Ogni vita è una storia e ogni storia è unica. Alcune vite, però, sono nello stesso tempo individuali e collettive, e contengono frammenti di passato che giungono fino a noi, che ci interrogano da vicino e che, invitandoci a pensare, ci mettono in relazione con eventi e momenti che spesso ignoriamo, e che altrimenti rischierebbero di essere sepolti o dimenticati per sempre.

Vittorio Foa diceva che “la memoria altrui ha senso solo se elaborata sulle proprie domande”, e probabilmente ciò è vero. Ogni testimonianza è un racconto che ci parla, e intrecciandosi con le nostre domande entra a far parte delle nostre storie. Dopo aver vissuto con gli studenti una delle giornate di “Testimoni Capaci” alla Scuola di formazione del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria mi sono
chiesta più volte cosa può avere in comune la storia delle vittime di mafia e terrorismo con quella dei ragazzi adolescenti che abbiano incontrato, e che cosa – oltre alla giornata di “festa” fuori delle aule scolastiche – è rimasto di quella giornata agli studenti.


I ragazzi che hanno partecipato, con ogni probabilità, erano già stati preparati dai loro insegnanti all’ascolto delle storie loro raccontate nell’aula magna della Scuola. Ma dopo ogni esperienza di questo tipo non è peregrino domandarsi in che cosa un qualsiasi studente tra quelli che abbiamo incontrato, nel corso delle giornate alla Scuola di Formazione o in Cassazione, possa trovare un senso per sé, ascoltando i racconti delle rose spezzate e dei giovani magistrati, o altrimenti nelle altre attività per loro organizzate.

E non possiamo non domandarci quali siano le domande che si fa un adolescente e che possano in qualche modo incontrare le storie che sono state raccontate.

Ci troviamo nell’età del nichilismo, del tutto e il contrario di tutto, dove il discorso sociale prevalente sconfessa la virtù del limite e il futuro sembra non essere più una promessa. Gli adolescenti hanno la massima forza biologica, ideativa, e nonostante questo non vengono valorizzati dalla società; non raramente mancano persino le risposte necessarie a domande essenziali, quale ad esempio “come stare al mondo”.

Alcuni sono superprotetti e non raramente sballottati da un’attività a un’altra, abituati a imparare le competenze prima che a diventare autonomi come persone, altri demonizzati, altri ancora ignorati, in molti trovano difficoltà ad affrontare la realtà.

Mi ricordo ancora di una bravissima maestra della scuola dell’infanzia di mio figlio la quale, ai genitori che pressavano con richieste varie, diceva sempre che per i piccolissimi è più importante prima imparare ad allacciarsi le scarpe piuttosto che studiare una lingua straniera. Verità banale, ma non sempre apprezzata.
In una società frettolosa e consumista, in cui insieme alle cose si consumano in fretta anche i sentimenti, e si fa fatica ad ascoltare, e persino a dare una carezza, conta sempre di più l’apparenza e sempre meno il contenuto di quello che si dice. Mancano poi le grandi storie, nonché le grandi narrazioni, spesso nel passato abbellite da cornici stereotipate e non raramente distorte. Sono venute meno anche le autorità
simboliche (padre, maestro ecc.) che sono stati per lungo tempo punti di riferimento nell’adolescenza. Altri, e ben diversi, sono quelli attuali dei giovani abituati a confrontarsi, in solitario, con i social.

Nel suo saggio “Il complesso di Telemaco”, Massimo Recalcati, descrive gli adolescenti, allo stesso modo di Telemaco, figlio di Ulisse, fermi sulla spiaggia che aspettano che torni qualcuno dal mare. Aspettano che torni il padre, simbolico o reale che sia. Unica differenza, che il padre non è più il padre con la P maiuscola, ma un testimone che torna da un viaggio, da un’esperienza. “Le nuove generazioni, insomma, sono alla ricerca non tanto di un padre eroico, quanto di un padre testimone. Di un padre cioè capace di mostrare, nella propria esperienza vissuta, la possibilità concreta di tenere saldi Legge e Desiderio”.

Il padre-testimone di cui sono alla ricerca, di cui hanno bisogno potranno naturalmente essere i genitori, ma anche un insegnante, uno zio, un amico, un’esperienza di conoscenza che hanno incontrato, una storia insomma carica di significato, degna di essere raccontata, e di essere vissuta.

E poiché nella testimonianza c’è un livello di fiducia nell’avvenire, ogni volta che un ragazzo incontra una testimonianza si apre una finestra sul suo futuro.

Nella speranza che le giornate alla Scuola di Formazione abbiano aperto una finestra sul futuro dei tanti giovani che abbiamo incontrato, vale la pena di lasciare una traccia del lavoro fatto e delle testimonianze rese, sia di quelle delle rose spezzate che quelle dei giovani colleghi alle prime esperienze professionali.


Mirella Cervadoro

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