Sommario: 1. L’interruzione del processo. – 2. I casi. – 3. Il regime giuridico. – 4. Il dies ad quem per la dichiarazione dell’evento interruttivo. – 5. La prosecuzione del giudizio di divorzio in caso di morte di uno dei coniugi. – 6. Le modalità di riassunzione. – 7. La dichiarazione di fallimento di una parte. – 8. Quando si perfeziona la riassunzione di un processo? – 9. Il cumulo di cause scindibili. – 10. L’estinzione del processo: i casi. – 11. Il regime giuridico. – 12. L’estinzione per inattività delle parti. – 13. Gli effetti dell’estinzione del processo.

  1. L’interruzione del processo

Anche l’interruzione comporta uno stato di quiescenza del processo così come la sospensione, ma nel caso dell’interruzione il legislatore tutela il diritto alla difesa ed al contraddittorio della parte colpita dall’evento interruttivo. Posto che le norme sull’interruzione del processo sono volte a tutelare la parte nei confronti della quale si sia verificato detto evento e che dallo stesso può essere pregiudicata, questa è la sola legittimata a valersi della mancata interruzione. Le ipotesi di interruzione sono tassative e danno luogo a provvedimenti del giudice di natura dichiarativa.

Ne consegue che, qualora il giudice dichiari erroneamente l’interruzione, le parti non sono tenute a riassumere il processo essendo la declaratoria priva di effetti. Se, per contro, il giudice non dichiari l’interruzione, nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo, il processo prosegue invalidamente comportando la nullità derivata della sentenza. Tuttavia, poiché le norme che disciplinano l’interruzione del processo sono preordinate alla tutela della parte colpita dal relativo evento, soltanto quest’ultima è legittimata a dolersi dell’irrituale continuazione del processo nonostante il verificarsi della causa interruttiva, sicché la mancata interruzione del processo non può essere rilevata d’ufficio dal giudice, né essere eccepita dall’altra parte come motivo di nullità (Cass. n. 17199/2016, n. 15031/2016, n. 24025/2009).

2. I casi

L’interruzione ha luogo al verificarsi di determinati eventi elencati agli articoli 299, 300 e 301 del codice di procedura civile, ovverosia la morte (cui sono equiparate per la persona fisica la morte presunta dichiarata con sentenza, per gli enti dotati di personalità giuridica la soppressione e per le società la cancellazione dal registro delle imprese) o la perdita della capacità (per interdizione, inabilitazione, dichiarazione di assenza, fallimento e procedure assimilate, sia pure con riferimento ai soli rapporti patrimoniali laddove riguardanti una persona fisica) di una delle parti o del suo rappresentante legale (o la cessazione di tale rappresentanza, ma solo per i soggetti incapaci, non già per gli enti muniti di personalità giuridica – v. postea – : Cass. n. 8584/1994; anche l’eventuale morte o cessazione del potere di rappresentanza dell’amministratore del condominio determinano l’interruzione del processo: Cass. n. 27302/2020; Cass. n. 3159/1993) oppure la morte o altro impedimento del procuratore (cancellazione, anche volontaria dall’albo, sospensione, radiazione).

Va evidenziato in particolare che l’apertura del fallimento, giusta l’art. 43, comma 3, L.F. determina,

ipso iure, l’interruzione dei procedimenti in corso.

Sez. 2, n. 10487/2018, Penta, Rv. 648169-01, ha chiarito che la morte del mandante che sta in giudizio per mezzo del mandatario ad negotia, costituito tramite procuratore legale, in tanto ha rilevanza processuale ed importa l’interruzione del processo in quanto sia stata dichiarata o notificata dal procuratore legale, restando irrilevante che la morte della parte sia nota al giudice ed alla controparte, sopravvivendo la rappresentanza processuale, per il suo particolare carattere di rapporto esterno rispetto al giudice ed alla controparte, al decesso del mandante; mentre nei rapporti interni fra mandante e mandatario, gli atti (in essi compresa la nomina di un procuratore ad processum) che siano stati compiuti dal mandatario prima di conoscere l’estinzione del mandato (per morte del mandante) restano validi, sia nei confronti del mandante che dei suoi eredi (salva da parte di questi ultimi la ratifica dell’operato del mandatario).

Per Sez. 1, n. 02817/2018, Ferro, Rv. 646878-01, i rappresentanti legali la cui morte, per il disposto degli artt. 299 e 300 c.p.c., è causa di interruzione del processo sono soltanto coloro che stanno in giudizio in luogo degli incapaci, non anche le persone che svolgono la funzione di organi degli enti dotati di una propria autonoma soggettività. In particolare, la morte del legale rappresentante di un ente munito di personalità giuridica non comporta l’interruzione del processo, poiché il concetto di rappresentanza legale, richiamato dall’articolo 299 del codice di procedura civile, si riferisce soltanto alla rappresentanza dei soggetti incapaci, mentre gli amministratori o i liquidatori di enti muniti di personalità giuridica sono mandatari dell’ente medesimo, in conformità di tutta la struttura e della disciplina legale del rapporto che li lega a questo, sicché è privo di efficacia interruttiva il cambiamento della persona fisica investita della rappresentanza della società o dell’ente.

La Corte ha precisato che il provvedimento di nomina dell’amministrazione di sostegno non determina di per sé l’interruzione del giudizio di cui sia parte il beneficiario dell’amministrazione e, anche qualora il difensore dell’amministratore dichiari in udienza l’evento, non si verifica automaticamente l’interruzione del processo, come invece accade nelle diverse ipotesi dell’interdizione e dell’inabilitazione (Sez. 1, n. 32845/2022, D’Orazio, Rv. 666134-01).

La cancellazione della società dal registro delle imprese, a partire dal momento in cui si verifica l’estinzione della società cancellata, priva la società stessa della capacità di stare in giudizio (con la sola eccezione della fictio iuris contemplata dall’art. 10 l.fall.). Tuttavia, avuto riguardo alle conseguenze, sul piano processuale, di questo evento, si confrontano tre indirizzi. Secondo un primo (Sez. 3, n. 20840/2018, Gianniti, Rv. 650423 – 03), qualora l’estinzione intervenga nella pendenza di un giudizio del quale la società è parte, si determina un evento interruttivo, disciplinato dagli artt. 299 ss. c.p.c., con eventuale prosecuzione o riassunzione da parte o nei confronti dei soci, successori della società, ai sensi dell’art. 110 c.p.c. (Sez. 5, n. 5605/2021, Putaturo Donati Viscido di Nocera, Rv. 660763-01). Secondo un indirizzo intermedio, qualora l’evento non sia stato fatto constare nei modi di legge o si sia verificato quando farlo constare in tali modi non sarebbe più stato possibile, l’impugnazione della sentenza, pronunciata nei riguardi della società, deve provenire o essere indirizzata, a pena d’inammissibilità, dai soci o nei confronti dei soci, atteso che la stabilizzazione processuale di un soggetto estinto non può eccedere il grado di giudizio nel quale l’evento estintivo è occorso (v. Sez. U, n. 06070/2013, Rodorf, Rv. 625324; conf. Sez. L, Sentenza n. 19580 del 04/08/2017). Secondo un altro orientamento (Sez. 2, Ordinanza n. 19272 del 15/06/2022), in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese, i cui effetti decorrono dalla estinzione, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, il difensore (al quale sia stata originariamente conferita procura ad litem anche per gli ulteriori gradi del processo) è legittimato a proporre impugnazione in rappresentanza della parte estinta[1]; a tale regola si sottrae il ricorso in cassazione, che necessita della procura speciale[2], non conferibile dal legale rappresentante della società estinta, privo di potere di rappresentanza, con conseguente inammissibilità del ricorso proposto[3].

Ancora in ambito societario, con specifico riguardo al caso di fusione per incorporazione ex art. 2504-bis c.c. intervenuta in corso di causa, merita di essere posta in evidenza Sez. U, n. 21970/2021, Nazzicone, Rv. 661864-01, la quale ha risolto il contrasto, esistente all’interno delle sezioni civili della Corte, in ordine alla questione della perdurante legittimazione processuale attiva e passiva della società incorporata o che abbia partecipato alla fusione paritaria. Invero, prima di tale importante arresto, nella giurisprudenza di legittimità si erano registrati al riguardo tre diversi orientamenti, pur partendo tutti dal comune assunto (affermato per la prima volta da Sez. U, n. 2637/2006, Proto, Rv. 586134-01) che la fusione integri una vicenda meramente “evolutiva-modificativa” e non estintiva. In particolare, le sezioni civili avevano alternativamente ritenuto che, intervenuta la cancellazione dal registro delle imprese dopo la fusione, la legittimazione attiva e passiva 1) fosse conservata dalla società incorporata, ovvero 2) spettasse esclusivamente alla società incorporante, ovvero ancora 3) ad entrambe senza dar luogo ad una successione mortis causa ed essendo impedita l’interruzione del processo. Al descritto contrasto hanno posto fine le citate Sez. U, n. 21970/2021, affermando che la fusione per incorporazione estingue la società incorporata, che non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore. Tuttavia, qualora la fusione intervenga in corso di causa, non si determina l’interruzione del processo, esclusa ex lege dall’art. 2504-bis c.c., ma la società incorporante ha la facoltà di spiegare intervento volontario, ai sensi e per gli effetti dell’art. 105 c.p.c..

Come precisato da Sez. 6 – 3, n. 18279/2020, Cricenti, Rv. 658770 – 01, la soppressione di un ente pubblico, anche per incorporazione in altro, equivale ad estinzione ed è causa di interruzione del processo.

Per Sez. 6-3, n. 14520/2015, Carluccio, Rv. 635984, la sospensione dall’esercizio della professione dell’unico difensore, a mezzo del quale la parte è costituita in giudizio, determina l’automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza. Riguardo al caso di interruzione del processo a causa della sospensione disciplinare dell’avvocato di una parte Sez. 2, n. 11918/2022, Scarpa, Rv. 664387-01, ha affermato che la temporaneità della sanzione diversifica i riflessi che la stessa produce sul processo interrotto nel senso che, una volta cessata, non è necessaria una nuova procura alle liti ed il procuratore, del tutto consapevole ed informato dell’evento interruttivo e della sua durata, pur in assenza della conoscenza legale, deve riprendere automaticamente ad esercitare il mandato alla scadenza anche in relazione agli adempimenti ex art. 305 c.p.c.

Secondo Sez. U, n. 3702/2017, Manna, Rv. 642537 – 01, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 301, comma 1, c.p.c. porta ad includere la cancel­lazione volontaria del difensore dall’albo tra le cause di interruzione del processo.

La cessazione di fatto dell’attività professionale del difensore, seppure imputabile a gravi ragioni di salute, non ha, invece, valenza interruttiva. L’articolo 301 c.p.c. precisa che non sono cause di interruzione la revoca della procura o la rinuncia ad essa: pertanto il procuratore dovrà continuare a difendere il proprio assistito sino a quando non verrà sostituito da un nuovo difensore.

