1943, confluirono infatti magistrati antifascisti da tutto il Nord Italia. V., a riguardo, P.Borgna, Dal fascismo alla Liberazione. Figure luminose di magistrati italiani in un difficile passaggio della Storia, in Storia della Magistratura, SSM Quaderno n.6, p.70, il quale, tra i magistrati della Resistenza ricorda anche il giudice veneto Giovanni Colli, monarchico, «che i magistrati della mia generazione ricordano come conservatore di ferro e arcigno Procuratore generale di Torino; ma che, nei mesi successivi al luglio 1943, fu tra i magistrati più intransigentemente antifascisti».
[8] Quel bambino era Pietro Saraceno che, per tutta la sua vita di studioso, ha lavorato alla storia dei giudici italiani non per farne l’elogio ma per documentarne un giudizio storiografico e, soprattutto, per sottrarre questo giudizio alle ideologie e alle lotte di parte. La sua biblioteca e le sue originali iniziative di ordinamento e rielaborazione delle fonti furono gli strumenti per dare corpo a questo scopo, così come ricorda F. Venturini, in Pietro Saraceno bibliografo e studioso delle fonti, in Le Carte e la Storia, Rivista di storia delle istituzioni, 1/2000, pp. 70-76.
[9]magistrato in Toscana durante il ventennio fascista, fu il primo giudice ad essere definito con disprezzo “rosso” (quindi politicizzato, e fazioso). «Non era in realtà né rosso né bigio» scrisse Calamandrei «era semplicemente un giudice giusto: per questo lo chiamavano “rosso”, perché sempre, tra le tante sofferenze che attendono il giudice giusto, v’è anche quella di sentirsi accusare, quando non è disposto a seguire una fazione, di essere al servizio della fazione contraria».