Sommario: 1. Il trust interno e la liquidazione delle società: il problema – 2. Il trust di fronte all’insolvenza: il caso della cancellazione della società – 3. Alcune aperture – 4. Il Codice della crisi d’impresa e le nuove possibili applicazioni

1. Il trust interno e la liquidazione delle società: il problema.

La giurisprudenza di merito è stata ed è chiamata prevalentemente ad occuparsi del c.d. Trust “interno”, cioè del trust che è fonte di un rapporto giuridico i cui “elementi significativi” (per tali dovendosi intendere sia – com’è pacifico – il luogo in cui i beni sono ubicati e quello in cui lo scopo del trust deve essere perseguito, sia – come parrebbe affermare la tesi prevalente – la cittadinanza e residenza del disponente e dei beneficiari) sono localizzati all’interno del nostro ordinamento e i cui unici elementi di internazionalità sono quindi costituiti: a) indefettibilmente, dalla legge regolatrice del trust (essendo quest’ultima – per definizione – una legge straniera); b) più raramente e solo in via eventuale, anche dal luogo di amministrazione del trust e da quello di residenza abituale del trustee.

La risposta giurisprudenziale a tale prassi applicativa dell’istituto è ormai da tempo generalmente positiva, sottolineandosi come grazie ad esso possano anche perseguirsi interessi particolarmente degni di tutela e, persino, di rango costituzionale (tutela e mantenimento dei figli e della famiglia, soddisfacimento dei bisogni di soggetti incapaci o privi di autonomia gestionale: per un’applicazione del Trust all’amministrazione di sostegno vds. Trib. Bologna, 12/06/2013, in www.ilcaso.it e cit. in FAROLFI, Amministrazione di sostegno, Giuffrè, Milano, 2014, 172; cfr. altresì Trib. Milano, 11 marzo 2013, in www.ilcaso.it, per una ipotesi di trust di gestione del patrimonio ereditario devoluto ad un minore).

Naturalmente, visti i tempi a disposizione, in questa sede è solo possibile accennare all’istituto che, pur nelle variabili applicazioni che ne ha dato l’autonomia negoziale, si caratterizza per la presenza, generalmente, di tre diversi soggetti: uno è la persona del disponente (o settlor o grantor), cioè colui che promuove/istituisce il trust. Il secondo è rappresentato dall’amministratore/gestore (trustee), il quale ha il potere-dovere di gestire i beni in dotazione secondo le “regole” del trust fissate dal disponente. La terza è quella del beneficiario (beneficiary), espressa o implicita. E’inoltre possibile la presenza di un garante della effettiva corrispondenza delle modalità di gestione o liquidazione rispetto alle finalità individuate nell’atto costitutivo (c.d. guardian o protector). Una variante comunque diffusa è costituita dal c.d. trust “autodichiarato”, cioè quella tipologia di segregazione nella quale il soggetto che istituisce il trust ed il gestore dello stesso coincidono nella medesima persona. Quest’ultima, come evidente, è la figura che più può prestarsi a possibili abusi dell’autonomia privata in danno di creditori e fisco.

Una importanza del tutto evidente, sia in tema di liquidazione delle società che di vera e propria crisi di impresa, è costituito dal trust liquidatorio, con tale espressione intendendosi quella tipologia di segregazione che è rivolta alla liquidazione dei beni e delle attività costituite in trust e successivo soddisfacimento dei beneficiari, generalmente individuati nei creditori o in alcune categorie di creditori.

Ora, con l’espressione “liquidazione delle società” si individua, di fatto, il momento finale della vita di ogni società, nel quale l’attività caratteristica cessa o, comunque, è oltremodo ridotta, tramutandosi nella liquidazione delle residue attività, nell’incasso dei crediti e nel pagamento dei creditori. Solo se all’esito vi è un residuo attivo, allora beneficiano della liquidazione anche i soci, in proporzione alla quota o partecipazione posseduta.