Sez. 1, n. 27308/2018, Sambito, Rv. 651468-01, ha avuto l’occasione per chiarire che anche la cessazione del rapporto di impiego degli avvocati dipendenti degli enti pubblici, iscritti all’albo speciale annesso a quello professionale, determina il totale venir meno dello ius postulandi e l’automatica interruzione del processo.

Nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, nè consente agli eredi di tale parte l’ingresso nel processo (Cass. n. 1757/2016).

Sez. 3, n. 37729/2022, Valle, Rv. 666421-01, ha ribadito il principio secondo cui al processo esecutivo non è applicabile l’istituto dell’interruzione, perché l’azione esecutiva si esercita e si svolge in un processo non caratterizzato da formale contraddittorio non essendo volta all’accertamento della fondatezza di una pretesa, ma a conseguirne la realizzazione essendone già stato accertato il fondamento. Da ciò consegue che la morte del debitore esecutato, al pari della sua interdizione, non dà luogo ad interruzione del procedimento esecutivo (Cass. n. 5721/1994).

Di peculiare interesse in tema di riscossione dei tributi, è l’arresto di Sez. U, n. 15911/2021, Napolitano, Rv. 661509-03, la quale ha risolto una questione di massima di particolare importanza, prospettata dalla Sesta Sezione civile con l’ordinanza interlocutoria Sez.. 6. n. 17710/2020, Amendola, non massimata, proponendo i seguenti quesiti: “a) se, entrata in vigore la riforma del settore di cui al d.l. 22 ottobre 2016, n. 193, conv. con modif. in l. 1 dicembre 2016, n. 225, sia rituale l’instaurazione del contraddittorio per il giudizio di legittimità mediante notifica del ricorso al procuratore o difensore costituito per l’estinta società del gruppo Equitalia nel grado concluso con la sentenza impugnata, anziché alla neoistituita Agenzia delle Entrate – Riscossione. La successione “a titolo universale, nei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali”, di Agenzia delle Entrate-Riscossione alle società del gruppo Equitalia, prevista dall’art. 1, comma 3, del d.l. n. 193 del 2016, conv. dalla l. n. 225 del 2016, pur costituendo una fattispecie estintiva riconducibile al subentro in universum ius, riguarda il trasferimento tra enti pubblici, senza soluzione di continuità, del munus publicum riferito all’attività della riscossione, con la conseguenza che il fenomeno non comporta la necessità d’interruzione del processo in relazione a quanto disposto dagli artt. 299 e 300 c.p.c.

Va, infine, rimarcato che la notificazione della citazione introduttiva del giudizio di primo grado effettuata ad una persona fisica già deceduta (o ad un ente collettivo estinto) non dà luogo ad un’ipotesi di interruzione, ma è giuridicamente inesistente, posto che la capacità giuridica si acquista dal momento della nascita e si estingue con la morte; ne consegue l’insanabile nullità (inesistenza per alcuni arresti), rilevabile anche d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, delle sentenze pronunciate nel corso del processo nei confronti del soggetto deceduto prima dell’inizio dello stesso (Cass. n. 14360/2013).

3. Il regime giuridico

In base al disposto dell’art. 299 c.p.c. (applicabile anche nel giudizio di appello: Cass. n.  18351/2013), qualora la morte o la perdita della capacità di stare in un giudizio della parte oppure del suo rappresentante legale (o la cessazione di tale rappresentanza) si sia verificata dopo la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, ma prima della scadenza del termine per la costituzione, ha luogo l’automatica interruzione del processo[4].

Qualora uno degli eventi interruttivi contemplati dall’art. 299 c.p.c. si avveri nei riguardi di una parte costituita, l’art. 300 comma 1 c.p.c. prevede che il processo viene interrotto solo a seguito della relativa dichiarazione in udienza o notifica alle parti ad opera del difensore.

Sez. 3, n. 20840/2018, Gianniti, Rv. 650423-01 (ultrattività del mandato alla lite), ha affermato che, in caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, l’omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera di quest’ultimo comporta che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione.

Sez. 5, n. 08037/2021, Balsamo, Rv. 660820-01 ha ribadito il consolidato principio (tra i precedenti in senso conforme, ex multis, cfr. Sez. L, 24845/2018, Lorito, Rv. 650728-01) secondo cui la mancata dichiarazione in udienza o la notificazione alle altre parti di tali eventi da parte di quest’ultimo comporta, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione – ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale – in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo tuttora in vita e capace; di conseguenza, è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330, primo comma, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante; conseguentemente, osserva la pronuncia di cui si discorre, una volta ricevuta la notifica della impugnazione principale, il procuratore è abilitato a svolgere il ministero costituendosi con comparsa di costituzione ed eventualmente proponendo appello incidentale in nome e per conto della parte deceduta.

La dichiarazione o la notificazione della morte o della perdita della capacità della parte costituita, effettuata dal difensore ai sensi dell’art. 300, comma 1, c.p.c., determina la cessa­zione dell’ultrattività del mandato alla lite estintosi a causa dell’evento interruttivo e, quindi, la perdita dello ius postulandi (Sez. 6 – 3, n. 16144/2019, Scrima, Rv. 654315 – 01).

Per Sez. 3, n. 20809/2018, Iannello, Rv. 650416-01, la dichiarazione dell’evento interruttivo che ha colpito la parte costituita, di cui all’art. 300, comma 1, c.p.c., costituisce esercizio di un potere discrezionale del procuratore, al quale soltanto compete di valutarne l’opportunità nell’esclusivo interesse della parte rappresentata. Le norme che disciplinano l’interru­zione del processo sono preordinate alla tutela della parte colpita dal relativo evento, la quale è l’unica legittimata a dolersi dell’irrituale continuazione del processo nonostante il verificarsi della causa interruttiva, sicché la mancata interruzione del processo non può es­sere rilevata d’ufficio dal giudice, né essere eccepita dall’altra parte come motivo di nullità (in senso analogo, si veda anche Sez. 1, n. 15031/2016, Valitutti, Rv. 640714; conf. Sez. 3, n. 18804/2021, Iannello, Rv. 661714-01). Sez. 1, n. 7075/2022, Tricomi, Rv. 664115-01 e Sez. 1, n. 34867/2022, Iofrida, Rv. 666448-02, hanno ribadito il principio secondo cui le norme sull’interruzione del processo sono rivolte a tutelare la parte nei cui confronti si è verificato l’evento interruttivo, sicché l’irregolare prosecuzione del giudizio derivante dalla loro inosservanza può essere fatta valere soltanto da quest’ultima, che dall’evento interruttivo può essere pregiudicata, e non anche dalle altre parti, le quali, non risentendo di alcun pregiudizio, non possono dedurla come motivo di nullità della sentenza ciò nonostante pronunciata.

Diversamente avviene nel caso in cui l’evento interruttivo colpisca l’unico difensore a mezzo del quale la parte è costituita nel giudizio di merito: infatti, come precisato da Sez. 1, n. 23486/2021, Ferro, Rv. 662315-01, la morte, la radiazione e la sospensione dall’albo dell’unico difensore determinano l’automatica interruzione del processo, anche se il giudice e le altri parti non ne hanno conoscenza(e senza, quindi, che occorra, perché si perfezioni la fattispecie interruttiva, la dichiarazione o la notificazione dell’evento), con preclusione di ogni ulteriore attività processuale che, se compiuta, è causa di nullità degli atti successivi e della sentenza, la quale può essere impugnata per tale motivo, ma solo dalla parte colpita dagli eventi sopra descritti, poiché le norme che disciplinano l’interruzione sono finalizzate alla sua esclusiva tutela (Sez. 6 – 1, n. 00790/2018, Genovese, Rv. 647332-01).

Il giudice d’appello che dichiari la nullità della sentenza per la mancata interruzione del processo di primo grado a seguito della morte del procuratore, è tenuto a decidere la causa nel merito, non rientrando tale nullità fra i casi di rimessione al primo giudice ex artt. 353 e 354 c.p.c., precisando, che in tal caso, la relativa decisione deve contenere una motivazione del tutto autonoma, priva di qualsivoglia riferimento alla sentenza impugnata dichiarata nulla (Sez. 3, n. 27643/2022, Gorgoni, Rv. 665939-01).

La mancata dichiarazione dell’evento ad opera del suo procuratore, ai fini inter­ruttivi ai sensi dell’art. 300 c.p.c., non impedisce, secondo Sez. 2, n. 22950/2019, Fortu­nato, Rv. 655228 – 01 (ma il principio, a ben vedere, è stato già enunciato in passato da Sez. 2, n. 03018/2005, Mazzacane, Rv. 581098 – 01, secondo cui in questo caso il termine ‘riassunzione’ deve intendersi impropriamente usato come atto d’impulso processuale non conseguente ad una precedente fase di interruzione, ma volto anzi ad evitarla), alla contro­parte che sia comunque a conoscenza di tale evento di prendere l’iniziativa della chiamata in giudizio dei successori di detta parte mediante un atto di impulso processuale che, pur non qualificabile come riassunzione in senso tecnico, è idoneo a determinare la prosecu­zione del giudizio.

Nel caso in cui, in pendenza del termine per proporre appello, il minore costituitosi in giudizio a mezzo del proprio legale rappresentante raggiunga la maggiore età, l’omessa dichiarazione o notificazione di tale evento da parte del procuratore comporta, in virtù della regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica di quest’ultima rispetto alle altre parti ed al giudice, tanto nella fase attiva, quanto nella fase di riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione, la quale va notificata presso il procuratore della parte costituita in primo grado e successivamente divenuta maggiorenne (Cass. n. 30009/2018).

Tuttavia, Sez. 6-3, n. 14518/2015, Carluccio, Rv. 636002, ha chiarito che, nel giudizio introdotto dai genitori di un minorenne, quando si verifichi una causa interruttiva riguardante la controparte, è nullo l’atto di riassunzione fatto dal difensore degli attori originari in nome esclusivamente del figlio divenuto, medio tempore, maggiorenne, ma non conferitario della procura, giacché il raggiungimento della maggiore età, e la contestuale perdita da parte dei genitori della rappresentanza legale del minorenne, determina esso stesso una causa interruttiva del giudizio, che, solo quando non sia dichiarata, consente all’originario mandato – per il principio della ultrattività – di continuare a spiegare i suoi effetti nella fase processuale in cui l’evento si verifica.

Sez. 6 – 3, Sentenza n. 14518 del 2015: <<1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 299, 300, 301 e 302 c.p.c., e art. 125 disp. att. c.p.c.. Con il secondo motivo si deduce la violazione degli artt. 299, 300, 301 e 303 c.p.c., in riferimento agli artt. 102 e 354 c.p.c.. I motivi sono strettamente connessi e possono essere esaminati congiuntamente, sostanziandosi il secondo in una articolazione del primo.

