di Valerio Colandrea, giudice del Tribunale di Napoli e Elmelinda Mercurio, giudice del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere

Sommario: 1. Introduzione; 2. La competenza per territorio nell’espropriazione forzata di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni: il sistema attualmente vigente; 3. La novella dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. ed il superamento del foro del terzo; 4. Spunti per una interpretazione teleologica e costituzionalmente orientata del foro erariale per l’espropriazione di crediti; 5. Il processo di espropriazione forzata presso terzi e le modalità dell’iscrizione a ruolo: il sistema delineato dal legislatore del 2014 e le sue lacune; 6. La riforma del 2021 e la previsione dell’avviso di iscrizione a ruolo: ratio e contenuto della novella; 7. Profili applicativi della novella dell’art. 543 c.p.c.; 7.1. segue: il termine per la notificazione dell’avviso; 7.2. segue: il deposito dell’avviso nel fascicolo dell’esecuzione; 7.3. segue: la notificazione dell’avviso al debitore esecutato e la sanzione dell’inefficacia: una soluzione “teleologicamente” coerente?; 7.4. segue: la natura del provvedimento dichiarativo dell’inefficacia.     

     § 1. Introduzione.

     Il processo di esecuzione forzata ha un ruolo centrale per il miglioramento delle performances del sistema di tutela giurisdizionale. Non a caso, è stato oggetto di un significativo numero di interventi susseguitisi nel corso degli ultimi venti anni, interventi diretti – anche sulla scia delle prassi elaborate dalla giurisprudenza – a realizzare un processo improntato a principi di celerità, efficacia ed effettività.

     In questa logica ed in collegamento con i più generali obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (cd. PNRR) non desta sorpresa che anche la legge 26 novembre 2021, n. 206 (recante “Delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”) abbia individuato nel processo esecutivo un ambito privilegiato sul quale intervenire.[1]

     Il legislatore si è mosso in una duplice direzione: da un lato, ha delegato il Governo per l’adozione di uno o più decreti legislativi, prescrivendo i criteri per l’esercizio del relativo potere (art. 1, comma 12); dall’altro lato, ha introdotto alcune disposizioni che modificano direttamente la normativa vigente e risultano di immediata applicazione (art. 1, comma 29 e 32).

     Mentre l’oggetto della delega concerne principalmente il processo di espropriazione forzata immobiliare (con una serie di misure che si collocano – quanto meno in parte – nella prospettiva di codificazione di alcune best practices emerse nella concreta realtà giurisdizionale) le previsioni di immediata applicazione riguardano specificamente il processo di espropriazione forzata presso terzi ed investono due distinti profili.

     Anzitutto, viene modificata la disciplina della competenza per territorio nell’ipotesi di espropriazione di crediti che riguardi, ex latere debitoris, una pubblica amministrazione, ciò attraverso la parziale riscrittura del primo comma dell’art. 26-bis c.p.c. e l’introduzione di un nuovo criterio di collegamento ispirato alla logica del c.d. foro erariale (art. 1, comma 29).

     In secondo luogo, viene parzialmente innovata la sequenza delineata in termini generali dall’art. 543 c.p.c., con la previsione di un ulteriore adempimento a carico del creditore (la notificazione dell’avviso di iscrizione a ruolo del processo) che concerne ogni ipotesi di espropriazione presso terzi (art. 1, comma 32).

     Tali previsioni si applicano ai procedimenti esecutivi instaurati a decorrere dal centottantesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge (art. 1, comma 37).[2]

     L’immediata portata precettiva di tali disposizioni e la loro prossima diretta applicazione suggeriscono, quindi, di sviluppare alcune prime considerazioni al fine di ricostruire – sia pure in termini inevitabilmente “provvisori” – la ratio, il significato e gli eventuali limiti dell’intervento legislativo, nonché a lumeggiare le conseguenze che ne discendono per il sistema complessivo dell’espropriazione forzata.

     Peraltro, non si tratta di novità di poco conto sol che si pensi come il legislatore abbia inciso – segnatamente, con la novella dell’art. 26-bis c.p.c. – su di un ambito che ha assunto una sempre maggiore rilevanza nella pratica quotidiana (ovverosia, quello dell’esecuzione forzata in danno delle pubbliche amministrazioni), ciò tenuto conto sia del fatto che, come ben noto, il principale strumento con cui si realizza l’attuazione delle pretese pecuniarie nei confronti della P.A. è proprio dato dal processo di espropriazione forzata di crediti, sia, soprattutto, della oramai “cronica” incapacità di molte amministrazioni nel far fronte al celere adempimento delle obbligazioni pecuniarie a proprio carico.[3]

     § 2. La competenza per territorio nell’espropriazione forzata di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni: il sistema attualmente vigente.

     Il legislatore del 2021 ha modificato anzitutto la disciplina della competenza per territorio nell’espropriazione forzata di crediti nei confronti delle pubbliche amministrazioni ed ha novellato la disposizione dell’art. 26-bis c.p.c. originariamente introdotta con il D.L. n. 132 del 2014, convertito nella legge n. 162 del 2014.[4]

     Ai fini che qui interessano non appare fuor luogo operare una breve ricostruzione del sistema attualmente vigente.

     È noto come la riforma del 2014 abbia dettato una disciplina ad hoc per l’espropriazione forzata di crediti (ciò che è reso evidente dalla rubrica dell’art. 26-bis c.p.c. intitolata, per l’appunto, al “foro relativo alla espropriazione forzata di crediti”), la quale, in tal modo, è stata differenziata da quella concernente l’espropriazione di beni mobili.[5]

     Per la verità, l’art. 26-bis c.p.c. contiene due norme, l’una di carattere generale e l’altra di carattere speciale.

     Con una singolare inversione rispetto a quello che sarebbe l’ordine logico-giuridico la disciplina di carattere generale è contenuta nel comma 2: si individua – quale criterio di collegamento – il c.d. foro del debitore, stabilendosi, infatti, che “per l’espropriazione forzata di crediti è competente il giudice del luogo in cui il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”.

     A questa regola generale fa eccezione l’ipotesi contemplata dal comma 1, disposizione che si riferisce al caso in cui “il debitore è una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’articolo 413, quinto comma”. In tale eventualità, la competenza per territorio si radica, salvo quanto disposto dalle leggi speciali, nel luogo dove il terzo debitor debitoris ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede.

     A ben vedere, il legislatore del 2014 ha preso atto del mutato quadro normativo in ordine al ruolo del terzo e, in particolar modo, del fatto che il pignoramento non contiene più la sua citazione a comparire all’udienza, con la conseguenza che la sua presenza non è più necessariamente richiesta. Sotto questo profilo, infatti, già la legge n. 228 del 2012 aveva tendenzialmente contemplato la facoltà per il terzo di rendere la propria dichiarazione a mezzo raccomandata (ovvero a mezzo posta elettronica certificata) e tale previsione è stata poi generalizzata dal sopra citato D.L. n. 132 del 2014. È quindi venuta meno l’esigenza – sottesa alla disciplina previgente del “foro del terzo” – di radicare la competenza a conoscere dell’espropriazione di crediti in un luogo riferibile alla sfera di interessi del terzo medesimo.[6]

    Ugualmente, la previsione del foro del debitore ha risposto all’esigenza – ampiamente sottolineata dalla dottrina – di far sì che l’espropriazione di plurimi crediti in titolarità del medesimo esecutato si possa svolgere attraverso un simultaneus processus, nel senso, cioè, che in tal caso il processo può (e deve) essere radicato, unitariamente, nel luogo del domicilio/residenza/sede dell’esecutato.[7]

     Nel contempo, il D.L. n. 132 del 2014 ha dettato una disciplina speciale per il caso in cui il debitore sia una pubblica amministrazione, ipotesi per la quale è stata conservata – prima per l’appunto della novella del 2021 – la regola del “foro del terzo”.

    Come espressamente affermato nella relazione illustrativa alla legge di conversione la ratio di tale deroga si rinviene nella “esigenza di evitare che i Tribunali di alcune grandi città, tipicamente sede di pubbliche amministrazioni, siano gravati da un eccessivo numero di procedure espropriative presso terzi”.

     Ad ogni modo, la disposizione del primo comma dell’art. 26-bis c.p.c. ha sollevato una serie di dubbi interpretativi.

     Anzitutto, la peculiare modalità di individuazione del perimetro applicativo della disposizione e, in particolare, il rinvio ad una norma concernente il processo del lavoro (segnatamente, l’art. 413, quinto comma, c.p.c.) ha posto il problema di chiarire se quel riferimento valga a limitare l’ambito della disciplina sulla competenza al solo caso di pignoramento eseguito per la soddisfazione di crediti vantati in ragione di un rapporto di lavoro.

     La giurisprudenza di legittimità ha optato opportunamente per la soluzione negativa, precisando che il rinvio non concerne l’oggetto del credito di cui le pubbliche amministrazioni siano eventualmente debitrici, bensì solo la loro qualità e si risolva, in buona sostanza, nel richiamo alla disposizione dell’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001.[8]

     Parimenti, si è posto il problema del coordinamento con la disciplina di contabilità cui sono soggette le pubbliche amministrazioni (e, segnatamente, quella in tema di c.d. tesoreria unica), dovendosi al riguardo considerare che l’espropriazione nei confronti della P.A. normalmente ha luogo coinvolgendo il soggetto incaricato del servizio di tesoreria.[9]

    In particolare, si è discusso circa la possibilità di individuare il foro del terzo alternativamente nel luogo della sede legale del tesoriere ed in quello in cui quest’ultimo abbia la sede secondaria per la gestione del servizio di tesoreria.