Le norme di riferimento principali sono costituite dagli artt. 2272 e ss. cod. civ. per le società di persone e dagli artt. 2484 e ss. cod. civ. per quelle di capitali. Al riguardo, va subito evidenziato che, per ragioni sistematiche, detta fase liquidatoria viene usualmente scandita in tre diversi momenti: accertamento di una causa di estinzione della società; procedimento di liquidazione vero e proprio; pagamento ai creditori e successiva cancellazione ed estinzione della società. Inoltre, la realizzazione dell’attivo, il soddisfacimento delle passività e l’eventuale distribuzione del residuo attivo tra i soci è compito di uno o più liquidatori, soggetti nominati nel momento in cui la società viene messa in liquidazione, non necessariamente coincidenti con il precedente organo amministrativo.[2]

Gli obblighi di diligenza e professionalità che caratterizzano la figura del liquidatore, vista  la funzionalizzazione dell’attività che egli è chiamato a svolgere (essendo vero che pur mantenendosi una certa libertà di scelta sul quomodo dell’attività liquidatoria, questa va prioritariamente rivolta al soddisfacimento dei debiti sociali), sono indubbiamente i motivi che rendono di interesse la domanda se il complesso di attività che caratterizza questa fase finale della vita societaria possa essere realizzato mediante l’istituzione di un trust liquidatorio, cioè una tipologia di segregazione che è rivolta alla liquidazione dei beni e delle attività costituite in trust e successivo soddisfacimento dei beneficiari, generalmente individuati nei creditori o in alcune categorie di creditori.

2. Il trust di fronte all’insolvenza: il caso della cancellazione della società

Pur se non sembra possibile dubitare ulteriormente della liceità di questo strumento e della meritevolezza degli interessi perseguiti, non può non rilevarsi, soprattutto in una parte della giurisprudenza di merito, una certa diffidenza verso l’impiego di trust liquidatori, in relazione all’utilizzo patologico che di essi è stato talora effettuato, particolarmente quando la società già si trovi in una situazione di insolvenza conclamata.

La fattispecie più frequentemente affrontata, da questo punto di vista, è quella della società che dopo essere stata posta in liquidazione, trasferisce contestualmente al trust l’intero attivo e passivo, mentre il liquidatore presenta un bilancio finale di liquidazione (che riporta l’azzeramento dell’attivo e del passivo) – senza che alcuna attività liquidatoria sia stata in concreto compiuta – così da ottenere la immediata cancellazione della società dal registro delle imprese.[3]

È il caso affrontato, ad esempio, da Trib. Milano, 22 novembre 2013,[4] che ha ritenuto come il presupposto della cancellazione di società dal registro delle imprese sia rappresentato dal deposito del bilancio finale di liquidazione approvato; pertanto, in caso di conferimento in un trust dell’intero patrimonio della disciolta società, con contestuale cancellazione della stessa, si è ritenuto che possa essere disposta la cancellazione d’ufficio della avvenuta cancellazione, poiché si tratta di iscrizione eseguita in difetto dei presupposti di legge, in quanto il bilancio di liquidazione depositato risulta solo apparente, presentandone il nomen iuris, ma essendo privo del suo contenuto proprio. In altri termini, secondo il tribunale meneghino, la cancellazione conseguirebbe ad una fattispecie a formazione progressiva di contenuto necessariamente effettivo, il cui utilizzo simulato consentirebbe di ottenere ex art. 2191 cod. civ. la cancellazione dell’iscrizione nel R.I. della cancellazione della società (nella specie su domanda del curatore della società controllante, nel frattempo dichiarata fallita).

Peraltro, più recentemente, lo stesso Tribunale, con la decisione 30 aprile 2022,[5] ha affermato che il liquidatore di una s.r.l. il quale abbia trasferito l’intero residuo patrimonio sociale in trust al solo fine di esibire un bilancio di liquidazione che consenta la cancellazione della società dal registro delle imprese onde far decorrere il termine annuale per la dichiarazione di fallimento risponde dei danni arrecati al fallimento della società (nel caso di specie, peraltro, la decisione era per così dire vincolata nell’an dal giudicato penale di condanna del liquidatore e dell’ex amministratore per il reato di bancarotta distrattiva, non essendo in concreto avvenuto alcun atto di liquidazione e di tacitazione delle ragioni creditorie).