1.1. Al fine di sostenere l’esistenza della procura nell’atto di riassunzione e, quindi, la sua idoneità alla riassunzione del giudizio interrotto per l’evento interruttivo riguardante la controparte, con conseguente illegittimità della dichiarata estinzione del processo di primo grado, i ricorrenti sviluppano le argomentazioni difensive secondo un percorso che può riassumersi, in estrema sintesi, attraverso i passaggi essenziali che seguono. Il mandato rilasciato al procuratore costituito dai genitori del soggetto minore, che nel corso del giudizio divenga maggiorenne, è ultrattivo, rientrando la cessazione della rappresentanza legale a seguito della maggiore età del figlio tra gli eventi interruttivi che, ex art. 300, commi 1 e 2, non comportano l’interruzione immediata, qualora le parti siano costituite in giudizio a mezzo di difensore/procuratore. Con la conseguenza che, se il procuratore dei genitori non dichiara l’evento, continua a rappresentare in giudizio i genitori divenuti incapaci, costituendo l’art. 300 una deroga all’art. 1722 c.c., n. 4. La ultrattività prevista dagli artt. 300, commi 1 e 2, quale deroga al principio civilistico della estinzione del mandato, è limitata alla fase del processo in cui si è verificato l’evento, non dichiarato nè notificato concernente il mandante, mentre è esclusa nella successiva fase di quiescenza e riattivazione del rapporto processuale (Sez. Un. n. 15783 del 2005). […]

In definitiva, secondo i ricorrenti, in assenza di dichiarazione e notificazione dell’evento del raggiungimento della maggiore età, la procura rilasciata dai genitori è valida all’interno del medesimo grado di giudizio in cui l’evento si è verificato, non potendosi equiparare la riassunzione verso la parte costituita per la morte del procuratore a un nuovo grado di giudizio e non essendoci neanche l’esigenza di tutelare la controparte che conosce le domande, non mutate, per essere il minore parte sostanziale.

[…]

Comunque, il processo è ritualmente proseguito in appello, per il quale la procura è stata rilasciata dalla minore divenuta maggiorenne, con conseguente sanatoria anche della fase della precedente riassunzione in primo grado.

Il secondo motivo si traduce in una articolazione del primo, sostenendo che, sul presupposto della non dichiarazione dell’evento interruttivo costituito dalla raggiunta maggiore età della figlia e, quindi, della ultrattività della procura originaria rispetto ai genitori, si sarebbe potuto integrare il contraddittorio nei confronti della figlia in primo grado e in secondo grado il giudice avrebbe potuto rimettere a tal fine la causa al primo giudice.

2. Le censure non hanno pregio e vanno rigettate.

2.1. Ai fini del rigetto assume valore centrale e dirimente il presupposto erroneo da cui prendono avvio tutte le argomentazioni dei ricorrenti.

Nel ricorso, infatti, si assume che l’evento interruttivo che ha riguardato gli originari attori, sotto la veste della cessazione della rappresentanza legale dei genitori a seguito del raggiungimento della maggiore età della figlia, non sia stato nè dichiarato nè notificato nel processo, con conseguente irrilevanza del verificarsi dello stesso nella fase processuale. Nell’assumere tale presupposto i ricorrenti tralasciano del tutto la circostanza fattuale, e non contestata oltre che risultante dagli atti processuali, che l’atto di riassunzione è stato fatto dal procuratore investito del mandato originario dai genitori, ma spendendo solo il nome della figlia. Ritiene il Collegio che proprio con tale atto e per la forma da esso assunta, solo in nome della figlia, l’evento interruttivo che aveva investito parte attrice – con la cessazione della rappresentanza legale dei genitori per il raggiungimento della maggiore età della figlia – sia stato dichiarato nel processo e notificato alle parti, con conseguente venir meno della ultrattività della originaria procura.

In virtù del mandato ricevuto dagli originari attori per la globale cura della controversia, l’avvocato, con l’effettuare l’atto di riassunzione solo in nome della figlia divenuta maggiorenne, ha scelto di disvelare nel processo l’avvenuta verificazione dell’evento interruttivo, che aveva determinato la perdita della rappresentanza legale da parte dei genitori, così facendo venir meno il mancato disvelamento, che è posto a base della ultrattività del mandato nella fase processuale in cui esso si verifica, continuando solo in tale ultimo caso il processo come se l’evento interruttivo non si fosse verificato. […]

2.2. Atteso che, per le ragioni esposte, nella specie, l’evento interruttivo che aveva interessato parte attrice era stato dichiarato nel processo mediante l’atto di riassunzione, ne consegue che non può trovare applicazione il principio, tradizionalmente affermato dalla giurisprudenza di legittimità e applicato anche con specifico riferimento all’atto di riassunzione del processo interrotto dichiarato della controparte, secondo il quale “La fattispecie cui l’art. 300 c.p.c., ricollega l’effetto interruttivo del processo consta di due elementi essenziali, rispettivamente costituiti dall’evento previsto come causa di interruzione e dalla relativa comunicazione formale ad opera del procuratore, in difetto della quale, il rapporto processuale continua a svolgersi come se l’evento non si fosse verificato. Ne consegue che il procuratore della parte colpita dall’evento interruttivo non dichiarato è legittimato a provvedere in base alla procura originariamente rilasciatagli, alla riassunzione del processo che sia stato interrotto per analogo evento riguardante un’altra parte e formalmente dichiarato. (Nella specie, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva dichiarato l’estinzione del mandato in favore del difensore del dante causa del ricorrente, per effetto dell’interdizione di quest’ultimo sopraggiunta nel corso del giudizio di primo grado e non dichiarata dal difensore medesimo, vigendo invece la regola dell’ultrattività del mandato difensivo all’interno della fase processuale in cui si era verificato l’evento interruttivo non dichiarato, per cui il difensore era pienamente titolato a riassumere il processo interrotto per il decesso di un’altra parte processuale)”. (da ultimo, Cass. n. 9480 del 2014; n. 318 del 1991). Principio che, con la sentenza del 2014 cit., è stato riaffermato anche considerando l’evoluzione giurisprudenziale (Sez. Un. n. 15783 del 2005 e n. 10706 del 2006) che ha limitato la ultrattività del mandato alla fase del processo in cui si è verificato l’evento. Naturalmente, poiché la mancanza di ultrattività del mandato nella specie ora in esame viene a fondarsi sul disvelamento dell’evento interruttivo nel processo – che i ricorrenti, invece, assumono non avvenuto – e non sulla equiparazione della fase del processo che si chiude con l’interruzione con una nuova fase, parificata a tal fine a quella costituita da un grado di esso, restano assorbite le argomentazione censorie dei ricorrenti volte a differenziare la fase che si apre con la riassunzione da quella che si apre con il giudizio di impugnazione.>>

Se la parte è costituita personalmente, il processo è interrotto al momento dell’evento (art. 300 comma 3 c.p.c.), mentre se l’evento colpisce il contumace, il processo si interrompe dal momento in cui il fatto interruttivo è documentato dall’altra parte, a mezzo, ad esempio, della produzione del certificato di morte del contumace effettuata dal procuratore della controparte costituita o è notificato o certificato dall’ufficiale giudiziario nella relazione di notificazione di uno dei provvedimenti di cui all’art. 292 c.p.c..

4. Il dies ad quem per la dichiarazione dell’evento interruttivo

Quanto al caso in cui l’evento interruttivo sia dichiarato dopo la precisazione delle conclusioni, è consolidata la distinzione dei suoi effetti a seconda che la dichiarazione intervenga prima o dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 190 c.p.c. In particolare Sez. 2, n. 33203/2022, Carrato, Rv. 666139-01, in linea con la precedente giurisprudenza della Corte secondo cui nel caso in cui l’evento della morte della parte costituita in giudizio sia dichiarata dal suo procuratore in comparsa conclusionale (e prima, quindi, della scadenza dei termini assegnati ai sensi dell’art. 190 c.p.c.), dev’essere dichiarata l’interruzione del processo [5]– non potendo trovare applicazione l’art. 300, ultimo comma, in quanto tale ipotesi non è parificabile al caso in cui l’evento interruttivo si avveri o sia notificato dopo la chiusura della discussione davanti al collegio, che, nella disciplina introdotta dalla legge n. 353 del 1990, è equiparata al momento in cui, dopo l’udienza di precisazione delle conclusioni, viene a scadere il termine per il deposito delle comparse conclusionale e delle memorie di replica – ha ritenuto che, ove l’interruzione non sia stata dichiarata dal giudice di primo grado, il giudice di appello sia tenuto a dare atto dell’interruzione del giudizio ex art. 300, comma 1 c.p.c., con la necessità della sua riassunzione tempestiva, in virtù dell’art. 303 c.p.c., al fine di non incorrere nella declaratoria di estinzione.

Sez. 6-3, n. 14472/2017, De Stefano, Rv. 644630-01, ha ribadito che la morte o la perdita della capacità della parte costituita in giudizio, qualora sia dichiarata o notificata successivamente alla scadenza dei termini per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, non produce alcun effetto interruttivo, atteso che, nella disciplina introdotta dalla l. n. 353 del 1990, tale ipotesi è equiparabile a quella in cui l’evento si avveri o sia notificato dopo la chiusura della discussione davanti al collegio.

Con riferimento al caso in cui invece l’evento interruttivo si verifichi dopo la scadenza dei termini di cui all’art. 190 c.p.c., la Corte ha ribadito il principio, già espresso nella giurisprudenza della Corte, secondo cui, ove tale evento consista nel fallimento della parte, la dichiarazione di fallimento di una delle parti non produce alcun effetto ai fini della interruzione del processo, sicchè il giudizio prosegue tra le parti originarie e la sentenza pronunciata nei confronti della parte successivamente fallita non è nulla, né inutiliter data, bensì inopponibile alla massa dei creditori, rispetto ai quali costituisce res inter alios acta (Sez. 1, n. 7076/2022, Lamorgese, Rv. 664116-01)[6].

La riassunzione o prosecuzione del processo interrotto: il dies a quo di decorrenza del termine

Nell’ipotesi di morte o perdita della capacità della parte costituita, la dichiarazione dell’evento interruttivo può essere validamente effettuata dal difensore della parte colpita dall’evento stesso al difensore della controparte, ai sensi del combinato disposto degli att. 170 e 300 c.p.c., ed il termine per la riassunzione decorre da tale data, nella quale si realizza la conoscenza legale (una relata di notifica, un verbale di udienza, una comunicazione formale) dell’evento interruttivo, e non da quella della formale dichiarazione di interruzione del processo (Sez. 6-3, n. 21375/2017, Tatangelo, Rv. 645921-01).

Non rileva, viceversa, la conoscenza effettiva (a fronte della dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento da parte del difensore del fallito, ad esempio, il decorso del termine non è certo impedito dalla circostanza che la controparte abbia disertato l’udienza), così come viene esclusa, ai fini del decorso del termine per la riassunzione, la sufficienza della «conoscenza aliunde acquisita» (Cass. n. 3085/2010).