    Sul punto, la giurisprudenza di legittimità ha sposato la soluzione negativa, precisando che il giudice territorialmente competente sia “solo quello del luogo dove si trova la filiale dell’istituto, presso il quale è localizzato il rapporto di tesoreria, che sia dotata di autonomia, quale unica abilitata alle operazioni volte a vincolare il relativo ammontare e conseguentemente ad assumere la veste di terzo”.[10]

     Peraltro, è interessante notare come la Corte di Cassazione abbia interpretato la clausola di salvezza contenuta nell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. (“salvo quanto disposto da leggi speciali”) nel senso che essa attribuirebbe alla regola desumibile dalla legge speciale il valore di norma esclusiva rispetto a quella fissata dallo stesso comma 1. Si è evidenziato, cioè, come l’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. detti una lex specialis per il foro dell’esecuzione forzata di crediti in danno della pubblica amministrazione articolata in due differenti ipotesi: la prima indicata espressamente (il “luogo dove il debitore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”); la seconda individuata da eventuali leggi speciali.

     Orbene, tra queste ultime la Corte ha espressamente ricompreso l’art. 1-bis della legge n. 720 del 1984 concernente l’espropriazione in danno delle amministrazioni soggette al regime di tesoreria unica, disposizione che – come meglio si vedrà nel prosieguo – può assumere un peculiare rilievo anche nella ricostruzione della portata applicativa della novella del 2021.[11]

     § 3. La novella dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. ed il superamento del foro del terzo.     

     L’art. 1, comma 29, della legge n. 206 del 2021 modifica il testo dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c.: si prevede ora che – nel caso in cui il debitore sia una pubblica amministrazione – giudice competente per l’espropriazione forzata di crediti non sia più quello del luogo del terzo debitor debitoris, bensì “del luogo dove ha sede l’Ufficio dell’avvocatura distrettuale dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede”, salvo, anche in tal caso, “quanto disposto dalle leggi speciali”.

     In tal modo, la novella incide sul sistema dell’espropriazione forzata di crediti in una duplice direzione.

     Anzitutto, essa segna il tramonto del “foro del terzo”.

     Sotto questo profilo, non trova più riconoscimento normativo quel criterio che pure costituiva la regola originaria del codice di rito e che la riforma del 2014 aveva comunque conservato per l’ipotesi di espropriazione in danno di una pubblica amministrazione, posto che scompare del tutto ogni riferimento al luogo della residenza/domicilio/dimora/sede del terzo pignorato.

     In secondo luogo ed in termini positivi, il legislatore introduce un criterio “ibrido” secondo una logica affine a quella del foro erariale ex art. 25 c.p.c.: viene infatti individuato quale potenziale parametro di riferimento il “foro del creditore” (corrispondente, per l’appunto, al luogo della residenza, domicilio, dimora o sede del creditore stesso) e, nel contempo, quell’elemento viene “temperato” in collegamento con il sistema di rappresentanza processuale della pubblica amministrazione, nel senso, cioè, che la competenza viene radicata presso il giudice del luogo in cui ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato territorialmente competente.

     Ne discende, concretamente, una concentrazione/ripartizione delle procedure espropriative presso i soli tribunali capoluoghi dei distretti di corte d’appello in cui ciascun singolo creditore abbia domicilio/residenza/dimora/sede.[12]

     L’obiettivo della modifica è indicato nella Relazione illustrativa e si collega alla scelta di operare un “accentramento” del servizio di tesoreria dello Stato per ragioni di controllo della spesa pubblica. In tal modo, la novella mira ad una distribuzione “geografica” del carico dei procedimenti di espropriazione forzata in danno della pubblica amministrazione e ad evitarne la concentrazione pressoché esclusiva presso il Tribunale di Roma.[13]

     Dunque, la ratio non appare molto diversa da quella che aveva giustificato la previsione da parte del legislatore del 2014 di un criterio ad hoc.

     Rispetto al passato, tuttavia, il sistema configura una sorta di “parcellizzazione” della competenza per territorio, nel senso, cioè, che il soggetto debitore (la pubblica amministrazione) non subisce più l’espropriazione innanzi ad un giudice individuato in maniera univoca per qualsivoglia tipologia di creditore, bensì consente di procedere innanzi a giudici differenti in dipendenza del diverso luogo di domicilio/residenza/sede di ciascun creditore.

     In ogni caso, restano espressamente salve eventuali discipline speciali dettate in materia, atteso che, come già per la disposizione preesistente, il peculiare foro della pubblica amministrazione previsto dall’art. 26-bis c.p.c. continua a trovare applicazione “salvo quanto disposto dalle leggi speciali”.

     Al riguardo, la principale ipotesi che viene in rilievo è quella dell’espropriazione di crediti in danno di enti ed istituti esercenti forme di previdenza ed assistenza obbligatorie organizzati su base territoriale (ad esempio, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale). In tale eventualità, infatti, l’art 14, comma 1-bis, secondo periodo, del D.L. n. 669 del 1996, convertito in legge n. 30 del 1997, prescrive che il pignoramento sia “instaurato, a pena di improcedibilità rilevabile d’ufficio, esclusivamente innanzi al giudice dell’esecuzione della sede principale del Tribunale nella cui circoscrizione ha sede l’ufficio giudiziario che ha emesso il provvedimento in forza del quale la procedura esecutiva è promossa”.

     Ciò posto, prima di approfondire la portata della nuova disposizione ed esaminare le conseguenze che ne discendono a livello sistematico non appare fuor luogo svolgere qualche breve riflessione in merito ad alcuni profili applicativi potenzialmente fonte di incertezze interpretative.

     Anzitutto, non può farsi a meno di constatare la singolarità del riferimento alla “dimora” del creditore quale criterio idoneo a radicare la competenza per territorio in via alternativamente concorrente rispetto al domicilio/residenza/sede. Invero, la “dimora” è il luogo in cui una persona si trova anche momentaneamente purché non in via del tutto passeggera (come nel classico esempio del luogo in cui si soggiorna per il periodo estivo). Dunque, ancorare la competenza per territorio ad un dato del genere finirebbe per renderla in larga parte “evanescente” e aprirebbe il varco ad accertamenti di fatto incompatibili con le esigenze di certezza e di celere definizione del processo espropriativo.[14]

     Appare allora condivisibile l’affermazione di quanti hanno ritenuto che il riferimento alla “dimora” sia il frutto di un vero e proprio lapsus calami derivante da una automatica (ed evidentemente non meditata) reiterazione della precedente previsione da parte del legislatore.[15] 

     In secondo luogo, occorre sottolineare come la modifica investa espressamente il profilo della competenza per territorio e, conseguentemente, concerna le modalità con cui il creditore dà avvio all’azione esecutiva con la notificazione del pignoramento (che, per l’appunto, è l’atto in relazione al quale si compiono le determinazioni in punto di competenza).

     Deve invece escludersi che la nuova previsione produca – sia pure indirettamente – un effetto anche in ordine alla facoltà di intervento nell’espropriazione da altri promossa: tale facoltà non risulta cioè soggetta a “limitazioni” di carattere per così dire territoriale dipendenti dall’eventuale diverso luogo di domicilio/residenza/sede del creditore interventore.

     In altri termini, non pare potersi desumere dalla novellata disposizione dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. una preclusione alla possibilità per il creditore di spiegare intervento in una procedura che abbia luogo innanzi ad un tribunale in realtà differente rispetto a quello che sarebbe competente laddove egli agisse autonomamente, posto che quello della competenza è un presupposto del processo introdotto con la notificazione del pignoramento, laddove l’intervento realizza, piuttosto, un fenomeno di cumulo delle azioni esecutive.

     Da ultimo, ci si può interrogare circa il giudice competente nel caso in cui il creditore non abbia il domicilio, la residenza o la sede nel territorio dello Stato.[16] In tale eventualità, infatti, non si rinviene quell’elemento di collocazione “spaziale” al quale la disposizione aggancia l’individuazione dell’ufficio dell’Avvocatura dello Stato territorialmente competente. Nel contempo, però, è difficile negare che sussista il presupposto per l’affermazione della giurisdizione civile esecutiva italiana, interessando infatti l’oggetto dell’espropriazione forzata proprio il rapporto di credito esistente tra una pubblica amministrazione italiana ed il terzo suo tesoriere.[17]

     In questo contesto e pur con i limiti derivanti dal carattere “provvisorio” delle presenti considerazioni, appare difficilmente praticabile un’opzione interpretativa che ancori la competenza a qualche forma di “localizzazione” del rapporto di credito interessato dall’espropriazione. A ben vedere, vi osta un quadro profondamente mutato rispetto al passato ed il fatto che la competenza dell’espropriazione di crediti viene collegata piuttosto al foro del creditore (sia pur con il contemperamento costituito dal riferimento al tribunale capoluogo del distretto di corte d’appello).

     Maggiormente aderente al nuovo assetto normativo potrebbe allora essere una soluzione che configuri l’inoperatività tout court del criterio speciale individuato dalla disposizione in esame (proprio in ragione del difetto del presupposto fondante il collegamento medesimo) e, per tale via, attribuisca la competenza secondo le regole generali valevoli in tema di espropriazione di crediti.[18]    

     § 4. Spunti per una interpretazione teleologica e costituzionalmente orientata del foro erariale per l’espropriazione di crediti.