Una prospettiva ugualmente “restrittiva” è certamente presente in altre recenti decisioni di merito, come ad esempio Trib. Como, 15 marzo 2022,[6] oppure App. Trieste, 4 febbraio 2020,[7] rispettivamente intese, la prima, a dichiarare la nullità di un trust liquidatorio istituito da una società insolvente e caratterizzato – nella totale assenza di attività liquidatoria effettiva – dalla presenza di un guardiano che non aveva mai assunto tale incarico; la seconda, invece, intesa più correttamente a rilevare la non riconoscibilità nell’ordinamento interno del trust liquidatorio istituito da una società insolvente al solo scopo di evitare la dichiarazione di fallimento e di “lucrare” il decorso dell’anno previsto dall’art. 10 L. fall. dalla cancellazione della società dal registro delle imprese.

Parrebbe, quindi, che il discorso sia chiuso alla luce di tali orientamenti. Ma così non è, a ben vedere.

3. Alcune aperture

Una recente pronuncia del Supremo Collegio, spesso ignorata dalla giurisprudenza successiva, ha stabilito espressamente che – in tema di trust con finalità liquidatorie – è pienamente “ammissibile, ed è assoggettato alla disciplina dell’art. 2558 cod. civ., concernente la successione nei contratti in caso di cessione di azienda, il programma di risanamento o liquidazione di una società di capitali attuato per mezzo di un ‘trust’ cd. liquidatorio, con il quale, nell’interesse dei creditori in attesa di liquidazione, sia conferito ad un ‘trustee’, senza confinamento del debito operativo, tutto il patrimonio sociale, in particolare un’azienda, con cancellazione della stessa società ex art. 2495 cod. civ. e in mancanza di riferimenti alle attività compiute per il soddisfacimento dei detti creditori, riservando al medesimo ‘trustee’ la scelta gestionale tra continuità aziendale e liquidazione”, e tanto pur avendo comunque avvertito che tale operazione “necessita di un vaglio, particolarmente penetrante, da parte del giudice di merito, condotto esaminando l’operazione complessiva in relazione alla causa concreta del programma negoziale e alla meritevolezza degli interessi perseguiti nel rispetto dei limiti posti dalla legge fallimentare e dal sistema delle revocatorie” (così Cass., sez. 3, 10 febbraio 2020, n. 3128[8]).

Una tale statuizione, peraltro, da un lato si ricollega certamente all’ancora fondamentale decisione resa da Cass., sez. 1, 7 febbraio 2014, n. 10105 che, come noto, ha ritenuto non riconoscibile dall’ordinamento – in relazione a quanto previsto dall’art. 15, lett. e), della Convenzione de L’Aja del 1 luglio 1985, resa esecutiva in Italia con L. 16 ottobre 1989, n. 364 – non il trust liquidatorio in sé, ma solo quello istituito in chiave “anticoncorsuale”, ritenendo al contempo perfettamente lecite le altre forme di trust liquidatorio, anche interno e autodichiarato.

Dall’altro, detta pronuncia non può che risultare indirettamente confermata da quelle ormai numerose prese di posizione del Supremo Collegio circa la liceità e la conseguente neutralità impositiva dell’atto di dotazione del trust, anche liquidatorio, perché privo di effetti realmente circolatori di ricchezza, risultando invece sottoponibile ad imposizione soltanto l’atto finale di trasferimento dei beni o dei diritti ai beneficiari (v. ad es. Cass., sez. 5, 12 gennaio 2021, n. 224 e, da ultimo, Cass., sez. 5, 30 novembre 2023, n. 33425).

Ed allora, può certamente concludersi che non è il trust liquidatorio ad essere “riprovevole” per il nostro ordinamento, ma solo le forme apparenti, di “sham” trust, istituite al solo scopo di impedire l’applicazione delle regole della concorsualità o, peggio, distrarre il patrimonio della società al suo scopo primario di garanzia patrimoniale per i suoi creditori.