L’evento della morte o della perdita della capacità processuale della parte costituita che sia dichiarato in udienza o notificato alle altre parti dal procuratore della stessa parte colpita da uno di detti eventi produce, ai sensi dell’art. 300, comma 2, c.p.c., l’effetto automatico dell’interruzione del processo dal momento di tale dichiarazione o notificazione e il conseguente termine per la riassunzione, in tale ipotesi, come previsto in generale dall’art. 305 c.p.c., decorre dal momento in cui interviene la dichiarazione del procuratore o la notificazione dell’evento, ad opera dello stesso, nei confronti delle altre parti, senza che abbia alcuna efficacia, a tal fine, il momento nel quale venga adottato e conosciuto il provvedimento giudiziale dichiarativo dell’intervenuta interruzione (avente natura meramente ricognitiva) pronunziato successivamente e senza che tale disciplina incida negativamente sul diritto di difesa delle parti (Sez. 6-2, n. 27788/2022, Besso, Rv. 665712-01).

Poiché le ordinanze pronunciate dal giudice in udienza, inserite nel processo verbale ai sensi dell’art. 134 c.p.c., si reputano conosciute (conoscenza legale) sia dalle parti presenti, sia da quelle che avrebbero potuto e dovuto intervenire (alle quali, quindi, non devono essere comunicate dal cancelliere), nel caso in cui l’interruzione sia disposta con ordinanza pronunciata in udienza, il termine perentorio per la riassunzione decorre, per le suddette parti, dalla data dell’ordinanza stessa, senza che, pertanto, sia necessaria, a tal fine, la presenza in udienza del procuratore della parte interessata alla riassunzione  (Cass. n. 6654/2003). Tuttavia la dichiarazione dell’evento fatta in udienza dal procuratore della parte avversa a quella che è rimasta priva di difensore – la quale non può presumersi da questa ultima conosciuta, stante l’inapplicabilità del disposto dell’art. 176, comma secondo, c.p.c., in una situazione in cui è già venuta meno l’integrità del contraddittorio – non è idonea a determinare la decorrenza del suddetto termine, a meno che dal processo verbale d’udienza non emerga la presenza della parte rimasta priva di difensore (Cass. n. 9625/1990).

Sez. 3, n. 06398/2018, Spaziani, Rv. 648424 – 01, ha ritenuto irrilevante, ai fini della legale conoscenza dell’evento interruttivo, la circostanza che lo stesso fosse stato formalmente appreso dalla parte inte­ressata alla prosecuzione, a mezzo del proprio procuratore, in un giudizio in cui era rap­presentata da un difensore diverso da quello che la assisteva nel processo in cui l’evento medesimo era destinato a produrre effetti.

Con riferimento al verificarsi di un evento interruttivo in danno del difensore costituito, Sez. 6-3, n. 03782/2015, Amendola, Rv. 634500, hachiarito che a seguito delle sentenze della Corte cost. 15 dicembre 1967, n. 139, 2 dicembre 1970, n. 178, 6 luglio 1971, n. 159, e 19 febbraio 1976, n. 36, il termine per la riassunzione o la prosecuzione del processo interrotto per la morte del procuratore costituito di una delle parti in causa decorre non già dal giorno in cui si è verificato l’evento interruttivo, bensì da quello in cui la parte interessata alla riassunzione abbia avuto di tale evento conoscenza legale, mediante dichiarazione, notificazione o certificazione, ovvero a seguito di lettura in udienza dell’ordinanza di interruzione. In caso di interruzione del processo per morte del procuratore di una delle parti, il ter­mine per la relativa riassunzione decorre dalla data in cui la parte rimasta senza difensore ha avuto dell’evento conoscenza legale, acquisita tramite atti muniti di fede privilegiata quali dichiarazioni, notificazioni o certificazioni rappresentative dell’evento medesimo, alle quali non è equiparabile la conoscenza di fatto altrimenti acquisita, e dovendo tale cono­scenza avere ad oggetto tanto l’evento in sé considerato, quanto lo specifico processo nel quale esso deve esplicare i suoi effetti (Sez. 2, n. 10594/2019, Criscuolo, Rv. 653499 – 01).

Per Sez. 6-3, n. 13900/2017, Positano, Rv. 644392-01, la morte del procuratore produce, come si è visto, l’interruzione automatica del processo dal momento del suo verificarsi, indipendentemente dalla conoscenza che dell’evento abbiano le parti o il giudice, e la conoscenza legale del fatto interruttivo, intervenuta in altro processo, è idonea a far decorrere il termine per la riassunzione anche in relazione a distinti giudizi, pendenti tra le medesime parti, in cui la parte era patrocinata dallo stesso difensore colpito dal suddetto evento.

Nell’ipotesi di interruzione del processo a seguito di un provvedimento di sospensione del procuratore dall’esercizio della professione, per Sez. 6 – 2, n. 29144/2019, Falaschi, Rv. 656241 – 01, il termine per la riassunzione del processo decorre, per quanto concerne la parte colpita dall’evento, dalla cessazione del periodo di sospensione, non ricorrendo la medesima esigenza di protezione della parte rappresentata propria delle ipotesi di definitiva cessazione dello ius postulandi, nel qual caso il detto termine deve decorrere, invece, come visto, dalla conoscenza legale del venir meno dell’accadimento interruttivo.

Come Sez. 1, n. 25846/2019, Federico, Rv. 655350 – 01, ha avuto modo di chiarire, è ritualmente proseguito il processo, a seguito della notifica del ricorso in riassunzione presso la parte personalmente, in conseguenza del constatato decesso del difensore della stessa, posto che la morte del procuratore a mezzo del quale la parte è costituita determina automaticamente l’interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne hanno avuto conoscenza ed a prescindere dalla dichiarazione di interruzione.[7]

5. La prosecuzione del giudizio di divorzio in caso di morte di uno dei coniugi

Le Sezioni Unite hanno risolto il contrasto relativo alla possibilità o meno di prosecuzione del processo in caso di morte di uno dei coniugi, intervenuta durante il giudizio di divorzio, dopo il passaggio in giudicato del capo della sentenza (o della sentenza parziale) relativo allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio, ma prima del passaggio in giudicato del capo della sentenza relativo alla domanda di assegno o della pronuncia della sentenza su tale domanda. Sez. U, n. 20494/2022, Nazzicone, Rv. 665068-01, ha, infatti, affermato il principio di diritto così massimato: «In tema di divorzio, nel caso di passaggio in giudicato della pronuncia parziale sullo status, con prosecuzione del giudizio al fine dell’attribuzione dell’assegno divorzile, il venir meno dell’ex coniuge nei confronti del quale la domanda era stata proposta nel corso del medesimo non ne comporta la declaratoria di improseguibilità, ma il giudizio può proseguire nei confronti degli eredi, per giungere all’accertamento della debenza dell’assegno dovuto sino al momento del decesso». Il contrasto circa la possibilità o meno di prosecuzione del processo in caso di morte di uno dei coniugi durante la pendenza del giudizio di divorzio, si poneva soltanto nel caso in cui la morte sopravvenga all’avvenuto passaggio in giudicato della sentenza (parziale o del capo della sentenza definitiva) che abbia pronunciato lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio. E’ infatti pacifico che la morte di uno dei coniugi che intervenga prima della pronuncia di tale sentenza produce, ai sensi dell’art. 149 c.c., lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con conseguente cessazione della materia del contendere sia sulla domanda di divorzio, essendosi il matrimonio già “estinto” per altra causa, sia sulla domanda (dipendente dalla prima) di attribuzione dell’assegno, poiché il diritto all’assegno presuppone lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio per divorzio (e non per morte), i quali possono verificarsi solo in conseguenza della sentenza di divorzio, la quale ha pacificamente efficacia costitutiva. Parimenti incontroverso è che, analogamente, la morte del coniuge che intervenga dopo la pronuncia, ma prima del passaggio in giudicato, della sentenza di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, impedendo il passaggio in giudicato di tale sentenza, determina lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, con conseguente cessazione della materia del contendere tanto sulla domanda di divorzio, quanto su quella dipendente di attribuzione dell’assegno (si veda Sez. 1, n. 37896/2022, Caprioli, Rv. 666471-01).

La prosecuzione del processo di divorzio, nonostante la morte dell’ex coniuge dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale di divorzio, «serve a far valere il diritto alle prestazioni inerenti all’assegno di divorzio, che sono in concreto maturate dall’ex coniuge sopravvissuto nei confronti dell’altro ex coniuge, nel periodo che intercorre fra la sentenza parziale di divorzio e la morte di quest’ultimo, prestazioni patrimoniali trasmissibili iure hereditario. Le Sezioni Unite, dopo aver dato atto delle contrapposte tesi sostenute dalla giurisprudenza di legittimità, hanno ritenuto che, in caso di morte dell’ex coniuge dopo il passaggio in giudicato della sentenza parziale o del capo della sentenza definitiva sullo status, il processo possa proseguire per l’accertamento della debenza dell’assegno dalla data del passaggio in giudicato della sentenza (o del capo) sullo status a quella del decesso. Sez. 1, n. 37898/2022, Caprioli, Rv. 666472-01, ne ha fatto applicazione in un caso di morte del coniuge durante il giudizio di legittimità affermando il principio così massimato: «In materia di assegno divorzile, ove sia proposto ricorso per cassazione avverso la decisione di merito riguardante tale assegno, la morte di uno di uno degli ex coniugi in corso di causa non determina l’improseguibilità del giudizio, sussistendo il giudicato sullo “status”, con la conseguenza che il processo continua senza alcuna interruzione, producendo effetti nei confronti degli eredi, ai fini dell’accertamento della debenza del menzionato assegno sino al momento del decesso».

Sempre in tema di divorzio le Sezioni Unite della Corte (Sez. U, n. 20495/2022, Nazzicone, Rv. 665040-01) sono intervenute sulla diversa questione, non controversa, ma certamente di particolare importanza, relativa alla possibilità o meno di prosecuzione del giudizio di revisione dell’assegno di divorzio, ove nel corso dello stesso intervenga la morte del coniuge obbligato. A differenza che nella fattispecie coinvolta dalla precedente questione, in quella coinvolta da tale questione la morte del coniuge interviene dopo il passaggio in giudicato della sentenza sulla domanda di assegno, nella pendenza del giudizio di revisione in cui sia stata chiesta la revoca o revisione dell’assegno. Anche in tal caso le Sezioni Unite hanno ritenuto possibile, nel caso di morte dell’ex coniuge ricorrente, la prosecuzione del procedimento per la revisione dell’assegno divorzile, ai sensi dell’art. 9, comma 1, della l. n. 898 del 1970, subentrando gli eredi nella posizione del coniuge richiedente la revisione, al fine dell’accertamento della non debenza dell’assegno a decorrere dalla domanda sino al decesso, nonché nell’azione di ripetizione dell’indebito, ex art. 2033 c.c., per la restituzione delle somme non dovute.

6. Le modalità di riassunzione

La parte colpita dall’evento interruttivo, per il tramite del successore, del tutore o del curatore (a seconda del tipo di evento interruttivo), può attivarsi per la prosecuzione del processo così come previsto dall’art. 302 c.p.c. o depositando la comparsa di costituzione prima dell’udienza già fissata o all’udienza medesima o, nel caso in cui manchi detta udienza, chiedendo con ricorso la fissazione di un’udienza al giudice assegnatario, il quale provvede all’uopo con decreto da notificare alle controparti costituite a mezzo del relativo difensore (o a coloro che debbono costituirsi per proseguirlo).