     La novella dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. operata dal legislatore del 2021 non ha modificato la prima parte della disposizione e, in particolare, il riferimento al fatto che il debitore sia “una delle pubbliche amministrazioni indicate dall’articolo 413, quinto comma”.

     Il dato letterale sembrerebbe allora confortare l’idea per cui la regola speciale del foro della P.A. valga – in conformità all’orientamento già affermato nel sistema fino ad ora vigente – per tutte le amministrazioni pubbliche contemplate dall’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001.

     Nondimeno, una tale conclusione deve fare i conti con una pluralità di indici che sollevano dubbi in senso contrario.

     In primo luogo e sotto il profilo teleologico, occorre tener presente l’obiettivo perseguito dal legislatore e, in particolar modo, la circostanza per cui – come evidenziato dalla già richiamata Relazione illustrativa – la modifica normativa in questione è stata espressamente giustificata per l’esigenza di concentrazione delle funzioni di “tesoreria statale”. Una tale ratio non sarebbe quindi utilmente invocabile laddove il terzo debitor debitoris non sia quello preposto, per l’appunto, al servizio di tesoreria di Stato. In tale eventualità, infatti, qualsivoglia prospettiva di accentramento sarebbe priva di immediati riflessi rispetto all’espropriazione in danno del debitore. 

     In secondo luogo e con riguardo al profilo sistematico, non va trascurato come il meccanismo del foro erariale si giustifichi, in termini generali, in collegamento con le funzioni dell’Avvocatura dello Stato quale struttura alla quale compete la rappresentanza e la difesa delle amministrazioni per l’appunto dello Stato. In buona sostanza, la logica del foro erariale risponde ad un’esigenza di tutela della P.A. e si spiega – anche sotto il profilo della ragionevolezza legislativa – proprio per l’attività di rappresentanza processuale attribuita all’Avvocatura e, nel contempo, per l’assenza di un significativo “costo” che investa la posizione della parte contro-interessata.[19]              

     Rispetto ad una tale logica sarebbe allora “distonica” una soluzione che prescindesse del tutto dal ruolo svolto dall’Avvocatura dello Stato, posto che lo “spostamento” della competenza:

  • dal punto di vista della pubblica amministrazione debitrice, non perseguirebbe alcun obiettivo di maggiore tutela laddove l’amministrazione non fosse tra quelle per le quali sia previsto il patrocinio dell’Avvocatura;
  • dal punto di vista del creditore procedente, si risolverebbe unicamente in un maggior onere processuale.         

     A ciò si aggiunga che l’effetto di “parcellizzazione” della competenza che potenzialmente deriva dal riferimento al criterio del domicilio/residenza/sede del creditore dovrebbe poter trovare un ragionevole bilanciamento proprio nelle attribuzioni spettanti all’Avvocatura dello Stato. In altri termini, la circostanza per cui la medesima P.A. possa subire azioni esecutive innanzi ad una pluralità indistinta di fori (individuati sulla scorta del domicilio/residenza/sede di ciascun creditore) potrebbe avere una giustificazione – quanto meno in linea di principio – in ragione della concentrazione ex latere debitoris delle funzioni di rappresentanza e difesa in capo ad una struttura unitaria (quella dell’Avvocatura).

     Ne discende allora che – laddove un siffatto meccanismo non fosse concretamente operativo – verrebbe a mancare proprio l’elemento che razionalmente giustifica il criterio di distribuzione “geografica” del carico delle espropriazioni in danno delle pubbliche amministrazioni (e, segnatamente, quello del domicilio/residenza/sede del creditore), con effetti che potrebbero essere anche particolarmente pregiudizievoli per la P.A. debitrice.[20]  

     Le considerazioni che precedono evidenziano come un’interpretazione meramente letterale del novellato testo dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. presenti significativi punti di frizione sotto il profilo del rispetto del canone di ragionevolezza legislativa e, in generale, in riferimento all’esigenza di assicurare un meccanismo adeguato di tutela giurisdizionale.

     Non appare allora azzardato interrogarsi sulla praticabilità di un’opzione ermeneutica alternativa, che valorizzi – in una prospettiva teleologica – la ratio perseguita dal legislatore (si ribadisce, impedire l’effetto di concentrazione conseguente all’accentramento del servizio di tesoreria di Stato), nonché, nel contempo, eviti che la distribuzione di competenza sia ancorata ad un criterio formale inidoneo ad esprimere un effettivo “collegamento” con la realtà fenomenica dell’espropriazione di crediti della P.A.

     In questo contesto, la previsione di un meccanismo incentrato sulla logica di un foro erariale costruito in collegamento con le attribuzioni territoriali dell’Avvocatura dello Stato potrebbe suggerire di limitarne il perimetro applicativo alle sole espropriazioni di crediti in danno delle amministrazioni dello Stato: in tale eventualità, infatti, il terzo evocato quale debitor debitoris finirebbe per coincidere, per l’appunto, con il soggetto direttamente incaricato del servizio di tesoreria di Stato (che, attualmente, si identifica con la Banca d’Italia).[21]

     Peraltro, può valorizzarsi – quale spunto ricostruttivo di un sistema che viene progressivamente emergendo – anche la clausola di salvezza contenuta nell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c.

     Sotto questo profilo, una rilevanza peculiare finisce per assumere l’art. 1-bis della legge n. 720 del 1984 (concernente, come noto, l’espropriazione di crediti nei confronti delle amministrazioni sottoposte al sistema di c.d. tesoreria unica), disposizione alla quale – come già evidenziato – la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto quel carattere di specialità idoneo a giustificare la deroga alla disciplina generale dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c.[22]

     Tale affermazione può essere confermata anche nel quadro conseguente alla novella del 2021.

     Ovviamente, non è possibile sviluppare approfonditamente il complesso discorso in merito al meccanismo della tesoreria unica ed in ordine alle implicazioni che ne discendono per il processo esecutivo. In questa sede è sufficiente sottolineare – in consonanza con l’opinione espressa da parte della dottrina – come l’art. 1-bis realizzi una “scissione tra soggetto debitor debitoris depositario delle somme dell’ente (la tesoreria provinciale dello Stato) e soggetto protagonista in qualità di terzo dell’espropriazione condotta nelle forme ex art. 543 c.p.c. (l’istituto bancario tesoriere o cassiere)”.[23] Si tratta, cioè, di una previsione che coordina la disciplina di contabilità delle amministrazioni pubbliche soggette al sistema di tesoreria unica con quella codicistica in tema di espropriazione di crediti, consentendo l’evocazione – quale terzo pignorato (sul quale gravano gli obblighi di custodia e di dichiarazione ex artt. 546 e 547 c.p.c.) – dell’istituto bancario tesoriere e non del soggetto depositario delle somme di pertinenza dell’ente pubblico esecutato (ovverosia, quello incaricato del servizio di tesoreria dello Stato).

     Orbene, nella logica sopra descritta la disposizione continua ad essere, per così dire, “speciale” rispetto al sistema delineato in termini generali dal codice di procedura civile.

     In via consequenziale, allora, proprio la specialità di tale disciplina potrebbe indurre legittimamente a ritenere che il foro erariale introdotto dalla legge n. 206 del 2021 non si applichi all’espropriazione di crediti in danno di quelle pubbliche amministrazioni espressamente rientranti nel catalogo di cui alla legge n. 720 del 1984.[24]

     § 5. Il processo di espropriazione forzata presso terzi e le modalità dell’iscrizione a ruolo: il sistema delineato dal legislatore del 2014 e le sue lacune.

     Un secondo ambito interessato dalle disposizioni della legge n. 206 del 2021 di immediata applicazione riguarda la sequenza procedimentale dell’espropriazione mobiliare presso terzi.

     Invero, la novella ha introdotto l’obbligo per il creditore – all’esito dell’iscrizione a ruolo – di notificare una sorta di avviso di “pendenza” del processo esecutivo (comunicando, in buona sostanza, al debitore ed al terzo la circostanza dell’intervenuta iscrizione) e di depositare quell’avviso nel fascicolo d’ufficio, contemporaneamente disciplinando le conseguenze dell’inosservanza all’obbligo così sancito (nei termini, come meglio si vedrà nel prosieguo, di inefficacia del pignoramento e di cessazione degli obblighi da esso scaturenti).

     Orbene, al fine di comprendere la ratio e la portata di tale novità anche in tal caso appare utile tratteggiare brevemente il sistema attualmente vigente.

     Come ben noto, quest’ultimo è il frutto della novella di cui all’art. 18 del D.L. n. 132 del 2014, convertito dalla legge n. 162 del 2014, disposizione che, in buona sostanza, ha esteso al processo di espropriazione forzata il principio dell’impulso di parte già previsto per l’iscrizione a ruolo nel processo di cognizione.

     Il legislatore del 2014 ha cioè delineato un sistema nel quale l’iscrizione a ruolo del processo di espropriazione forzata non ha più luogo d’ufficio (ovverosia, con un deposito presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione a cura dell’ufficiale giudiziario), bensì su iniziativa del creditore medesimo: questi riceve dall’ufficiale giudiziario l’atto di pignoramento notificato ed ha l’obbligo di provvedere all’iscrizione nei termini e nelle forme stabilite dalla legge, pena l’inefficacia del pignoramento medesimo.

     Nel caso specifico dell’espropriazione mobiliare presso terzi, in particolare, l’art. 543, quarto comma, c.p.c. prescrive che il creditore depositi la nota di iscrizione a ruolo e le copie del pignoramento, del titolo esecutivo e del precetto nel termine di trenta giorni dalla consegna da parte dell’ufficiale giudiziario, contemplando – in difetto – la perdita di efficacia del pignoramento medesimo.