Ove invece una società sia incorsa in una causa di scioglimento e voglia procedere alla sua liquidazione in modo ordinato ed efficiente, non si vedono ostacoli aprioristici all’utilizzo di un trust liquidatorio, sempre che, naturalmente, siano adottate alcune precauzioni che rendano evidente l’assenza di qualunque intento fraudolento. In tal senso, la coincidenza del trustee con il liquidatore, la nomina di un guardiano dotato di poteri effettivi di enforcement (ad es. i sindaci della società o un professionista terzo cui siano conferiti strumenti di controllo e reazione), la previsione di un dettagliato programma di liquidazione e la corretta individuazione dei beneficiari, con l’indicazione del nominativo dei creditori, degli importi agli stessi dovuti realmente e delle eventuali cause legittime di prelazione, l’inclusione – infine – di una clausola di “salvaguardia”, ossia di inefficacia sopravvenuta del vincolo segregativo in caso di apertura (oggi non più del fallimento ma) della liquidazione giudiziale con rendiconto e consegna al curatore delle attività non ancora liquidate, appaiono tutti suggerimenti utili a configurare in concreto un trust liquidatorio che operi in modo efficiente la liquidazione della società.

Del resto, occorre aggiungere, la stessa liceità del c.d. trust interno è stata più recentemente ribadita dalla decisione resa da Cass., sez. III, 23 dicembre 2024, n. 34075, secondo cui il trust interno (rectius, i trusts interni) – in cui l’ubicazione dei beni segregati, la residenza o il domicilio del trustee e lo scopo gravitano in Italia, mentre appartiene ad un altro ordinamento la disciplina regolatrice scelta dal disponente – è ammissibile e riconoscibile nel nostro ordinamento, senza che ricorra alcuna esigenza di “nazionalizzazione” che, facendo uso di improprie analogie, ne snaturerebbe caratteristiche e struttura”. La decisione appena richiamata si segnala, altresì, per aver ribadito l’assenza di soggettività giuridica del trust e per le conseguenti problematiche nascenti in caso di pignoramento di beni segregati[9].

4. Il Codice della crisi d’impresa e le nuove possibili applicazioni

Nel quadro complessivo dell’ordinamento ha ormai fatto il suo ingresso il fondamentale nuovo Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (D.Lgs. 12 gennaio 2019, n. 14 e succ. modd.), che oltre ad eliminare l’istituto del fallimento, sostituendolo con la procedura della liquidazione giudiziale, contiene principi innovativi che agevolano l’utilizzo di forme privatizzate di soluzione della crisi (si pensi alla composizione negoziata) e la praticabilità di strumenti di regolazione della stessa. In tal modo, la soluzione della crisi con strumenti conservativi diviene la regola e non l’eccezione, come era invece nella vigenza della legge fallimentare. Si può infatti ritenere che oggi, anche alla luce del combinato disposto degli artt. 7 e 271 c. c. i., il legislatore abbia assegnato alla liquidazione giudiziale (ed a quella controllata per le imprese minori o non liquidabili) il ruolo di extrema ratio, percorribile unicamente in caso di inutilizzabilità o evidente inammissibilità degli altri strumenti di regolazione della crisi[10].

Tale prospettiva comporta certamente più ampi spazi di utilizzo del trust liquidatorio, come pure di quello volto a garantire gli obiettivi assunti nel piano approvato, a vario titolo, dai creditori.