Sez. 2, n. 02757/2018, Federico, Rv. 647304-01, ha ribadito che, nel caso di interruzione del processo, il ricorso in prosecuzione ex art. 302 c.p.c., in quanto atto di mero impulso processuale nell’ambito di un procedimento già instaurato, di cui permangono tutti gli effetti sostanziali e processuali, non richiede il conferimento di un mandato speciale al difensore.

Sez. 3, n. 09000/2015, Scrima, Rv. 635210, ha opportunamente precisato che, per la valida riassunzione del processo sospeso o interrotto, l’istante può utilizzare, anziché la comparsa o il ricorso al giudice per la fissazione dell’udienza di prosecuzione, la citazione della parte ad udienza fissa, la cui idoneità al raggiungimento dello scopo previsto nell’art. 297 c.p.c. resta condizionata all’avvenuta notifica dell’atto alla controparte prima della scadenza del termine perentorio entro il quale va promossa la prosecuzione del giudizio.

Quello che prosegue è lo stesso processo già pendente, anche se una delle parti può mutare (come avviene nel caso di interruzione per morte della parte e non già del suo procuratore); ne consegue che le preclusioni già precedentemente maturate restano ferme, così come conservano validità le prove costituende già raccolte e le produzioni già effettuate.

Sez. 2, n. 21480/2019, Scalisi, Rv. 654897 – 01, ha ribadito[8] (Sez. 1, n. 14100/2003, Tirelli, Rv. 567081 – 01) che i soggetti già costituiti nella fase precedente all’interruzione, i quali, a seguito della riassunzione ad opera di altra parte, si presentino all’udienza a mezzo del loro procuratore, non possono essere considerati contumaci, ancorché non abbiano depositato nuova comparsa di costituzione, atteso che la riassunzione del processo interrotto non dà vita ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma mira unicamente a far riemergere quest’ultimo dallo stato di quiescenza in cui versa[9].

Per Sez. 3, n. 10445/2019, Rossetti, Rv. 653583 – 01, ove all’interruzione del processo segua una riassunzione c.d. non modificativa – nella quale, cioè, resti invariato il soggetto del rapporto processuale –, gli effetti delle domande o delle eccezioni proposte dalla parte non colpita dall’evento interruttivo permangono inalterati, anche nel caso in cui quest’ultima non si costituisca nuovamente in giudizio a seguito della riassunzione.

7. La dichiarazione di fallimento di una parte

Per Sez. 6-1, n. 05288/2017, Cristiano, Rv. 643975-01, l’art. 43, comma 3, l.fall. va interpretato nel senso che, intervenuto il fallimento, l’interruzione è sottratta all’ordinario regime dettato in materia dall’art. 300 c.p.c., nel senso, cioè, che è automatica e deve essere dichiarata dal giudice non appena sia venuto a conoscenza dall’evento, ma non anche nel senso che la parte non fallita sia tenuta alla riassunzione del processo nei confronti del curatore indipendentemente dal fatto che l’interruzione sia stata, o meno, dichiarata.

La dichiarazione di fallimento determina l’automatica interruzione del processo, con termine trimestrale per la sua riassunzione che decorre dalla data della conoscenza legale dell’evento, estesa, per la curatela fallimentare, anche alla conoscenza della pendenza del processo ed acquisita, quindi, non in via di mero fatto, ma per il tramite di una dichiarazione, notificazione o certificazione rappresentativa dell’evento che determina l’interruzione del processo, assistita da fede privilegiata, senza che abbia alcuna efficacia, a tal fine, il momento nel quale venga adottato e conosciuto il provvedimento giudiziale dichiarativo dell’intervenuta interruzione, avente natura meramente ricognitiva (Sez. 1, n. 09578/2018, Campese, Rv. 648119-01; cfr. altresì Sez. 6 – 1, n. 05288/2017, Cristiano, Rv. 643975, e Sez. 6 – 3, n. 21375/2017, Tatangelo, Rv. 645921).

Per Sez. 6 – 1, n. 08640/2018, Lamorgese, Rv. 648573-01, al fine del decorso del termine per la riassunzione non è, peraltro, di regola ritenuto sufficiente che dell’evento interruttivo, rappresentato dalla dichiarazione di fallimento, la parte interessata alla prosecuzione del giudizio abbia avuto conoscenza formalmente legale (cioè acquisita per il tramite di atti muniti di fede privilegiata quali dichiarazioni, notificazioni o certificazioni rappresentative dell’evento medesimo), essendo reputato necessario che tale conoscenza abbia specificamente ad oggetto tanto l’evento in sè considerato quanto lo specifico processo nel quale esso deve esplicare i suoi effetti (il curatore fallimentare, che per definizione sa del dichiarato fallimento, potrebbe non sapere del o dei processi che il fallito aveva pendenti; Cass. n. 5650/2013, n. 27165/2016).

Per Sez. 3, n. 31010/2018, Gianniti, Rv. 651867-01, la conoscenza legale della sentenza dichiarativa di fallimento deve essere acquisita nell’ambito dello specifico giudizio sul quale l’evento medesimo è destinato ad operare, sicchè la comunicazione effettuata dal curatore si sensi dell’art. 92 l. fall., costituisce strumento idoneo, ai fini della decorrenza del predetto termine, solo a condizione che sia indirizzata al difensore della parte processuale, contenga esplicito riferimento alla lite pendente ed interrotta e sia corredata da copia autentica della sentenza di fallimento.

Sez. 1, n. 02658/2019, M. Di Marzio, Rv. 652546 – 01, ha precisato che, in caso di interruzione automatica del processo determinata dalla dichiarazione di fallimento di una delle parti, il termine per la riassunzione di cui all’art. 305 c.p.c. decorre dalla dichiarazione o notificazione dell’evento interruttivo secondo la previsione dell’art. 300 c.p.c., ovvero, se anteriore, dalla conoscenza legale di detto evento procurata dal curatore del fallimento (anche a mezzo pec) alle parti interessate.

Per quanto riguarda la rilevanza processuale della dichiarazione di fallimento di una delle parti, di particolare importanza è l’arresto di Sez. U, n. 12154/2021, Ferro, Rv. 661210-01. Per meglio comprendere la portata di tale pronuncia, è opportuno preliminarmente ricordare che l’apertura del fallimento “determina l’interruzione del processo” ai sensi del terzo comma all’art. 43 L.F., (norma introdotta dall’art. 41, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2006). Tale disposizione è stata sempre interpretata nel senso che la dichiarazione di fallimento di una parte processuale determina ipso iure l’interruzione del giudizio in corso, rendendo così irrilevante ai fini della produzione dell’effetto interruttivo la notificazione alle altre parti costituite da parte del soggetto fallito, la dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento, e gli atti e i fatti previsti dal quarto comma dell’art. 300 c.p.c. nel caso di fallimento del contumace. La giurisprudenza di legittimità, pur concordando sul fatto che la dichiarazione di fallimento produce ex lege, ai sensi dell’art. 43, comma 3 L.F., l’interruzione del giudizio, non era tuttavia univoca nell’individuazione del dies a quo del termine di decadenza per riassumere (a cura della controparte del soggetto fallito) o per proseguire (a cura della curatela del fallimento) il giudizio. In particolare, se da un lato ricorreva nelle sentenze e nelle ordinanze della Suprema Corte l’espressione secondo la quale quel dies a quo coincide con il momento in cui la controparte del fallito acquisisce “conoscenza legale” dell’intervenuto fallimento dell’altra parte, dall’altro lato era meno chiaro quali fossero gli atti o i fatti idonei a determinare tale forma di conoscenza. Le Sezioni Unite, con la citata sentenza Sez. U, n. 12154/2021, Ferro, Rv. 661210-01, hanno risolto tale questione di massima di particolare importanza, prospettata dalla Prima Sezione civile con l’ordinanza di remissione Sez. 1, n. 21961/2020, Falabella, non massimata, affermando il principio di diritto secondo il quale in caso di apertura del fallimento, l’interruzione del processo è automatica ai sensi dell’art. 43, comma 3, l. fall., ma il termine per la relativa riassunzione o prosecuzione, per evitare gli effetti di estinzione di cui all’art. 305 c.p.c. e al di fuori delle ipotesi di improcedibilità ai sensi degli artt. 52 e 93 l. fall. per le domande di credito, decorre dal momento in cui la dichiarazione giudiziale dell’interruzione stessa sia portata a conoscenza di ciascuna parte; tale dichiarazione, qualora non già conosciuta in ragione della sua pronuncia in udienza ai sensi dell’art. 176, comma 2, c.p.c., va notificata alle parti o al curatore da uno degli interessati o comunque comunicata dall’ufficio giudiziario.

8. Quando si perfeziona la riassunzione del processo?

Sez. 3, n. 02174/2016, Vincenti, Rv. 638947, ha ribadito che la riassunzione del processo si perfeziona nel momento del tempestivo de­posito del ricorso in cancelleria con la richiesta di fissazione dell’udienza, senza che rilevi l’eventuale inesatta identificazione della controparte nell’atto di riassunzione, il quale opera in termini oggettivi ed è valido, per raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 c.p.c., quando contenga gli elementi sufficienti ad individuare il giudizio che si intende prosegui­re. Ne consegue che non incide sulla tempestività della riassunzione, ai sensi dell’art. 305 c.p.c., la successiva notifica del ricorso e dell’unito decreto.

Per Sez. 3, n. 09819/2018, Graziosi, Rv. 648428 – 01, il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice di ordinare, anche qualora sia già decorso il (diverso) termine di cui all’art. 305 c.p.c., la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., entro un ulteriore termine necessariamente perentorio, solo il mancato rispetto del quale determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, comma 3, e del successivo art. 307, comma 3, c.p.c. (Sez. 6-3, n. 02526/2021, Valle, Rv. 660418-01).

Verificatasi una causa d’interruzione del processo, in presenza di un meccanismo di riattivazione del processo interrotto, destinato a realizzarsi distinguendo il momento della rinnovata edictio actionis da quello della vocatio in ius, il termine perentorio di sei (recte, di tre) mesi, previsto dall’art. 305 c.p.c., è riferibile solo al deposito del ricorso nella cancelleria del giudice, sicché, una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della vocatio in ius. Ne consegue che, come confermato da Sez. 3, n. 09819/2018, Graziosi, Rv. 648428-01, il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice di ordinare, anche qualora sia già decorso il (diverso) termine di cui all’art. 305 c.p.c., la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., entro un ulteriore termine necessariamente perentorio, solo il mancato rispetto del quale determinerà l’eventuale estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, comma 3, e del successivo art. 307, comma 3, c.p.c.