     A completamento di tale previsione, poi, l’art. 164-ter disp. att. c.p.c. impone al creditore di dichiarare al debitore ed al terzo debitor debitoris l’eventuale omessa iscrizione con un atto da notificarsi nel termine di cinque giorni; in ogni caso, precisa che ogni obbligo a carico del debitore e del terzo pignorato (per quest’ultimo, principalmente, quello di custodia ex art. 546 c.p.c.) cessi in conseguenza della mancata iscrizione a ruolo nel termine previsto.

     A ben vedere, nella prospettiva del legislatore del 2014 l’onere di dichiarazione ai sensi dell’art. 164-ter disp. att. c.p.c. risponde all’obiettivo di assicurare al terzo la conoscenza della sopravvenuta inefficacia del pignoramento e, per tale via, mira a consentire la successiva libera circolazione dei beni pignorati in conseguenza del venir meno degli obblighi di custodia.

     Nondimeno, il limite di tale sistema è dato dall’assenza di qualsivoglia sanzione per l’ipotesi del mancato assolvimento dell’obbligo di una tale dichiarazione (al di là di un’ipotetica responsabilità per fatto illecito a carico del creditore per il suo comportamento omissivo).

     La conseguenza pratica è stata quindi che – in difetto di un meccanismo idoneo ad assicurare al terzo la conoscenza legale della causa di inefficacia pur operante ex lege – la disponibilità dei beni pignorati da parte dell’esecutato possa essere legittimamente impedita dalla perdurante (formale) operatività dell’obbligo di custodia a carico del terzo.

     Tale lacuna ha comportato un ostacolo alla circolazione giuridica dei beni nonostante il pur automatico venir meno del vincolo del pignoramento, con riflessi particolarmente gravosi nel caso di espropriazioni coinvolgenti enti pubblici (stante il potenziale blocco delle risorse giacenti); nel contempo, l’omessa dichiarazione a cura del creditore ha finito per rendere necessario il ricorso al giudice dell’esecuzione per l’adozione di un provvedimento dichiarativo dell’inefficacia e di autorizzazione allo svincolo, con inevitabile aggravio dei tempi necessari per la liberazione e con inutile sovraccarico delle strutture dell’amministrazione della giustizia.

     § 6. La riforma del 2021 e la previsione dell’avviso di iscrizione a ruolo: ratio e contenuto della novella.

     Il legislatore del 2021 ha inteso superare le difficoltà operative nascenti dalle lacune del sistema attualmente vigente.

     Il testo novellato dell’art. 543 c.p.c. stabilisce infatti che:

     “il creditore, entro la data dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento, notifica al debitore e al terzo l’avviso di avvenuta iscrizione a ruolo con indicazione del numero di ruolo della procedura e deposita l’avviso notificato nel fascicolo dell’esecuzione. La mancata notifica dell’avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell’esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento” (comma 5);

     “qualora il pignoramento sia eseguito nei confronti di più terzi, l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso. In ogni caso, ove la notifica dell’avviso di cui al presente comma non sia effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento” (comma 6).

     Schematizzando il contenuto della disposizione in esame:

  • si introduce l’obbligo per il creditore di notificare, al debitore e al terzo, un “avviso di avvenuta iscrizione a ruolo, con indicazione del numero di ruolo della procedura”;
  • si precisa la necessità altresì del deposito nel fascicolo dell’esecuzione dell’avviso notificato;
  • si individua un termine entro il quale eseguire l’adempimento (“… entro la data dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento …”);
  • si disciplinano infine le conseguenze per l’inosservanza dell’obbligo, ciò tanto in termini generali (con la previsione per cui “la mancata notifica dell’avviso o il suo mancato deposito nel fascicolo dell’esecuzione determina l’inefficacia del pignoramento” e che “in ogni caso, ove la notifica dell’avviso … non sia effettuata, gli obblighi del debitore e del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento”), quanto per il caso specifico in cui l’espropriazione concerna i crediti vantati nei confronti di più terzi (con la precisazione per cui, in tale eventualità, “l’inefficacia si produce solo nei confronti dei terzi rispetto ai quali non è notificato o depositato l’avviso”).

     La soluzione al problema è quindi quella di costruire l’udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento come una sorta di “barriera” alla quale tendenzialmente si collega – in via di mero automatismo – la cessazione degli effetti del pignoramento medesimo: la data di quell’udienza rappresenta cioè il “termine” decorso il quale potenzialmente viene meno l’obbligo di custodia a carico del terzo.[25]

     Nel contempo ed in parallelo, si introduce un vero e proprio onere positivo di “impulso” a carico del creditore.

     Infatti, per evitare la caducazione degli effetti del pignoramento (potenzialmente collegata, si ribadisce, all’automatico decorso della data dell’udienza di comparizione indicata nell’atto) il creditore deve notificare l’avviso di “pendenza” della procedura espropriativa, comunicando, in buona sostanza, l’intervenuta iscrizione a ruolo e, quindi, la perdurante operatività del vincolo.

     In tal modo il terzo è posto nella condizione di avere conoscenza legale circa la sorte e l’efficacia del pignoramento: può cioè far conto su di un meccanismo automatico (incentrato sul decorso della data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento e sulla notificazione o meno dell’ulteriore avviso di iscrizione a cura del creditore) e, conseguentemente, può assumere le determinazioni in merito alla liberazione delle somme pignorate senza la necessità di un provvedimento del giudice dell’esecuzione.

     Dunque, la ratio complessivamente perseguita è quella di semplificazione dell’attività demandata al terzo pignorato, in special modo quanto alla verifica della persistenza o meno degli obblighi di custodia a proprio carico.

     Non a caso la Relazione illustrativa della modifica legislativa evidenzia espressamente come “la previsione mira a completare il disposto dell’articolo 164-ter disp. att. del c.p.c.” e come essa sia diretta a far fronte dell’assenza di una sanzione per l’omessa dichiarazione a cura del creditore, nel senso cioè che “occorre conseguentemente prevedere che anche dell’avvenuta iscrizione a ruolo – e, dunque, della permanenza del vincolo di pignoramento – sia reso edotto il terzo pignorato, stabilendo altresì che l’inottemperanza all’obbligo di avviso del terzo comporti il venir meno degli obblighi ex art. 546 c.p.c. in capo a quest’ultimo a far data dall’udienza indicata nell’atto di pignoramento”.

     Peraltro, salvo quanto ulteriormente si dirà con riguardo alla previsione dell’onere di notificazione dell’avviso anche nei confronti del debitore esecutato, la soluzione delineata dal legislatore appare tendenzialmente condivisibile (anche con riguardo alla previsione della sanzione per l’inosservanza dell’obbligo). Invero, essa realizza un sistema nel quale il terzo ha la certezza circa il modus agendi al quale ispirare la propria condotta in dipendenza del pignoramento.[26]

     In questa prospettiva, non appaiono del tutto condivisibili i dubbi che pure sono stati prospettati in merito alla “ragionevolezza” del rapporto tra il mezzo e lo scopo individuati nella previsione normativa in esame e, in particolare, al carattere forse eccessivamente punitivo della sanzione dell’inefficacia del pignoramento.[27]

     A ben vedere, la “sanzione” deve essere letta alla luce della peculiare struttura del pignoramento mobiliare presso terzi e, in special modo, del fatto che l’individuazione dell’oggetto del vincolo passa attraverso la “cooperazione” di un soggetto estraneo al rapporto processuale (per l’appunto, il terzo debitor debitoris) e la previsione a carico di tale soggetto dell’obbligo di custodia (ciò che, a ben vedere, rende concretamente operativo il vincolo).

     In questa logica, quindi, l’inefficacia sancita dal novellato art. 543 c.p.c. configura non tanto una sanzione, quanto una conseguenza del diverso modo di atteggiarsi dell’obbligo di custodia a carico del terzo (e, per tale via, si ribadisce, del vincolo del pignoramento). Sotto il profilo operativo, cioè, quell’obbligo ed il conseguente effetto del vincolo non sono più tendenzialmente sine die (come sino ad ora), bensì sono soggetti ad un “termine” che viene individuato dal creditore medesimo nell’atto di pignoramento (la data dell’udienza di comparizione ivi indicata); conseguentemente, la notificazione dell’avviso di iscrizione a ruolo incide sull’estensione temporale del vincolo del pignoramento anche al periodo successivo.

     § 7. Profili applicativi della novella dell’art. 543 c.p.c.

     Una volta chiariti il significato e la portata sistematica della modifica dell’art. 543 c.p.c., appare opportuno soffermare l’attenzione su alcuni profili applicativi che appaiono potenzialmente fonte di incertezze interpretative.

     § 7.1. segue: il termine per la notificazione dell’avviso.

     Anzitutto, si è visto come il legislatore abbia individuato un termine per eseguire gli adempimenti a carico del creditore, termine che corrisponde alla “data dell’udienza di comparizione indicata nell’atto di pignoramento”.

     Tale termine deve ritenersi abbia natura perentoria.

     A sostegno di siffatta conclusione depone non solo (e non tanto) la circostanza per cui il legislatore ha espressamente collegato alla sua inosservanza una conseguenza lato sensu sanzionatoria (l’inefficacia del pignoramento), quanto la struttura di fondo del sistema introdotto e, in particolar modo, il fatto che la data dell’udienza indicata dal creditore rappresenta un limite temporale automatico per l’operatività degli obblighi di custodia del terzo.