Si pensi, per fare un primo esempio, alla composizione negoziata in cui il trust sia posto al servizio di un accordo raggiunto con i creditori ex art. 23 c. c. i., così da conseguire, oltre agli indubbi vantaggi della liquidazione efficiente da parte di un trustee professionalmente attrezzato, il ragionevole affidamento – anche in virtù della presenza al tavolo delle trattative di un esperto terzo ed indipendente, iscritto ad un albo e nominato da una commissione apposita – circa la liceità dell’operazione sul piano penalistico e la stabilità degli effetti perseguiti su quello civilistico. In particolare, l’art. 23 prevede quali esiti “fisiologici” della fase di composizione negoziata (accanto alla scarsamente utilizzata convenzione di moratori), alla lett. a) un  contratto con uno o più creditori, oppure con una o più parti interessate all’operazione di risanamento, idoneo ad assicurare la continuità aziendale per un periodo non inferiore a due anni, di cui deve dare atto l’esperto; mentre alla lett. c) è prevista la fattispecie dell’accordo sottoscritto dall’imprenditore, dai creditori aderenti e dalle altre parti interessate all’operazione di risanamento e dall’esperto, il qule ultimo deve  dare atto che il piano di risanamento appare coerente con la regolazione della crisi o dell’insolvenza. Orbene, può certo convenirsi che la presenza dell’esperto (in veste di sottoscrittore o comunque di chi redige una relazione in cui da atto del contratto concluso) rappresenta un primo elemento che contribuisce a dare certezza ai creditori ed affidabilità alla proposta del debitore. Ma è altrettanto vero che il debitore, di per sé, non subisce alcuno spossessamento, neppure limitato, così come nessun organo è chiamato a vigilare sull’adempimento dell’accordo raggiunto con i creditori. Ecco, quindi, che in talune circostanze il trust potrebbe essere utilizzato, integrando le intese contrattuali raggiunte, al fine di conferire una segregazione ai flussi finanziari destinati al soddisfacimento dei creditori e realizzare, altresì, una sorta di coazione indiretta all’effettiva esecuzione del piano sottostante.

Su di un diverso profilo, quantomeno in astratto, il trust liquidatorio appare lecitamente utilizzabile anche nell’ipotesi della cessione d’azienda prevista dall’art. 22, comma 1, lett. d) c.c.i., al fine di garantire ai creditori – ferma l’esigenza di ricorrere a forme competitive per la cessione dell’azienda – l’effettiva destinazione delle somme ricavate dall’alienazione del compendio aziendale[11].

Deve poi tenersi presente, che il Codice interviene anche sul profilo – che altrimenti potrebbe generare la stessa necessità di procedere alla liquidazione sociale – della riduzione per perdite e del conseguente principio “capitalizza o liquida” di cui agli artt. 2447 e 2482-ter cod. civ.[12] Infatti, in base all’art. 89 c.c.i. gli “obblighi di ricapitalizzazione” sono sospesi dalla data di deposito della domanda di ammissione al concordato preventivo, sino alla data di pubblicazione del decreto di omologazione del concordato medesimo, mentre analoghe sospensioni operano per la composizione negoziata, in forza dell’art. 20 e per l’accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 64. Naturalmente la sospensione degli obblighi di ricapitalizzazione derivanti dall’accesso ad uno degli strumenti di regolazione della crisi previsti dal nuovo Codice incide altresì, favorevolmente, sulle regole in tema di responsabilità degli amministratori e dei sindaci connesse al verificarsi della causa di scioglimento per perdite e favorisce, indirettamente, la tempestiva emersione della crisi prima che le condizioni di indebitamento e di perdita del capitale sociale divengano irreparabili.

Da questo punto di vista risulta evidente come il trust possa assumere un ruolo importante anche ove posto al servizio di questi strumenti di regolazione della crisi. Questa ipotesi non è del tutto nuova, si pensi all’utilizzo che del trust era stato fatto nell’ambito di talune procedure concordatarie da Trib. Chieti, 14 maggio 2013[13] e Trib. Ravenna, 9 aprile 2013.[14] In questo secondo caso, in particolare, la fattibilità di un concordato liquidatorio veniva garantita dall’apporto di un terzo, che si riprometteva di mettere a disposizione dei creditori, qualora l’attività di liquidazione non consentisse di raggiungere una determinata percentuale promessa ai creditori chirografari, una somma derivante dalla vendita di un proprio immobile, non facente parte dell’attivo concordatario. Orbene, tale operazione era realizzata attraverso il conferimento del citato immobile (come detto esterno al perimetro concordatario ed all’area della responsabilità patrimoniale di cui all’art. 2740 c.c.) in un trust di garanzia in cui il commissario giudiziale nominato dal tribunale fungeva da guardiano e dal potere di liquidare l’immobile e distribuire le somme ricavate ai creditori chirografari nel caso di mancato spontaneo adempimento da parte del trustee.