L’atto di riassunzione del processo non introduce un nuovo procedimento, ma espleta esclusivamente la funzione di consentire la prosecuzione di quello già pendente, con la conseguenza che per la sua validità il giudice di merito deve apprezzarne l’intero contenuto, onde verificarne la concreta idoneità a consentire la ripresa del processo. Infatti, la nullità dell’atto di riassunzione non deriva dalla mancanza di uno o più dei requisiti di cui all’art. 125 disp. att. c.p.c., bensì dall’impossibilità del raggiungimento dello scopo a causa della carenza di elementi essenziali, quali: il riferimento esplicito alla precedente fase processuale; l’indicazione delle parti e di altri elementi idonei a consentire l’identificazione della causa riassunta; le ragioni della cessazione della pendenza della causa stessa; il provvedimento del giudice che legittima la riassunzione; la manifesta volontà di riattivare il giudizio attraverso il ricongiungimento delle due fasi in un unico processo (Sez. 1, n. 11193/2018, Caiazzo, Rv. 648451-01).

Come affermato da Sez. 1, n. 06193/2020, Scotti, Rv. 657418 – 01, ai fini della validità dell’atto di riassunzione del processo, il giudice deve solo verificarne la concreta idoneità ad assicurare la ripresa del processo, discendendo la nullità dell’atto di riassunzione non dalla mancanza di uno tra i requisiti di cui all’art. 125 disp. att. c.p.c., bensì dall’impossibilità di raggiungere il suo scopo.

In linea generale, come è noto, la morte della parte avvenuta nel corso del giudizio, determina, in seguito all’interruzione del processo ai sensi degli artt. 299 e 300, comma 2, c.p.c., la necessità della citazione in riassunzione degli eredi in tale qualità, ancorché già costituiti in nome proprio, oppure della prosecuzione del processo nei loro confronti; diverso però è il caso, evidenziato da Sez. 6-2, n. 05444/2021, Scarpa, Rv. 660700-01, della parte che, cumulando in sé la qualità di parte in proprio e quella di erede di altro soggetto, deceduto prima dell’inizio del giudizio, sia stata comunque citata nella causa in proprio: nei confronti di tale parte, infatti, non va integrato il contradditorio in quanto in siffatta ipotesi si ravvisa l’unicità della parte in senso sostanziale.

Sez. 3, n. 17445/2019, Gianniti, Rv. 654407 – 01, ha precisato che, in caso di morte di una delle parti, ai fini della prosecuzione del processo nei confronti dei successori, la verifica della qualità di eredi dei chiamati all’eredità non è necessaria nell’i­potesi in cui l’atto di riassunzione sia ad essi notificato collettivamente e impersonalmente entro l’anno dal decesso, ai sensi dell’art. 303, comma 2, c.p.c., in quanto tale disposizione affranca il notificante dall’onere di ricercare le prove dell’accettazione dell’eredità (sul presupposto della mancata definizione delle dinamiche successorie entro l’anno dal decesso), la quale può intervenire nel termine di dieci anni dall’apertura della successione. Ciò non toglie che (Cass. n. 21227/2014, n. 7517/2011) il ricorso per riassunzione ad opera della parte non colpita dall’evento interruttivo, notificato individualmente nei confronti dei chiamati all’eredità (art. 486 c.p.c.), è idoneo ad instaurare validamente il rapporto processuale (a meno che il venir meno del titolo successorio non risulti da atti o fatti agevolmente conoscibili dai terzi: registro delle successioni, trascrizioni nei registri immobiliari, ecc.); in tal caso, la parte che procede alla riassunzione ha l’onere di individuare i chiamati all’eredità rispetto ai quali sussistono, in tesi (se non dispone di precisi riscontri documentali), le condizioni legittimanti l’accettazione dell’eredità ed i chiamati all’eredità, pur non assumendo, per il solo fatto di aver ricevuto ed accettato la predetta notifica, la qualità di erede, hanno l’onere di contestare (principio di vicinanza della prova), costituendosi in giudizio, l’effettiva assunzione di tale qualità ed il conseguente difetto di legittimatio ad causam.

9. Il cumulo di cause scindibili

Nel caso di processo unitario scindibile o riunito, la Suprema Corte (Cass. S.U. n. 15142/2007) ha chiarito che, l’interpretazione letterale delle norme di cui agli artt. 299, 300, 301 (“il processo è interrotto”), 302 e 303 c.p.c. (che fanno riferimento alla prosecuzione o riassunzione del procedimento interrotto) è compatibile con la divisibilità dell’interruzione, che va dichiarata solo nei procedimenti in cui è parte il soggetto colpito dalla perdita di capacità, potendo le altre cause proseguire, salvo il potere del giudice di separare tali procedimenti da quello interrotto[10].

Con specifico riguardo alla riassunzione del processo, dopo il verificarsi della sua interruzione, si ricorda, invece, Sez. 3, n. 18318/2015, Rubino, Rv. 637071, in cui si è spiegato che, nel caso di cumulo di cause scindibili, laddove il giudice – a fronte di un evento che concerna uno solo dei soggetti coinvolti nelle diverse vertenze – non separi le cause ed interrompa, piuttosto, l’intero processo, la riassunzione effettuata mediante deposito del relativo ricorso in cancelleria, nel termine semestrale previsto dall’art. 305 c.p.c., deve ritenersi tempestiva rispetto a tutte le parti, sicché, ove ricorso e decreto di fissazione dell’udienza di riassunzione non siano state notificate ad alcune di esse, non può essere dichiarata, rispetto a costoro, l’estinzione parziale del processo, dovendosi, invece, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., ordinare la rinnovazione della notifica entro un termine perentorio.

Non è in contrasto con tale approccio Sez. 3, n. 09960/2017, Vincenti, Rv. 643858-01, secondo cui, nel caso di cumulo di cause scindibili, l’evento interruttivo riguardante il debitore principale non si propaga al debitore solidale in qualità di fideiussore, ed il giudice ha la facoltà, non l’obbligo, di separare le cause, sicché, ove non si avvalga di tale facoltà, una volta mancata la riassunzione nell’interesse della parte colpita dall’evento interruttivo e determinatasi l’estinzione (parziale) del giudizio nei confronti di quest’ultima, il processo deve continuare tra il fideiussore, che non ha alcun onere di provvedere alla riassunzione del giudizio, ed il creditore, non potendosi profilare l’estinzione anche di tale giudizio.

Sulla stessa scia, Sez. 3, n. 08123/2020, Fiecconi, Rv. 657575 – 01, ha precisato che, in caso di cumulo di cause scindibili, l’evento interruttivo relativo ad una delle parti (nella specie, apertura del fallimento ex art. 43, comma 3, l.fall.) non spiega effetti nei confronti delle altre, le quali, pertanto, anche laddove il giudice non disponga la separazione delle cause, non sono tenute a riassumere il processo; conseguentemente, qualora la riassun­zione non sia stata tempestivamente effettuata nell’interesse della parte colpita dal suddetto evento, l’estinzione si verifica nei soli confronti di quest’ultima, continuando il processo nei confronti degli altri litisconsorti.

Sez. 3, n. 09829/2018, De Stefano, non massimata, ha ribadito il principio ormai consolidato (Sez. U, n. 09686/2013, Spirito, Rv. 626431 – 01) secondo cui, quando vengano trattate cumulativamente più domande di risarcimento proposte contro il medesimo convenuto e per ragioni di diritto in parte comuni da più danneggiati o si verta comunque in ipotesi di cumulo soggettivo facoltativo o, in grado di impugnazione, di cause scindibili, la reciproca indipendenza dei rapporti processuali comporta che l’efficacia dell’evento interruttivo che colpisca la parte di uno o solo alcuni tra questi sia limitata a questi ultimi, sicché l’eventuale ordinanza che dichiari interrotto il processo produce gli effetti di cui agli articoli 300 ss. del codice di procedura civile solo con riferimento alla domanda in cui si è verificato l’evento interruttivo, mentre le altre non separate restano in una fase di stallo o di rinvio, destinate necessariamente a cessare per effetto della riassunzione della causa interrotta o dell’estinzione di essa; pertanto, è illegittima la declaratoria di estinzione di un processo articolato su di una pluralità di cause scindibili per la mancata riassunzione a seguito dell’evento interruttivo che abbia colpito una sola delle parti di una o di alcune tra le domande cumulativamente istruite.

In tema di litisconsorzio facoltativo, quale quello che si determina nel giudizio promosso verso più coobbligati solidali, Sez. 3, n. 04684/2020, Olivieri, Rv. 656912 – 02, ha enun­ciato il principio secondo cui, verificatasi una causa di interruzione nei confronti di uno di essi, ove il giudice non si avvalga del potere di disporre la separazione delle cause ex art. 103 c.p.c., la mancata riassunzione della lite nel termine fissato dall’art. 305 c.p.c. non impedisce l’ulteriore prosecuzione del processo relativamente ai litisconsorti non colpiti dall’evento interruttivo (o a quelli ritualmente citati). In particolare, in caso di litisconsorzio passivo facoltativo, verificatasi una causa di interruzione nei confronti di uno di essi e interrotto il processo nei confronti di tutti, la parte istante non colpita dall’atto interruttivo è libera di riassumerlo solo nei confronti di alcuni soltanto degli originari convenuti.

Viceversa, nell’ipotesi di litisconsorzio necessario, l’evento interruttivo che colpisca una sola delle parti comporta l’interruzione dell’intero processo.

10. L’estinzione del processo: i casi

Innanzitutto essa si verifica in caso di rinuncia agli atti del giudizio proposta da una o più parti e accettata senza riserve o condizioni dalle altre parti costituite che potrebbero aver interesse alla prosecuzione. Le dichiarazioni di rinuncia e di accettazione (aventi carattere recettizio e, quindi, revocabili sin quando non vengano accettate) sono fatte dalle parti o dai loro procuratori speciali, verbalmente all’udienza o con atti sottoscritti e notificati alle altre parti, e il rinunciante è tenuto a rimborsare le spese alle altre parti, salvo diverso accordo tra di essi.

Nelle ipotesi di litisconsorzio necessario, non essendo configurabile una estinzione parziale, occorre che la rinuncia agli atti sia effettuata da tutti i litisconsorti o accettata da tutte le parti, laddove nel caso di litisconsorzio facoltativo, è possibile una rinuncia agli atti fatta da una sola parte.

La rinuncia all’azione non richiede formule sacramentali, può essere anche tacita e va riconosciuta quando vi sia incompatibilità assoluta tra il comportamento dell’attore e la volontà di proseguire nella domanda proposta. Essa presuppone il riconoscimento dell’in­fondatezza dell’azione, accompagnato dalla dichiarazione di non voler insistere nella medesima. Solo a queste condizioni la rinuncia all’azione determina, indipendentemente dall’accettazione della controparte (in quanto preclude la possibilità di far valere lo stesso diritto in un successivo processo), l’estinzione dell’azione e la cessazione della materia del contendere. Deve, viceversa, essere dichiarata, anche d’ufficio, cessata la materia del con­tendere (può conseguire anche ad una transazione o ad una conciliazione) in ogni caso in cui risulti acquisito agli atti del giudizio che non sussiste più con­testazione tra le parti sul diritto sostanziale dedotto e che conseguentemente non vi è più la necessità di affermare la volontà della legge nel caso concreto. Così argomentando, Sez. 2, n. 19845/2019, Oliva, Rv. 654975 – 01, ha ritenuto che la richiesta di declaratoria della cessazione della materia del contendere, sul presupposto di un factum principis sopravve­nuto, non potesse comunque essere ritenuta equivalente alla rinuncia all’azione, in difetto di un’esplicita dichiarazione di ambo le parti attestante la loro intenzione di soprassedere dall’accertamento giudiziale del diritto controverso.