     In altri termini, una notificazione successiva a tale data sarebbe inidonea a determinare una sanatoria: essa interverrebbe, infatti, in un momento temporale in cui è normativamente già venuto meno l’obbligo ex art. 546 c.p.c. a carico del terzo, obbligo che, si ribadisce, segna l’operatività del vincolo del pignoramento dal punto di vista dell’oggetto dell’espropriazione.[28]

     Peraltro, non si tratta di una conclusione particolarmente gravosa per il creditore, né essa si risolve in una soluzione formalistica di ostacolo alla realizzazione della tutela giurisdizionale esecutiva.

     Se è vero che nella prassi si assiste frequentemente al differimento d’ufficio dell’udienza indicata dal creditore nell’atto di pignoramento – ciò in special modo nei tribunali di maggiori dimensioni (in cui al notevole carico di iscrizioni conseguono maggiori tempi di lavorazione da parte delle cancellerie) – deve tuttavia sottolinearsi come il sistema si incentri su di un principio di “auto-responsabilità”.

     Infatti, il termine individuato dal legislatore è pur sempre nella diretta disponibilità del creditore (il soggetto che è chiamato ad eseguire i successivi adempimenti), ciò in quanto l’indicazione della data di comparizione è il frutto di una sua libera scelta.

     Ne discende che eventuali difficoltà di ordine pratico (anche collegate ai tempi necessari per il perfezionamento della notificazione del pignoramento e per la materiale attività di iscrizione a ruolo) possono essere direttamente prese in considerazione dal creditore e giustificare l’indicazione di una data di prima comparizione temporalmente “congrua” rispetto all’attività da compiersi.

     § 7.2. segue: il deposito dell’avviso nel fascicolo dell’esecuzione.

     L’art. 543 c.p.c. nel testo novellato impone al creditore non solo di notificare l’avviso di iscrizione a ruolo, ma anche di depositarlo nel fascicolo dell’esecuzione; nel contempo, stabilisce che anche l’omissione di tale formalità determini l’inefficacia del pignoramento.[29]

     Sul piano funzionale, è difficile negare come l’obbligo di “deposito” persegua un obiettivo strutturalmente diverso rispetto a quello sotteso all’obbligo di “notificazione”.

     Come si è visto, quest’ultimo incide direttamente sulla perdurante efficacia del pignoramento, ciò nella misura in cui, si ribadisce, l’omissione dell’avviso comporta l’automatica caducazione dei vincoli di custodia a carico del terzo.

     Al contrario, la formalità del mero deposito dell’avviso risponde alla diversa esigenza di far sì che il giudice dell’esecuzione abbia contezza dell’intervenuto adempimento a carico del creditore. In altri termini, essa assicura che il giudice possa verificare la perdurante vigenza del vincolo nei confronti del terzo pignorato ed adottare le determinazioni che necessariamente presuppongono l’operatività di quel vincolo (in particolar modo, la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione del credito).

     Occorre allora domandarsi se tale diversità di funzione assuma un qualche rilievo in special modo nella valutazione della “sanzione” contemplata dalla norma per il caso di inadempimento (in entrambi i casi, l’inefficacia del pignoramento).

     A questo proposito, appare preferibile un’interpretazione ispirata ai canoni di “proporzionalità” e di “congruità” ed al generale principio di ragionevolezza.

     In altri termini, la sanzione dell’inefficacia del pignoramento (che pure il legislatore ricollega anche alla mera inosservanza dell’obbligo di deposito dell’avviso) può ragionevolmente prospettarsi solo qualora il creditore abbia del tutto omesso il deposito in questione, impedendo in tal modo al giudice di verificare la perdurante operatività del vincolo nei confronti del terzo e di adottare le determinazioni consequenziali.

     Non giustifica invece la declaratoria di inefficacia un eventuale mero ritardo nel deposito dell’avviso (che sia stato comunque tempestivamente notificato), ciò in particolar modo laddove il deposito  abbia luogo in modo da consentire le determinazioni cui è chiamato il giudice all’udienza di comparizione.[30]

     § 7.3. segue: la notificazione dell’avviso al debitore esecutato e la sanzione dell’inefficacia: una soluzione “teleologicamente” coerente?

     L’art. 543 c.p.c. prescrive la notificazione dell’avviso non solo al terzo pignorato, ma anche al debitore esecutato.

     Sotto questo profilo, tuttavia, può seriamente dubitarsi dell’opportunità e della ragionevolezza della disposizione in esame.

     Infatti, è innegabile come la posizione del debitore esecutato non sia tout court equiparabile a quella del terzo pignorato, vuoi perché – a differenza di quest’ultimo – il debitore è pur sempre una parte del processo, vuoi perché l’operatività del vincolo del pignoramento nell’espropriazione presso terzi è collegata, a ben vedere, all’obbligo di custodia posto ex art. 546 c.p.c. a carico del solo terzo pignorato.

     In questa prospettiva, la previsione dell’obbligo per il creditore di notificare l’avviso anche al debitore non pare funzionale alla tutela di uno specifico e meritevole interesse.

     Anzitutto, proprio in quanto parte del processo il debitore conserva sempre la facoltà di verificare autonomamente l’omessa (o tardiva) iscrizione a ruolo e sollecitare in tal modo un provvedimento dichiarativo dell’inefficacia del pignoramento. Né un tale onere risulta così gravoso da richiedere il bilanciamento con un obbligo “positivo” a carico del creditore, tenuto conto del fatto che siffatto onere è a ben vedere connaturato alla logica stesso del processo (che nasce in conseguenza dell’inadempimento all’obbligo consacrato nel titolo esecutivo) ed alla previsione di strumenti di tutela per il debitore medesimo.

     Nel contempo, la formalità della notificazione dell’avviso al debitore appare “distonica” rispetto all’obiettivo di assicurare un sistema automatico di liberazione dei beni pignorati, atteso che l’operatività del vincolo sui beni pignorati discende esclusivamente dalla vigenza o meno degli obblighi di custodia a carico del terzo ex art. 546 c.p.c. In altri termini, sarebbe già di per sé idonea allo scopo la previsione dell’obbligo di notificazione dell’avviso nei confronti del terzo pignorato, essendo quest’ultimo il soggetto chiamato a “cooperare” con l’apposizione del vincolo sui beni.

     Infine, la valenza potenzialmente “formalistica” dell’obbligo in questione trova conferma nel fatto che la notificazione andrebbe comunque eseguita con le modalità di cui all’art. 492, secondo comma, c.p.c. (trattandosi di una notificazione successiva all’avvio del processo) e, quindi, presso la cancelleria del giudice dell’esecuzione nell’ipotesi in cui – come frequentemente accade nella prassi – il debitore abbia omesso di dichiarare la residenza od eleggere il domicilio in uno dei comuni del circondario.[31]

     Le considerazioni che precedono inducono ad interrogarsi sulle conseguenze dell’omessa o tardiva notificazione dell’avviso laddove essa riguardi unicamente la posizione del debitore esecutato. In particolare, occorre domandarsi se l’inadempimento all’obbligo di notificazione nei confronti del debitore comporti ugualmente l’inefficacia del pignoramento e giustifichi eventualmente un provvedimento dichiarativo del giudice dell’esecuzione.

     Se è vero che il tenore letterale del novellato quinto comma dell’art. 543 c.p.c. non opera alcuna distinzione tra la posizione del debitore e quella del terzo (collegando l’inefficacia del pignoramento, genericamente, alla mera “mancata notifica dell’avviso”), nondimeno gli argomenti sopra prospettati suggeriscono una diversa soluzione per così dire “teleologicamente orientata”.

     In altri termini, se la ratio della riforma è data dall’esigenza che il terzo debitor debitoris abbia conoscenza automatica della vigenza o meno del vincolo del pignoramento e se la previsione dell’inefficacia configura non tanto una vera e propria “sanzione” bensì una mera conseguenza del venir meno dell’obbligo di custodia a carico del terzo, appare maggiormente in linea con lo scopo della norma limitare la caducazione degli effetti del pignoramento alla sola ipotesi in cui sia omessa (o tardivamente eseguita) la notificazione al terzo pignorato dell’avviso di iscrizione a ruolo.

     § 7.4. segue: la natura del provvedimento dichiarativo dell’inefficacia.

     In ultimo, qualche considerazione può svilupparsi in ordine alla natura del provvedimento con il quale il giudice dell’esecuzione debba dichiarare l’inefficacia del pignoramento per la mancata notificazione dell’avviso di iscrizione a ruolo.              

     Per la verità, si tratta di un’eventualità che dovrebbe risultare, per definizione, meramente residuale ed eccezionale, tenuto conto del fatto che il legislatore ha inteso costruire un sistema diretto alla liberazione “automatica” dei beni pignorati sulla scorta di una determinazione a cura del terzo pignorato, escludendo la necessità del ricorso al giudice.[32]

     In linea di principio, l’inefficacia potrebbe essere dogmaticamente costruita nei termini di una fattispecie di estinzione tipica del processo esecutivo conseguente ad una inattività “qualificata” ex art. 630 c.p.c.