Con l’entrata in vigore del nuovo Codice della crisi le potenzialità dell’istituto non sono affatto ridimensionate e potrebbero persino trovare nuovi spazi applicativi[15].

Si pensi al caso, per fare un esempio, in cui si utilizzi lo strumento concordatario per procedere alla liquidazione della società (ed alla stessa ristrutturazione dei debiti). Orbene, l’art. 84 c.c.i. indubbiamente sfavorisce il concordato di natura liquidatoria, prevedendo che in tal caso il debitore, a differenza delle ipotesi di continuità diretta o indiretta, debba incrementare l’attivo concordatario del 10%, mediante l’utilizzo di risorse esterne. Queste risorse potrebbero essere messe a disposizione da parte di terzi (ad es. uno dei soci, oppure un altro imprenditore interessato ad entrare nella compagine societaria oppure a sostenere finanziariamente l’operazione, oppure ancora una società controllante o sottoposta a comune controllo, nelle situazioni di gruppo). Il trust potrebbe divenire in tal caso un veicolo idoneo per immettere queste nuove risorse, mantenendo un vincolo di segregazione sulle stesse e garantendo, in tal modo, la stessa fattibilità giuridica dell’operazione concordataria.

Analogo proficuo utilizzo del trust (nella forma liquidatoria oppure in funzione di garanzia) potrebbe però essere adottato anche nelle ipotesi di continuità diretta o indiretta. Premesso che si parla di continuità diretta quando è lo stesso imprenditore/debitore che prosegue l’attività di impresa all’esito della omologazione dello strumento concordatario o dell’accordo di ristrutturazione (c.d. continuità “soggettiva”), mentre si parla di continuità indiretta laddove l’operazione realizza un vero e proprio turnaround aziendale, con cessione a terzi dell’attività di impresa (c.d. continuità “oggettiva”), si potrebbero verificare situazioni in cui la reddittività attesa dalla prosecuzione risulti inferiore rispetto alle previsioni. Orbene, l’art. 87 c.c.i. stabilisce, fra l’altro, l’esigenza che il piano indichi quali iniziative adottare per l’adempimento della proposta concordataria in caso di “scostamenti” ed una tale situazione potrebbe essere, appunto, prevista e fronteggiata adeguatamente proprio da un trust liquidatorio o di scopo, a seconda delle concrete formulazioni del piano: si pensi all’impegno di un terzo che, nell’ipotesi in cui non si raggiungano certi livelli di cash flow destinati a soddisfare i creditori, preveda la vendita di un proprio immobile con distribuzione del ricavato a vantaggio dei creditori concordatari; tale operazione potrebbe essere realizzata anche attraverso il coinvolgimento di un trustee professionale, sotto la supervisione del commissario giudiziale, ottenendo altresì l’effetto di rafforzare la fiducia del ceto creditorio sull’attendibilità dell’operazione di ristrutturazione del debito, propiziandone, altresì, il voto favorevole.

Gli esempi potrebbero certamente continuare, potendosi il trust c.d. endoconcorsuale applicare anche al concordato minore (ossia lo strumento analogo al concordato preventivo, destinato ex art. 74 c.c.i. alla ristrutturazione del debito delle imprese minori, professionisti, imprese agricole e start up innovative).

Vi sono, inoltre, spazi di utilizzo nella stessa liquidazione giudiziale, quale procedura sostitutiva del “vecchio” fallimento (sia nel caso di concordato nella liquidazione, sia in funzione di una chiusura più celere delle procedure, allorché le stesse prevedibilmente siano destinate a superare, a causa delle complessità e vastità del programma liquidatorio, i termini di ragionevole durata della procedura, esponendo gli organi a possibili responsabilità derivanti dalla L. 24 marzo 2001, n. 69, c.d. Legge Pinto)[16].