Peraltro, la rinuncia all’azione, ovvero all’intera pretesa azionata dall’attore nei confronti del convenuto, costituisce un atto di disposizione del diritto in contesa e richiede, in capo al difensore, un mandato ad hoc. Sez. 2, n. 04837/2019, Giuseppe Grasso, Rv. 652581 – 01, ha ritenuto che non sia a tal fine sufficiente quello ad litem, in ciò differenziandosi dalla rinuncia ad una parte dell’originaria domanda, che rientra fra i poteri del difensore quale espressione della facoltà di modificare le domande e le conclusioni precedentemente for­mulate (conf. Sez. 2, n. 28146/2013, L. Matera, Rv. 629194 – 01).

Sez. 2, n. 28146, 17/12/2013, Rv. 629194: «E’ vero che, secondo la giurisprudenza richiamata dal ricorrente, la rinuncia alla domanda o ai suoi singoli capi, qualora si atteggi come espressione della facoltà della parte di modificare ai sensi dell’art. 184 c.p.c. le domande e le conclusioni precedentemente formulate, rientra fra i poteri del difensore (che in tal guisa esercita la discrezionalità tecnica che gli compete nell’impostazione della lite e che lo abilita a scegliere in relazione anche agli sviluppi della causa la condotta processuale da lui ritenuta più rispondente agli interessi del proprio rappresentato), distinguendosi così sia dalla rinunzia agli atti del giudizio, che può essere fatta solo dalla parte personalmente o da un suo procuratore speciale nelle forme rigorose previste dall’art. 306 c.p.c., e non produce effetto senza l’accettazione della controparte, sia dalla disposizione negoziale del diritto in contesa, che a sua volta costituisce esercizio di un potere sostanziale spettante come tale alla parte personalmente o al suo procuratore munito di mandato speciale, siccome diretto a determinare la perdita o la riduzione del diritto stesso (Cass. 4-2-2002 n 1439; Cass. 8-1-2002 n. 140; Cass. 7-3- 1998 n. 2572). E’ altrettanto vero che, nonostante la natura semplicemente illustrativa della comparsa conclusionale, questa Corte ha costantemente ammesso la possibilità di rinunciare, per mezzo di essa, a qualche capo di domanda, con correlativa restrizione del thema decidendum (Cass. 25-8-1997 n. 7977), essendosi precisato che, dopo la precisazione delle conclusioni, è vietato estendere il thema decidendum, attraverso nuove domande ed eccezioni che non potrebbero essere confutate ex adverso, ma non restringerlo, mediante rinuncia a qualche capo di domanda o a qualche eccezione (Cass. 23-7-1971 n. 2434; Cass. 27-2-1965 n. 334, Cass. 22-4-1963 n. 1018). I principi innanzi enunciati, tuttavia, non si attagliano alla fattispecie in esame, nella quale non si è in presenza di una mera rinuncia ad una parte dell’originaria domanda, bensì, come rilevato nella sentenza impugnata, di una rinuncia (oltre che agli atti del giudizio) all'”azione” proposta nei confronti di Alfarano Antonio e, quindi, all’intera pretesa azionata contro uno dei convenuti. Ma, come è noto, la rinuncia all’azione, costituendo un atto di disposizione del diritto in contesa, richiede in capo al difensore un mandato speciale ad hoc, non essendo a tal fine sufficiente il mandato ad litem».

Per Sez. 3 n. 11962/2005, Frasca, Rv. 582510 – 01, la cessazione della materia del contendere presuppone che le parti si diano reciprocamente atto del sopravvenuto mutamento della situazione sostanziale dedotta in giudizio e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice, potendo al più residuare un contrasto solo sulle spese di lite, che il giudice con la pronuncia deve risolvere secondo il criterio della cosiddetta soccombenza virtuale. Allorquando, invece, la sopravvenienza di un fatto, che si assume suscettibile di determinare la cessazione della materia del contendere, sia allegato da una sola parte e l’altra non aderisca a tale prospettazione, il suo apprezzamento, ove esso sia dimostrato, non può concretarsi in una pronuncia di cessazione della materia del contendere, ma, ove abbia determinato il soddisfacimento del diritto azionato con la domanda dell’attore, in una valutazione dell’interesse ad agire. Una ipotesi in cui deve essere escluso il verificarsi della cessazione della materia del contendere (la quale, presupponendo il venir meno delle ragioni di contrasto fra le parti, fa venir meno la necessità della pronuncia del giudice) è stata evidenziata da Sez. 3, n. 04855/2021, Scarano, Rv. 660708-01, riguardo al caso di pagamento avvenuto nel corso del giudizio, allorché l’obbligato non rinunci alla domanda diretta all’accertamento dell’inesistenza del debito (in particolare, si trattava di un’opposizione ex art. 615, comma 1, c.p.c. con cui l’opponente aveva dedotto di aver interamente pagato, prima della notifica dell’atto di intimazione, l’importo dovuto, ma non aveva rinunciato alla domanda di accertamento dell’inesistenza del diritto di agire in executivis del creditore intimante).

Altra ipotesi di estinzione è stata affrontata da Sez. 6-3, n. 32207/2021, Iannello, Rv. 662960-01 con riferimento alla mancata rinnovazione della citazione nulla nel termine concesso dal giudice ex art. 164 c.p.c.: in tale caso, infatti, poiché il detto termine ha natura perentoria, il provvedimento di cancellazione della causa dal ruolo emesso dal giudice ex art. 307, comma 3, c.p.c. comporta la contemporanea ed automatica estinzione del processo, anche in difetto di eccezione di parte.

Infine, giova ricordare che, come statuito da Sez. 6-2, n. 22735/2021, Casadonte, Rv. 662331-01, l’ordine di integrazione della domanda per ritenuta nullità della citazione, emesso in difetto dei presupposti per la sua emanazione, è improduttivo di effetti, sicché la mancata ottemperanza al medesimo, essendo irrilevante, non può determinare l’estinzione del giudizio ai sensi dell’art. 307, comma 3, c.p.c.

11. Il regime giuridico

In tema di estinzione del processo, quando il giudice istruttore nel corso del giudizio a cognizione piena opera come giudice monocratico, il provvedimento con cui dichiara che il processo si è estinto non è soggetto a reclamo e, siccome determina la chiusura del processo in base alla decisione di una questione pregiudiziale attinente al processo, ha natura di sentenza, anche se emesso in forma di ordinanza, impugnabile con gli ordinari mezzi di impugnazione. Ne consegue che la parte è ammessa a formulare al giudice di appello istanza di rimessione al primo giudice, ai sensi dell’art. 354, comma, c.p.c. ravvivandosi l’ipotesi di cui all’art. 308, comma 2, c.p.c. Diversamente deve ritenersi, secondo quanto ribadito da Sez. 2, n. 27311/2017, Grasso Giuseppe (conf. Sez. 6 – 1, n. 23997/2019, M. Di Marzio, Rv. 655420 – 01), quando l’estinzione sia stata deliberata dal tribunale in composizione monocratica solo dopo che la causa, precisate le conclusioni, sia stata trattenuta in decisione, ai sensi dell’art. 189 c.p.c.: in tal caso, il giudice di appello, ove non la ritenga sussistente, non può rimettere la causa al giudice di primo grado − non ricorrendo l’ipotesi contemplata dall’art. 308, comma 2, c.p.c., richiamato dall’art. 354 comma 2, c.p.c. −, ma deve trattenere la causa e deciderla nel merito.

Viceversa, il provvedimento di estinzione assume la forma dell’ordinanza del g.i., reclamabile ex art. 178 c.p.c., se emesso in causa a trattazione collegiale.

Secondo Sez. 1, n. 21201/2017, Mercolino, Rv. 645843-01, l’estinzione del processo (sia stata o meno dichiarata dal giudice) elimina l’effetto permanente dell’interruzione della prescrizione prodotto dalla domanda giudiziale ai sensi dell’art. 2945, comma 2, c.c., ma non incide sull’effetto interruttivo istantaneo della medesima, comunque prodottosi, con la conseguenza che la prescrizione ricomincia a decorrere dalla data di detta domanda.

L’effetto interruttivo permanente della prescrizione si determina anche nel caso di proposizione di un giudizio successivamente estinto nel corso del quale sia stata pronunciata sentenza non definitiva di merito, dovendosi ritenere tale ogni decisione che abbia risolto talune questioni sollevate dalle parti in ordine all’oggetto della domanda (Sez. 1, n. 20308/2018, Mercolino, Rv. 649958 – 01).

La conseguenza processuale della tardiva riassunzione di una causa non è l’inammissibilità del giudizio, bensì l’estinzione dello stesso, che opera di diritto ed è dichiarata anche d’ufficio alla prima udienza successiva alla riassunzione – o comunque anche successivamente in fase di impugnazione – ed impedisce la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda (cfr. Sez. 2, n. 11144/2018, Cosentino, Rv. 648243 – 01; Sez. 2, n. 11144/2018, Cosentino, Rv. 648243-01). In base alla precedente formulazione dell’art. 307, invece, l’estinzione del processo operava di diritto, ma doveva essere eccepita dalla parte interessata prima di ogni altra sua difesa (cfr., per tutte, (Cass. civ., n. 15948/2005, n. 17121/2004 e n. 14087/2002)

Per Sez. 6 – L, n. 21977/2018, Esposito, Rv. 650303-01, non sussiste l’interesse del convenuto ad impugnare un’ordinanza di estinzione del giudizio, trattandosi di statuizione meramente processuale inidonea ad arrecare pregiudizio alle parti coinvolte ed a costituire giudicato sostanziale sulla pretesa fatta valere, limitandosi l’efficacia di tale giudicato al solo aspetto del venir meno dell’interesse alla prosecuzione del giudizio.

12. L’estinzione per inattività delle parti

Inattività semplice: si tratta di ipotesi in cui, a seguito dell’inattività delle parti, prima che venga dichiarata l’estinzione, si apre un periodo di quiescenza. Ciò accade se dopo la notificazione della citazione nessuna delle parti si sia costituita entro i termini stabiliti. In particolare, se il processo è quiescente, ad esempio per mancata costituzione di entrambe le parti, il processo è estinto se non è riassunto entro tre mesi dalla scadenza del termine di costituzione del convenuto. Se, invece, l’attore si è costituito tardivamente ed il convenuto non si costituisce, il giudice deve ordinare la cancellazione della causa dal ruolo, riassumibile nel termine perentorio di tre mesi.