     A ben vedere, essa consegue all’inadempimento da parte del creditore ad un obbligo – la notificazione dell’avviso di iscrizione a ruolo – che rappresenta un adempimento necessario per la prosecuzione del processo esecutivo, trattandosi della condizione per la persistente vigenza dell’obbligo di custodia da parte del terzo.[33]

     Nel contempo, nella misura in cui la sanzione dell’inefficacia si raccorda pur sempre al meccanismo delineato dal codice per l’iscrizione a ruolo del processo di espropriazione forzata (del quale rappresenta, in buona sostanza, la ricaduta sul versante della vigenza del vincolo del pignoramento) ragioni di coerenza e di semplificazione inducono a privilegiare una soluzione che sia analoga a quella affermata per il caso dell’omessa e/o tardiva iscrizione a ruolo.[34] 

     Quanto alle conseguenze di una siffatta qualificazione ne discende che:

  • l’estinzione può essere rilevata d’ufficio (oltre che oggetto di specifica eccezione di parte);
  • l’ordinanza che abbia dichiarato l’estinzione (od abbia rigettato l’eccezione di estinzione formulata dall’interessato) è soggetta al rimedio del reclamo al Collegio ai sensi degli artt. 630, terzo comma, c.p.c. e 178 c.p.c. (con una decisione da adottarsi con sentenza suscettibile di appello);
  • l’esecutato non è tenuto a spiegare un’opposizione deducendo la violazione del termine, né è onerato di proporre tempestiva opposizione agli atti esecutivi nel termine ex art. 617 c.p.c., occorrendo piuttosto (ed essendo anzi sufficiente) che formuli istanza al giudice per la declaratoria di estinzione del processo.[35]

     Non appare invece predicabile un limite temporale al rilievo dell’inefficacia conseguente all’omessa notificazione dell’avviso di iscrizione a ruolo e, in particolare, non appare operativo il limite sancito dall’art. 630, secondo comma, c.p.c. nella parte in cui prevede che l’estinzione sia dichiarata “non oltre la prima udienza successiva al verificarsi della stessa”. Sotto questo profilo, infatti, occorre considerare come – nell’ipotesi disciplinata dall’art. 543 c.p.c. – la declaratoria di inefficacia/estinzione consegua direttamente al venir meno del vincolo del pignoramento in virtù dell’automatica liberazione dei beni (stante la cessazione degli obblighi di custodia a carico del terzo). Ne discende che, in qualunque momento della sequenza del processo esecutivo, il giudice non può far altro che prendere atto della caducazione degli effetti del pignoramento oramai definitivamente determinatasi e del fatto che quell’atto non risulta più idoneo a sorreggere l’ulteriore compimento degli atti esecutivi.

     Ovviamente, una tale ricostruzione dovrebbe tener conto della peculiare posizione del terzo pignorato e del fatto che, come più volte evidenziato, questi non è parte del processo esecutivo.      Esigenze di coerenza sistematica inducono allora a ritenere che – laddove la causa di inefficacia del pignoramento non venga eccepita dalle parti o rilevata dal giudice e l’espropriazione illegittimamente prosegua con la pronuncia dell’ordinanza di assegnazione del credito – gli strumenti per la contestazione di un tale “vizio” da parte del terzo (chiaramente interessato a far valere il venir meno dell’obbligo di custodia a proprio carico per le conseguenze che ne discendono in punto di libera disponibilità dei beni) siano quelli ordinari per la deduzione delle nullità degli atti esecutivi e, segnatamente, l’opposizione ex art. 617


[1] Per un primo commento in merito alle previsioni della legge delega, Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustiziainsieme.it; Fabiani, Piccolo, Le modifiche in tema di esecuzione forzata di cui alla legge di riforma (n. 206/2021) della giustizia civile. Note a prima lettura, in Giustiziainsieme.it.; Crivelli, Mercurio, Annotazioni sulla legge di delegazione per la riforma del codice di rito, con riferimento alle disposizioni in tema di processo esecutivo, in REF, 2021, 1015.

[2] L’entrata in vigore è prevista quindi per il 22 giugno 2022, posto che la legge n. 206 del 2021 è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 292 del 9 dicembre 2021 ed è entrata in vigore il 24 dicembre 2021.

[3] Peraltro, il carattere oramai “fisiologico” dell’inadempimento delle pubbliche amministrazioni e la conseguente proliferazione di procedure espropriative in danno delle stesse sono all’origine di svariati interventi legislativi che hanno introdotte peculiari forme di “blocco” delle azioni esecutive avviate in danno delle P.A.

  Senza ovviamente alcuna pretesa di esaustività, un significativo esempio è costituito – per la rilevante portata applicativa pratica della relativa disposizione e per l’inevitabile “tensione” che essa ha presentato rispetto ai parametri degli artt. 24 e 111 Cost. – dalla previsione dell’art. 117, comma 4, del D.L. 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, nella legge 17 luglio 2020, n. 77, con la quale, in collegamento con l’emergenza epidemiologica da Covid-19, il legislatore ha sancito il divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive in danno degli enti del sistema sanitario nazionale sino al 31/12/2020, divieto successivamente prorogato al 31/12/2021 (per effetto dell’art. 3, comma 8, del D.L. 31 dicembre 2020, n. 183, convertito, con modificazioni, nella legge 26 febbraio 2021, n. 26) ed in ordine alla quale è intervenuta dichiarazione di illegittimità costituzionale (in particolare, limitatamente a tale proroga: Corte Cost., sentenza del 7 dicembre 2021, n. 236).

  Parimenti assume rilievo il meccanismo recentemente introdotto per i Comuni sede di capoluogo di città-metropolitana dall’art. 1, commi 567 e seguenti, della legge 30 dicembre 2021, n. 234 (c.d. Finanziaria 2022), meccanismo che – con l’obiettivo di superare il deficit finanziario di tali enti ed in collegamento con uno stanziamento di risorse a carico dello Stato – contempla un piano per la rilevazione dei debiti dell’ente (comma 574), la definizione in via transattiva delle pendenze (comma 575) ed il contestuale divieto di iniziare o proseguire azioni esecutive in danno dell’ente e l’espressa dichiarazione di estinzione di quelle già pendenti (comma 576).       

[4] Sulla riforma del 2014 si segnalano in questa sede, senza pretesa di completezza, Canella, Novità in materia di esecuzione forzata, RTPC, 2015, 278; D’Alessandro, L’espropriazione presso terzi, in AA.VV., Processo civile efficiente e riduzione dell’arretrato, a cura di Luiso, Torino, 2014, 67; De Stefano, Gli interventi in materia di esecuzione forzata nel d.l. 132/2014, Riv. esec. forz., 2014, 792; Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in Judicium.it; Tedoldi, Le novità in materia di esecuzione forzata nel d.l. 132/2014, Corr. Giur., 2015, 394.

[5] In tale ultimo caso, infatti, la espropriazione soggiace alla regola sancita dall’art. 26 c.p.c. e, quindi, essa si svolge nel luogo dove la cosa si trova.

[6] In particolare, la legge 24 dicembre 2012, n. 228 aveva modificato gli artt. 543 e 547 c.p.c., stabilendo che il pignoramento dovesse contenere l’invito al terzo a comparire all’udienza nel solo caso in cui “il pignoramento riguarda i crediti di cui all’articolo 545, commi terzo e quarto”, laddove, negli altri casi, il terzo era semplicemente onerato di “comunicare la dichiarazione di cui all’articolo 547 al creditore procedente entro dieci giorni a mezzo raccomandata ovvero a mezzo di posta elettronica certificata”.

  Il D.L. n. 132 del 2014 ha eliminato il meccanismo speciale previsto per i crediti di natura “retributiva” ed ha generalizzato un sistema nel quale la comparizione del terzo dinanzi al giudice dell’esecuzione è contemplata, per così dire, unicamente “in seconda battuta” e, in particolar modo, per il caso in cui il terzo ometta la comunicazione della dichiarazione (cfr. l’art. 543, comma 2, n. 4, c.p.c. e l’art. 548 c.p.c.) oppure laddove insorgano contestazioni sulla dichiarazione (cfr. l’art. 549 c.p.c.).    

[7] La novella del 2014 ha comportato quindi che – a differenza che in passato – il debitore venga coinvolto in un unico processo sia nel caso in cui il pignoramento di crediti sia eseguito ai suoi danni con il coinvolgimento di plurimi terzi, sia nell’ipotesi in cui al debitore vengano notificati molteplici atti di pignoramento relativamente a ciascuno dei terzi pignorati (nel quale caso, radicandosi innanzi al medesimo giudice, i processi saranno suscettibili di riunione) (Soldi, Manuale dell’esecuzione forzata, 2017, Padova, 1043).

  In ordine agli ostacoli che derivavano al simultaneus processus in caso di pluralità di terzi debitori residenti in luoghi che giustificavano differenti competenze nel sistema previgente, si vedano le considerazioni di Pilloni, Su ratio e limiti (de iure condito) del simultaneus processus esecutivo nell’ipotesi di pignoramento da eseguirsi presso più terzi, Riv. esec. forz., 2011, 339.

  Per la possibilità, già prima della modifica in argomento, di procedere ad un’espropriazione unitaria anche in questi casi, Capponi, Il simultaneus processus nell’espropriazione forzata di crediti, Riv. esec. forz., 2011, 342; Tota, In tema di translatio iudicii e connessione nel processo di espropriazione presso terzi, Riv. dir. proc., 2008, 1580.

[8] Cass. 4 aprile 2018, n. 8172. Segnatamente, l’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001 prevede che “per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative, le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo, le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane, e loro consorzi e associazioni, le istituzioni universitarie, gli Istituti autonomi case popolari, le Camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni, tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali, le amministrazioni, le aziende e gli enti i del Servizio sanitario nazionale, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300. Fino alla revisione organica della disciplina di settore, le disposizioni di cui al presente decreto continuano ad applicarsi anche al CONI”.