A quest’ultimo riguardo deve comunque rilevarsi che, certamente, resta attuale il tema dell’utilizzo fraudolento o comunque anticoncorsuale del trust da parte di imprese che versino già in una situazione di insolvenza. Rispetto a tale tematica si pone, anzi, la questione di evitare che segregazioni o trasferimenti possano essere opposti e considerati definitivi, in modo eccessivamente disinvolto, nei confronti della successiva procedura concorsuale liquidatoria[17].

Sul tema si segnala, da ultimo, l’importante presa di posizione di Cass., sez. I, 3 luglio 2025, n. 18084, la quale ha precisato che l’opponibilità nei confronti dei terzi del trust, previsto dall’art. 2 della Convenzione dell’Aja del 1 luglio 1985, resa esecutiva in Italia con l. n. 364 del 1989, non è regolata dalla legge del disponente, ma dalla legge nazionale, in ossequio al disposto dell’art. 15 della medesima Convenzione che impone il rispetto di tutte le norme inderogabili (come l’art. 45 l.fall. e l’art. 2704 c.c.) che la legge nazionale prevede a tutela dei terzi. Pertanto il trust istituito e regolato dalla legge di Jersey (nella parte in cui esclude l’esigenza della trascrizione al fine di rendere opponibile ai terzi il vincolo di segregazione impresso su di un bene, mobile o immobile) sarà destinato a soccombere di fronte alla lex fori che, a tutela delle esigenze pubblicistiche connesse alla realizzazione della par condicio creditorum richiede, in via del tutto pregiudiziale, che gli atti di trasferimento di beni o di costituzione di vincoli siano muniti di data certa e anteriori al compimento delle formalità relative all’apertura della procedura concorsuale.