Avuto riguardo alla comparizione delle parti, in base al combinato disposto degli artt. 181 e 309 c.p.c., il processo, ritualmente iscritto a ruolo, viene cancellato con contestuale declaratoria di estinzione nel caso di diserzione assoluta delle parti costituite in due udienze consecutive (la seconda comunicata a cura della cancelleria ai difensori delle parti costituite); laddove, invece, sia solo l’attore costituito a non comparire, se alla prima udienza il convenuto non chiede che si proceda in assenza della controparte, il giudice fissa una nuova udienza, della quale il cancelliere dà comunicazione all’attore; se, però, questi non compare neanche alla nuova udienza e il convenuto continua a non chiedere che si proceda in assenza dell’attore, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo.

Inattività qualificata: sono i casi di estinzione contemplati dall’art. 307, comma 3, c.p.c.. Invero, il processo si estingue per inattività delle parti anche quando quelle alle quali spetta di rinnovare la citazione o di proseguire, riassumere o integrare il giudizio (artt. 50, 102, 164, 182, etc.), non vi abbiano provveduto entro il termine perentorio stabilito dalla legge o dal giudice che sia autorizzato.

L’estinzione per inattività delle parti opera di diritto (nel senso che il provvedimento produce i suoi effetti dal giorno in cui l’estinzione si è verificata) ed è dichiarata, anche d’ufficio, con ordinanza del giudice istruttore.

13. Gli effetti dell’estinzione del processo

L’estinzione del processo non estingue l’azione, ma rende soltanto inefficaci gli atti compiuti, ad eccezione delle sentenze di merito pronunciate nel corso del processo (sicuramente quelle non definitive; si discute su quelle che decidono questioni preliminari di merito) e delle pronunce della Corte di Cassazione che regolano la competenza o la giurisdizione.

L’articolo 310 c.p.c. stabilisce, infine, che le prove raccolte sono valutate dal giudice come argomenti di prova e che le spese del processo estinto sono poste a carico delle parti che le hanno anticipate.

In termini generali, il giudice può trarre argomenti di prova, ai sensi dell’art 116, secondo comma, c.p.c., anche dalle risultanze istruttorie di un processo estinto (art. 310, terzo comma, c.p.c., alla cui stregua, in caso di estinzione del processo, “le prove raccolte sono valutate dal giudice a norma dell’art. 116, secondo comma”).

In materia vige il principio generale per cui il giudizio circa l’utilità e la pertinenza di un mezzo di prova rientra nei poteri di valutazione del giudice di merito, il quale può anche utilizzare per la formazione del proprio convincimento prove raccolte in altro giudizio tra le stesse parti (v. infra; Cass. civ., sez. un., 8 aprile 2008, n. 9040; conf. Cass. civ. 28 febbraio 2011, n. 4874, e Cass. civ. 25 febbraio 2011, n. 4652).

Tuttavia, tenuto conto che certamente i documenti prodotti nel processo estinto, se prodotti di nuovo nel secondo processo, hanno l’efficacia loro propria (perché erano prove precostituite nel primo e sono prove precostituite anche nel secondo processo), la norma si riferisce evidentemente soltanto alle prove costituende.

Mentre, però, è pacifico che le prove orali (specialmente quelle testimoniali), che siano liberamente valutabili (cioè in relazione alle quali il legislatore non individui a priori i criteri per la loro valutazione), nel secondo processo abbiano valore di argomenti di prova, le prove legali raccolte nel primo processo (e, quindi, essenzialmente la confessione giudiziale ed il giuramento) sono prevalutate dal legislatore, con la conseguenza che non vi è alcuna ragione per cui la prova degradi ad argomento di prova (in quanto il giudice del differente processo deve limitarsi a constatare se, nel caso di confessione, la parte cui è stato deferito l’interrogatorio formale abbia reso dichiarazioni contra se e, nel caso di giuramento, la parte cui lo stesso è stato deferito lo abbia prestato).

L’utilizzazione delle prove raccolte in un processo estinto è subordinata all’istanza di parte, non potendo il giudice acquisirle d’ufficio. Tuttavia, secondo un orientamento, le risultanze istruttorie di un processo estinto, se si trovano raccolte nel relativo fascicolo di ufficio, non abbisognano di particolari formalità di produzione od esibizione, per essere prese in considerazione, risultando sufficiente l’istanza della parte interessata e la conseguente acquisizione del suddetto fascicolo d’ufficio agli atti del giudizio (Cass. civ., sez. IIl, 4 agosto 2005, n. 16372; per Cass. civ., sez. II, 6 agosto 2003, n. 11842, in difetto dell’istanza della parte interessata, il giudice non potrebbe trarre argomenti di prova dalle risultanze istruttorie del diverso procedimento estinto, assumendole dai relativi fascicoli d’ufficio).


[1] La cancellazione della società dal registro delle imprese dà luogo a un fenomeno estintivo che priva la stessa della capacità di stare in giudizio, costituendo un evento interruttivo la cui rilevanza processuale è peraltro subordinata, ove la parte sia costituita a mezzo di procuratore, stante la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, dalla dichiarazione in udienza ovvero dalla notificazione dell’evento alle altre parti; a tale principio consegue che: a) la notificazione della sentenza fatta a detto procuratore, ex art. 285 c.p.c., è idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione nei confronti della società cancellata; b) il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione – ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale – in rappresentanza della società; c) è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso detto procuratore, ai sensi dell’art. 330, comma 1, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (Sez. 5, Sentenza n. 30341 del 23/11/2018).

[2] Per Sez. 1, Ordinanza n. 190 del 05/01/2022 il principio di ultrattività del mandato alla lite, in forza del quale il difensore continua a rappresentare la parte come se l’evento estintivo non si fosse verificato, si applica anche quando, avvenuta la cancellazione della società dal registro delle imprese in data successiva alla pubblicazione della sentenza di appello ed in pendenza del termine per proporre ricorso per cassazione, non ne sia possibile, per tale ragione, la declaratoria, ed il procuratore della società estinta non abbia inteso notificare l’evento stesso alla controparte, sicchè quest’ultima, legittimamente, può notificare alla società, pur cancellata ed estinta, il ricorso per cassazione presso il domicilio del suddetto difensore.

[3] In caso di morte o perdita di capacità della parte costituita a mezzo di procuratore, l’omessa dichiarazione o notificazione del relativo evento ad opera di quest’ultimo comporta, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il difensore continui a rappresentare la parte come se l’evento stesso non si fosse verificato, risultando così stabilizzata la posizione giuridica della parte rappresentata (rispetto alle altre parti ed al giudice) nella fase attiva del rapporto processuale, nonché in quelle successive di sua quiescenza od eventuale riattivazione dovuta alla proposizione dell’impugnazione (Cass., Sez. U, Sentenza n. 15295 del 04/07/2014; conf. Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 20840 del 21/08/2018); ne consegue che è ammissibile la notificazione dell’appello presso il procuratore della parte costituita in primo grado e deceduta successivamente (Cass., Sez. L, Ordinanza n. 24845 del 09/10/2018). In particolare, la mancata dichiarazione in udienza o la notificazione alle altre parti di tali eventi da parte di quest’ultimo comporta, giusta la regola dell’ultrattività del mandato alla lite, che il medesimo procuratore, qualora originariamente munito di procura alla lite valida per gli ulteriori gradi del processo, è legittimato a proporre impugnazione – ad eccezione del ricorso per cassazione, per cui è richiesta la procura speciale – in rappresentanza della parte che, deceduta o divenuta incapace, va considerata nell’ambito del processo tuttora in vita e capace; di conseguenza, è ammissibile la notificazione dell’impugnazione presso di lui, ai sensi dell’art. 330, primo comma, c.p.c., senza che rilevi la conoscenza aliunde di uno degli eventi previsti dall’art. 299 c.p.c. da parte del notificante (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 8037 del 23/03/2021).

[4] La morte della parte attrice intervenuta prima della notificazione della citazione o del deposito del ricorso determina, secondo la regola generale dell’art. 1722 n. 4 cod. civ., l’estinzione del mandato conferito al difensore e, conseguentemente, la nullità della “vocatio in ius” e dell’intero eventuale giudizio che ne è seguito (Cass. n. 10437/1994).

[5] E così Sez. 6-3, n. 21002/2017, Scarano, Rv. 645479-01, ha confermato il principio consolidato a mente del quale la morte, nel corso del giudizio, dell’unico difensore della parte costituita, ancorché avvenuta nelle more della scadenza dei termini concessi ex art. 190 c.p.c., comporta automaticamente l’interruzione del processo, anche se il giudice e le altre parti non ne abbiano avuto conoscenza, e preclude ogni ulteriore attività processuale, con la conseguente nullità degli atti successivi e della sentenza eventualmente pronunciata, sicché l’irrituale prosecuzione del giudizio, nonostante il verificarsi dell’evento interruttivo, può essere dedotta e provata in sede di legittimità.

[6] Sez. 1, n. 27829/2017, Genovese, ha precisato che la dichiarazione di fallimento di una delle parti che si sia verificata dopo la precisazione delle conclusioni e la rimessione della causa in decisione, è irrilevante ai fini dell’interruzione del processo, ferma restando l’inopponibilità al fallimento della decisione pronunciata nei confronti del fallito, derivante dalla perdita della sua legittimazione processuale, che si determina, automaticamente ai sensi dell’art. 43 l.fall. per effetto della sentenza di fallimento.

[7] L’atto riassuntivo deve essere notificato solo alle parti costituite (per il tramite del procuratore ai sensi dell’art. 170 c.p.c.) e non anche alla parte contumace. Tuttavia la notifica va fatta alla parte personalmente tutte le volte in cui la stessa sia mutata in conseguenza dell’evento interruttivo o l’evento abbia colpito il suo procuratore.

[8] <<E’ affermazione prevalente nella giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide e intende ribadire, quella secondo cui: in tema di riassunzione del processo interrotto, i soggetti già costituiti nella fase precedente all’interruzione, i quali, a seguito della riassunzione ad opera di altra parte, si presentano all’udienza a mezzo del loro procuratore, non possono essere considerati contumaci, ancorché non abbiano depositato nuova comparsa di costituzione, atteso che la riassunzione del processo interrotto non dà vita ad un nuovo processo, diverso ed autonomo dal precedente, ma mira unicamente a far riemergere quest’ultimo dallo stato di quiescenza in cui versa” (così Cass. 14100/2003)>>.

[9] Per Cass. n. 24331/2008, tuttavia, la riassunzione del processo comporta la dichiarazione di contumacia della parte che, benché costituita nella precedente fase del giudizio, non sia comparsa, ma da ciò non consegue che le domande dalla stessa parte proposte con l’atto di citazione o in via riconvenzionale debbano ritenersi rinunciate o abbandonate, in quanto tali domande sono relative ad un giudizio che prosegue nella nuova fase, dotata di tutti gli effetti processuali e sostanziali dell’originario rapporto.

[10] In quanto l’interruzione è funzionale all’esercizio del diritto di agire o di difendersi, in un processo riunito in cui vi sono più parti, essa opera solo nel procedimento nel quale è attore o convenuto il soggetto colpito dall’evento interruttivo, nel quale soltanto vi è l’esigenza di impedire il compimento di atti (soprattutto istruttori) che possano danneggiarlo.

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