[9] Tale problematica involge il delicato tema dei rapporti con la disciplina di contabilità delle pubbliche amministrazioni ed inevitabilmente esula dai limiti del presente lavoro.

  A questo proposito, è sufficiente ricordare come – per le amministrazioni dello Stato – la normativa primaria e secondaria che viene in rilievo sia quella compendiata nel R.D. 18 novembre 1923, n. 2440 (“Nuove disposizioni sull’amministrazione del patrimonio e sulla contabilità generale dello Stato”), nel R.D. 23 maggio 1924, n. 827 (“Regolamento per l’amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato”), nonché – per i profili attinenti al servizio di tesoreria centrale e provinciale di Stato – nella legge 28 marzo 1991, n. 104 (“Proroga della gestione del servizio di tesoreria provinciale dello Stato”) e nel D. Lgs. 5 dicembre 1997, n. 430 (“Unificazione dei Ministeri del tesoro e del bilancio e della programmazione economica e riordino delle competenze del CIPE, a norma dell’articolo 7 della legge 3 aprile 1997, n. 94”). In particolare, il servizio di tesoreria è gestito da un soggetto “esterno” (la Banca d’Italia) in forza di una duplice convenzione con il Ministero del Tesoro e, segnatamente, la convenzione del 17 gennaio 1992 per l’esercizio del servizio di tesoreria provinciale (autorizzata con la legge n. 104 del 1991 sopra citata) e la convenzione del 9 ottobre 1998 per l’esercizio del servizio di tesoreria centrale (autorizzata dall’art. 6 del D. Lgs. n. 430 del 1997 sopra citato).

    Ad ogni modo, il nucleo centrale di tale normativa è dato dal principio per cui tutte le entrate di pertinenza dello Stato debbano confluire presso la relativa tesoreria e che tali somme possano fuoriuscirne unicamente al momento della spendita disposta dai relativi organi competenti (in genere, con l’emissione dei c.d. mandati di pagamento ai quali il tesoriere è chiamato a dare esecuzione), ciò che ha indotto la giurisprudenza di legittimità ad affermare che “la normativa sulla tesoreria unica prevede quindi quale unica forma di pignoramento del denaro delle pubbliche amministrazioni ivi contemplate (tra cui … le amministrazioni centrali dello Stato) quello del pignoramento presso terzi presso il tesoriere(Cass. 6 aprile 2011 n. 7863).

  Il sistema sopra tratteggiato ha rappresentato il modello sulla base del quale il legislatore ha disciplinato il sistema di c.d. tesoreria unica applicabile ad una serie di enti “pubblici” distinti dalle amministrazioni statali in senso stretto.

  Al riguardo, la disciplina è quella contenuta nella legge 29 ottobre 1984, n. 720, (“Istituzione del sistema di tesoreria unica per enti ed organismi pubblici”), la quale concerne gli enti ed organismi espressamente individuati nella Tabella A annessa (tra i quali figurano, principalmente, le Regioni, gli enti locali, le aziende e gli enti del servizio sanitario nazionale e le Università). Circa le procedure espropriative promosse in danno di tali enti, l’art. 1-bis stabilisce – al comma 1 – che “i pignoramenti ed i sequestri … … delle somme affluite nelle contabilità speciali intestate ai predetti enti ed organismi pubblici si eseguono, secondo il procedimento disciplinato al Capo III del Titolo II del Libro III del codice di procedura civile, con atto notificato all’azienda o istituto cassiere o tesoriere dell’ente od organismo contro il quale si procede nonché al medesimo ente od organismo debitore”, nonché – al comma 4-bis – che “non sono ammessi atti di sequestro o di pignoramento ai sensi del presente articolo presso le sezioni di tesoreria dello Stato e presso le sezioni decentrate del bancoposta a pena di nullità rilevabile anche d’ufficio”.

  Per la verità, una recente pronuncia della Corte di Cassazione ha riconosciuto la possibilità che, salvo disposizioni specifiche in deroga, l’espropriazione riguardi crediti vantati da tali enti anche verso soggetti diversi dal proprio istituto tesoriere (Cass. 9 novembre 2021, n. 32824).

  Ad ogni modo, un divieto esplicito è contenuto nell’art. 159, comma 1, del D. Lgs. n. 267 del 2000 (c.d. Testo Unito degli Enti Locali), a tenore del quale “non sono ammesse procedure di esecuzione e di espropriazione forzata nei confronti degli enti locali presso soggetti diversi dai rispettivi tesorieri”.

  Per un approfondito esame delle problematiche connesse all’espropriazione in danno delle amministrazioni soggette al regime di tesoreria unica, Rossi, L’attuazione delle pretese nei confronti della P.A., in AA.VV. Le espropriazioni presso terzi, a cura di F. Auletta, Bologna, 2011, 259.

[10] Cass. 9 luglio 2014, n. 15676 in tema di competenza in tema di giudizio di accertamento ex art. 548 c.p.c.; Cass. 4 aprile 2018, n. 8172, la quale – nell’eventualità di una pubblica amministrazione soggetta al regime dell’art. 1-bis della legge n. 720 del 1984 – ha precisato che resta esclusa “per il caso che cassiere o tesoriere sia una persona giuridica, la possibilità di procedere all’esecuzione alternativamente anche nel luogo della sua sede”.

[11] In tal senso, espressamente, la sopra citata Cass. 4 aprile 2018, n. 8172, in motivazione.

[12] A questo proposito, occorre fare riferimento all’art. 18 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (“testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato”), disposizione a tenore della quale “L’Avvocatura dello Stato è costituita dall’Avvocatura generale e dalle avvocature distrettuali. L’Avvocatura generale ha sede in Roma. Le avvocature distrettuali hanno sede in ciascun capoluogo di regione e, comunque, dove siano istituite sedi di corte d’appello. Nella circoscrizione della corte di appello di Roma le attribuzioni dell’avvocatura distrettuale sono esercitate dall’Avvocatura generale dello Stato. Nella circoscrizione della corte di appello di Torino l’avvocatura distrettuale di Torino ha competenza anche per la Valle d’Aosta”.

[13] La Relazione illustrativa precisa che “… per effetto del prossimo accentramento della funzione di tesoreria statale, il mantenimento del criterio di cui al vigente articolo 26-bis del codice di procedura civile comporterebbe la concentrazione di tutte le procedure esecutive di cui sopra presso il Tribunale di Roma, con conseguente insostenibilità del relativo carico. La modifica introdotta, conciliando il nuovo criterio del foro del creditore con il principio del foro erariale, radica la competenza nel foro dove ha sede l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato, nel cui distretto il creditore ha la residenza, il domicilio, la dimora o la sede, consentendo così una ragionevole distribuzione delle controversie tra diversi tribunali distrettuali”.

[14] Ciò senza considerare il rischio di un effetto di estrema “parcellizzazione” della competenza (potendo, in teoria, un medesimo creditore agire anche innanzi a fori differenti), con una situazione di forum shopping che potrebbe prestarsi agevolmente ad abusi in danno della pubblica amministrazione debitrice (anche e soprattutto sotto forma di frazionamento delle azioni esecutive e conseguente moltiplicazione dei costi). 

[15] In tal senso, Tedoldi, Gli emendamenti in materia di esecuzione forzata al d.d.l. delega AS 1662/XVIII, in Giustiziainsieme.it, il quale sottolinea come, in termini generali, per le persone fisiche il criterio della dimora sia solo sussidiario, essendo invocabile – ai sensi dell’art. 18 c.p.c. – solo quando residenza o domicilio siano ignoti; in termini pressoché analoghi, Fabiani, Piccolo, Le modifiche in tema di esecuzione forzata di cui alla legge di riforma (n. 206/2021) della giustizia civile. Note a prima lettura, in Giustiziainsieme.it.

[16] Sulla problematica dei criteri di individuazione della giurisdizione nell’espropriazione di crediti, si vedano – con riguardo al regime introdotto nel 2014 – le considerazioni di Saletti, Competenza e giurisdizione nell’espropriazione di crediti, in Judicium.it.

[17] A questo proposito, giova ricordare come la giurisprudenza di legittimità formatasi sotto il vigore dell’originaria disposizione dell’art. 26 c.p.c. con riguardo al c.d. foro del terzo abbia collegato la giurisdizione italiana “all’ubicazione o meno nel territorio dello stato dell’oggetto dell’esecuzione” (Cass. Sez. Un. 5 novembre 1981, n. 5827).

[18] In buona sostanza, si configurerebbe un meccanismo – imperniato sul foro della pubblica amministrazione convenuta – speculare ed inverso rispetto a quello delineato dall’art. 18, comma 2, c.p.c.

[19] In proposito, giova ricordare come la Corte Costituzionale – adita sulla questione di legittimità dell’art. 25 c.p.c. – abbia ravvisato adeguata giustificazione della disciplina del foro erariale “da un lato, nell’esigenza di concentrare – in vista di un minor costo e di un migliore svolgimento del servizio (cui fa richiamo anche l’art. 97 della Costituzione), e perciò a vantaggio dell’intera collettività (ridondante indirettamente anche a beneficio dei singoli, e perciò degli stessi eventuali avversari dello Stato in giudizio) – gli uffici dell’Avvocatura dello Stato; dall’altro nell’esigenza di concentrare i giudizi cui partecipa lo Stato – frequentemente implicanti questioni sui generis di complessa risoluzione – presso un numero ristretto di sedi giudiziarie, sì da dare impulso alla specializzazione di queste nel trattarli, con vantaggio dello svolgimento e dei risultati della funzione giudiziaria, e quindi, ancora una volta, dell’intera collettività”; nel contempo, la Corte ha escluso che – pur comportando un maggior onere per la controparte – lo spostamento di competenza si risolva in una effettiva diminuzione del diritto di agire e difendersi in giudizio (Corte Cost., sentenza del 16 dicembre 1964, n. 118). 