  • [1] Testo tratto dalla relazione tenuta al Corso P25065 “Casi e questioni attuali in tema di trust”, in Napoli, il 16/09/2025, organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura
  • [2] Sul tema, per restare ai contributi più recenti, cfr. Musolino, Società di persone. Morte del socio e condizioni per la liquidazione o il subentro degli eredi, in Riv. not., 2022, 6, 971; Novara, Perdita della continuità aziendale e scioglimento della società, in Riv. comm., 2023, 504; Rossi, Scioglimento della società per azioni e revoca implicita dell’amministratore, in Giur. comm., 2023, 6, 998; Sisca, Responsabilità degli amministratori per prosecuzione dell’attività gestoria al verificarsi di una causa di scioglimento, in Ius societario, 23 agosto 2023; ivi ulteriori riferimenti bibliografici.
  • [3] Vds. Busani, Il trust. Istituzione, gestione, cessazione, tassazione. Tecnica redazionale, Milano, 2022; indicazioni ancora attuali in Consiglio nazionale del notariato, Note sul trust istituito da imprese in crisi (in funzione liquidatoria), Studio n. 161-2011/I.
  • [4] In Giur. comm., 2015, 3, II, 584 con nota di Pasquariello.
  • [5] In Trust e att. fid., 2022, 879.
  • [6] Ivi, 2022, 677.
  • [7] Ivi, 2021, 731.
  • [8] In Trust e att. fid., 2020, 417.
  • [9] Ci si permette di rinviare a Farolfi, Assenza di soggettività del trust e trascrizione del pignoramento, in Riv. Esec. forzata, n. 2, 2025.
  • [10]  L’art. 7, comma 2, c.c.i. afferma espressamente che “Nel caso di proposizione di più domande, il tribunale esamina in via prioritaria quella diretta a regolare la crisi o l’insolvenza con strumenti diversi dalla liquidazione giudiziale o dalla liquidazione controllata, a condizione che: a) la domanda medesima non sia manifestamente inammissibile; b) il piano non sia manifestamente inadeguato a raggiungere gli obiettivi prefissati; c) nella proposta siano espressamente indicate la convenienza per i creditori o, in caso di concordato in continuità aziendale, le ragioni della assenza di pregiudizio per i creditori”.
  • [11] L’art. 22 co. 1, lett. d) stabilisce che il giudice, dopo averne verificato la funzionalità rispetto alla continuità aziendale ed alla migliore soddisfazione dei creditori, può “autorizzare l’imprenditore a trasferire in qualunque forma l’azienda o uno o più suoi rami senza gli effetti di cui all’articolo 2560, secondo comma, del codice civile, dettando le misure ritenute opportune, tenuto conto delle istanze delle parti interessate al fine di tutelare gli interessi coinvolti; resta fermo l’articolo 2112 del codice civile. Il tribunale verifica altresì il rispetto del principio di competitività nella selezione dell’acquirente”.
  • [12] La regola “ricapitalizza o liquida” esprime l’esigenza che, qualora il capitale sociale risulti ridotto a causa delle perdite di esercizio al di sotto del minimo legale, gli amministratori siano tenuti a convocare senza indugio l’assemblea chiamata a decidere tra la ricapitalizzazione (sino al ripristino del capitale minimo, una volta coperte le perdite) o lo scioglimento della società. In argomento, Racugno, La sospensione delle regole sulla riduzione del capitale sociale nel concordato preventive, in Giur. comm., 2023, 713.
  • [13] In ilcaso.it.
  • [14] Consultabile su ilfallimentarista.it, con nota di Leuzzi. In argomento, Palazzo, Il trust liquidatorio: e il trust a supporto di procedure concorsuali, 2015, in fondazionanotariato.it e Bortolucci, L’interferenza dell’autonomia negoziale nella crisi d’impresa: il trust liquidatorio, in Trust e att. fid., 2021, 660.
  • [15] Più recentemente, infatti, Trib. Bologna, 6 ottobre 2022, in unijuris.it, ha rilevato che può essere omologato il concordato preventivo il quale preveda l’istituzione di un trust da parte del soggetto che assume al tempo stesso la veste di socio unico e creditore della società in crisi. Il ricorso al trust è sufficiente a creare una dissociazione soggettiva che scongiura situazioni di conflitto di interessi, tramite il riconoscimento al trustee del compito di sostituirsi all’assemblea nell’elaborazione sia del piano sia della proposta di concordato e il mantenimento agli ordinari organi sociali del compito di esprimere il voto nella procedura di concordato.
  • [16] Può farsi l’esempio di Trib. Bologna, 26 luglio 2010, in unijuris.it, che – in un caso di azione di responsabilità esercitata da un fallimento nei confronti di ex amministratori – ha consentito il perfezionamento di un atto di transazione con utilizzo dello strumento del trust autodichiarato, volto alla liquidazione del cespite immobiliare offerto contestualmente quale contropartita alla rinuncia all’azione.
  • [17] La figura di un trust “anticoncorsuale” e l’esigenza di fronteggiarne l’utilizzo abusivo attraverso non già il ricorso alla patologia negoziale, ma, più radicalmente, una vera e propria irrilevanza nel nostro ordinamento, si ritrovano già delineate nella fondamentale decisione resa da  Cass. 9 maggio 2014, n. 10105, secondo cui “Ove, pertanto, la causa concreta del regolamento in trust sia quella di segregare tutti i beni dell’impresa, a scapito di forme pubblicistiche quale il fallimento, che detta dettagliate procedure e requisiti a tutela dei creditori del disponente, l’ordinamento non può accordarvi tutela. […] al vaglio di validità secondo il diritto straniero prescelto è preliminare la formulazione di un giudizio di riconoscibilità del trust nel nostro ordinamento, nel raffronto con le norme inderogabili e di ordine pubblico in materia di procedure concorsuali. E poiché il trust – secondo gli accertamenti di merito della sentenza impugnata, che ha ravvisato come esso fu costituito in una situazione di insolvenza – si palesa oggettivamente incompatibile con queste, lo strumento, ponendosi in deroga alle medesime, sarà “non riconoscibile” ai sensi dell’art. 15 della Convenzione”.

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