[20] Ciò risulta particolarmente evidente nel caso in cui, ad esempio, si ipotizzasse – in conformità al mero dato testuale del novellato art. 26-bis, comma, c.p.c. – l’applicazione del criterio del foro erariale anche alle espropriazioni promosse in danno di enti locali territoriali (in primis i Comuni) o degli enti del servizio sanitario nazionale (soggetti espressamente ricompresi nel perimetro applicativo dell’art. 1, comma 2, del D. Lgs. n. 165 del 2001).

  A ben vedere, l’espropriazione nei confronti di un ente di tal fatta sarebbe sempre astrattamente esperibile su tutto il territorio nazionale (sia pure presso i soli tribunali capoluoghi di distretto di corte d’appello) in ragione del domicilio/residenza/sede del creditore, senza tuttavia alcun bilanciamento ex latere debitoris stante la non applicabilità delle norme in tema di rappresentanza e difesa dell’Avvocatura dello Stato.

  Nel contempo, potrebbe accadere che lo spostamento di competenza presso il tribunale capoluogo di distretto di corte d’appello sia anche maggiormente gravoso per il creditore. Si pensi al caso del creditore di un Comune che abbia domicilio/residenza/sede nel circondario del tribunale in cui sia ubicato il Comune medesimo, il quale sarebbe onerato – laddove il tribunale non sia capoluogo di distretto di corte d’appello – ad avviare l’espropriazione presso quest’ultimo pur laddove sia privo di qualsivoglia ulteriore elemento di collegamento.  

[21] Ciò in forza delle convenzioni sopra menzionate alla nota 9.

  In tale prospettiva, la modifica dell’art. 26-bis, comma 1, c.p.c. seguirebbe, a ben vedere, una logica non dissimile da quella già postulata da quella giurisprudenza di legittimità che – nel vigore della disciplina dell’art. 26 c.p.c. precedente la riforma del 2014 – aveva ritenuto che l’individuazione della sede della Banca d’Italia idonea a radicare la competenza per territorio non corrispondesse a quella legale (in Roma), bensì – in ragione delle norme inderogabili di contabilità pubblica – alla sezione di tesoreria della provincia nella quale fosse domiciliato il creditore (Cass. 10 maggio 2011, n. 10198). 

[22] In tal senso, espressamente, la sopra richiamata Cass. 4 aprile 2018, n. 8172.

[23] Rossi, L’attuazione delle pretese nei confronti della P.A., op. cit., 276.

  Tale affermazione si comprende ove si ponga mente al fatto che il sistema di tesoreria unica è incentrato su due cardini: “a) l’accentramento in contabilità speciali aperte presso la tesoreria provinciale dello Stato (servizio ex lege affidato alla Banca d’Italia) di tutti i fondi di pertinenza degli enti pubblici assoggettati al sistema …; b) l’affidamento all’istituto di credito tesoriere o cassiere dell’ente (da questi individuato secondo procedure di evidenza pubblica) della gestione dei fondi e del compimento, quale organo esecutivo dell’ente stesso, delle operazioni di incasso e di pagamento a valere appunto sulle contabilità speciali accese presso la tesoreria provinciale” (così, testualmente, Rossi, L’attuazione delle pretese nei confronti della P.A., op. cit., 274.

[24] Tale conclusione assume particolare rilevanza pratica ove si consideri che al regime di tesoreria unica sono sottoposti una molteplicità di enti ed organismi pubblici (elencati nella tabella A allegata alla legge n. 720 del 1984). Come in parte già evidenziato, vi figurano, infatti, gli enti del servizio sanitario nazionale, le università, le aziende municipalizzate ed i consorzi per l’erogazione di servizi di trasporto pubblico locale, le aziende c.d. speciali, le Regioni e gli enti locali.

  Ad ogni modo, la praticabilità di una tale soluzione dovrà confrontarsi con la prospettata futura modifica del sistema di tesoreria dello Stato (che, in verità, la Relazione illustrativa alla legge n. 206 del 2021 ha unicamente preannunciato).

[25] Ciò emerge in particolar modo dal riferimento testuale contenuto nel secondo periodo del comma 6 dell’art. 543 c.p.c. novellato nella parte in cui si prevede espressamente che “gli obblighi … del terzo cessano alla data dell’udienza indicata nell’atto di pignoramento”.

[26] Sotto questo profilo, non appare fuor luogo ricordare come il terzo pignorato non sia una parte del processo di espropriazione forzata, bensì un soggetto estraneo sul quale incombe normativamente un onere di “cooperazione” per la realizzazione coattiva del credito spettante pur sempre ad altri (il creditore pignorante e gli eventuali creditori intervenuti).

  Dunque, la considerazione della posizione del terzo risponde ad un canone di proporzionalità e ragionevolezza, nel senso, cioè, che risponde a basilari esigenze logiche far sì che il coinvolgimento del terzo nel processo esecutivo abbia luogo in modo tale da escludere un significativo aggravio nella sua sfera giuridica. 

  L’esclusione della natura di parte del processo per il terzo pignorato costituisce un principio del tutto consolidato in seno alla giurisprudenza di legittimità, principio del quale la Corte di Cassazione ha fatto applicazione con riguardo a molteplici profili: si vedano, a mero titolo di esempio, le pronunce di Cass. 19 settembre 1995, n. 9888; Cass. 26 maggio 2014, n. 11642; Cass. 10 maggio 2016, n. 9390.

[27] In tal senso, Fabiani, Piccolo, Le modifiche in tema di esecuzione forzata di cui alla legge di riforma (n. 206/2021) della giustizia civile. Note a prima lettura, in Giustiziainsieme.it.

[28] Tale conclusione vale anche nel caso in cui nella data indicata dal creditore l’udienza materialmente non abbia luogo in quanto differita per qualsivoglia ragione.

[29] In questo senso, appare inequivocabile il testo del novellato quinto comma dell’art. 543 c.p.c., laddove l’inefficacia del pignoramento è collegata – con previsione disgiuntiva – sia alla mancata notifica dell’avviso, sia al suo mancato deposito nel fascicolo.

[30] Ciò significa che – laddove il creditore abbia tempestivamente notificato l’avviso di iscrizione a ruolo prima dell’udienza di comparizione indicata nel pignoramento – resta irrilevante la circostanza che abbia depositato l’avviso in un momento successivo: ad esempio, perché l’udienza indicata sia stata concretamente differita.

[31] Peraltro, la natura formalistica dell’adempimento a carico del creditore risulterebbe ancor più evidente nell’eventualità in cui il debitore abbia operato la dichiarazione di residenza o l’elezione di domicilio di cui all’art. 492, secondo comma, c.p.c.: infatti, già con il deposito della dichiarazione nel fascicolo dell’espropriazione il debitore potrebbe avere conoscenza legale dell’intervenuta iscrizione a ruolo, ciò che renderebbe pressoché inutile la notificazione di un ulteriore avviso da parte del debitore.

[32] Se ciò è particolarmente evidente nel caso in cui l’iscrizione a ruolo sia stata del tutto omessa, tuttavia, la necessità di un provvedimento dichiarativo potrebbe sussistere laddove quell’iscrizione abbia comunque avuto luogo e, piuttosto, sia mancata la tempestiva notificazione dell’avviso da parte del creditore.

[33] A sostegno di tale qualificazione, peraltro, potrebbero richiamarsi – in via analogica – le conclusioni cui è pervenuta la giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione dell’art. 497 c.p.c. in tema di istanza di vendita, atteso che, a ben vedere, il meccanismo delineato dalla legge n. 206 del 2021 è costruito secondo uno schema logico analogo (ovverosia, l’imposizione a carico del creditore di un onere di “impulso”; la previsione di un termine entro il quale eseguire l’adempimento; la comminatoria dell’inefficacia del pignoramento per il caso di omissione o violazione del termine).

  Orbene, la giurisprudenza di legittimità ha precisato come l’omesso od il tardivo deposito dell’istanza di vendita siano situazioni strutturalmente assimilabili alla vicenda dell’estinzione del processo: “in entrambi i casi la situazione può essere definita con l’ordinanza di cui all’art. 630 cod. proc. civ., avente come contenuto il diretto accertamento dell’inefficacia del pignoramento e la conseguente declaratoria di estinzione del processo esecutivo” (Cass. 16 giugno 2003, n. 9624).

[34] Ipotesi che, secondo la communis opinio, conduce alla declaratoria di estinzione per inattività ex art. 630 c.p.c.

[35] Sempre nell’ottica del confronto con le soluzioni prospettate dalla giurisprudenza in materia di omesso o tardivo deposito dell’istanza di vendita, è utile il richiamo alle pronunce di Cass. 12 settembre 2014, n. 19283, Cass. 6 agosto 2010, n. 18366 e Cass. 16 giugno 2003, n. 9624, le quali concordemente escludono l’onere per il debitore di proporre opposizione agli atti esecutivi nel momento in cui abbia conoscenza legale della causa di estinzione, essendo sufficiente formulare eccezione di estinzione nel termine ex art. 630, secondo comma, c.p.c.

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