Sommario: Premessa. 1. Excursus storico. 2. Compatibilità dell’arbitrato con la Carta Costituzionale e con la CEDU. 3. Inquadramento dell’arbitrato come sistema di risoluzione delle controversie alternativo rispetto al ricorso ai giudici statali. Vantaggi e svantaggi dell’una o dell’altra scelta. 4. Arbitrato nel diritto internazionale e comparato. 5. L’arbitrato secondo il diritto italiano. Arbitrato rituale e irrituale. 6. Classificazioni dell’arbitrato. 7. Le linee di tendenza future in tema di arbitrato.

Premessa.

La presente relazione introduttiva non vuole – e non può – esaurire un tema tanto vasto e complesso come quello dei fondamenti e delle tipologie di arbitrato, bensì costituisce soltanto una introduzione a grandi linee allo studio dell’Istituto giuridico che costituisce l’oggetto del presente Seminario e che sarà affrontato ed approfondito nel corso dei mesi seguenti in occasione delle singole sessioni tematiche. 

1.Excursus storico.

Partendo dall’excursus storico, la possibilità delle parti di escludere il giudice investito della cognizione della lite, sottraendogli il potere di decidere sulla controversia, trae origine diretta dall’istituto del diritto romano della ricusazione consistente nel diritto processuale delle due parti di accordarsi e di far valere un motivo impediente per la prosecuzione del giudizio con un giudice specifico.

L’arbitrato ha in realtà origini e precedenti storici che si confondono con la storia del diritto, ma anche dell’umanità a partire dalla mitologia greca e più tardi da quella latina che attribuiscono al Giudizio di Paride la prima rappresentazione illustre e rinomata di arbitrato, con l’attribuzione del pomo d’oro alla più bella dea dell’Olimpo.

Storicamente l’originaria forma di risoluzione dei conflitti fu la giustizia privata. Nelle società primitive, infatti, i contenziosi si decidevano con la forza e prevaleva il regime di vendetta privata. L’umanità passando dall’essere una aggregazione “selvaggia” alla civilizzazione ed al progresso sociale, ha fissato la prime regole di comportamento, stabilendo che venissero designati individui autorevoli, come i sacerdoti, gli anziani o i dotti, al fine di risolvere le controversie fra cittadini, lasciandosi alle spalle l’epoca della vendetta personale e, applicando pene proporzionate alla gravità dell’infrazione. Offeso e aggressore ricorrevano all’individuo designato di comune accordo allo scopo di regolare la loro disputa e il conciliatore o arbitro, di volta in volta il re, il capo di una tribù o il sacerdote, interveniva esclusivamente per volontà delle parti in conflitto e non poteva imporre coercitivamente il suo verdetto, la cui unica forza risiedeva nel compromesso dei contendenti, perché se avesse preteso di imporsi in maniera coattiva, senza accordo fra gli interessati, non avrebbe trovato chi vi ottemperasse.

L’arbitrato è quindi cronologicamente anteriore alle forme statali di amministrazione giudiziaria. In seguito, il perfezionamento dell’organizzazione della società ha consentito la nascita dell’istituto giudiziario inteso come l’attività essenziale di impartire la giustizia mediante un sistema permanente di matrice pubblica, come si conosce nell’attualità. Sebbene lo Stato moderno attribuisca a sé la funzione giudiziaria, non soppianta l’arbitrato, il quale è rimasto in vigore e in piena attuazione nei sistemi giuridici odierni dal momento che è un istituto di gran qualità e in alcuni casi l’unico che renda possibile dirimere conflitti giuridici, in special modo fra agenti di commercio in sede internazionale.

La formula dell’arbitrato nasce nell’antica cultura greca intorno all’anno 1520 a.c. nei consigli della lega di popoli e città vicine ad Atene. Fra i suoi obbiettivi si trovava quello di risolvere i conflitti fra i diversi gruppi etnici da parte di dodici anziani rappresentanti delle diverse tribù. Nel diritto romano l’istituto dell’arbitrato trova un notevole sviluppo raggiungendo, dopo più di due millenni, in gran parte, l’attuale struttura; invero già nel 451 a.C., la Legge delle XII Tavole concedeva fermezza e obbligatorietà alle convenzioni fra le parti in contesa. L’origine del moderno arbitrato a Roma si trova però nell’ambito della protezione che il pretore diede alle pratiche e usanze peculiari dei traffici commerciali e dello ius gentium, il cui fulcro non è ne lo ius ne le leges, ma la fides e la moralità. Durante la Repubblica l’intensità delle attività commerciali, marittime e terrestri, aveva reso inevitabile la tutela, da parte dei pretori, delle convenzioni e accordi sopranazionali caratteristici dello ius gentium al fine di evitare l’assenza di protezione da parte dello ius civile, superare l’impossibilità dei non romani di accedere alle stipulazioni dello ius civile e sottrarsi al rigoroso e assediante formalismo, procurando formule processuali adatte alla realtà economica. Nonostante l’assenza di tutela giudiziaria diretta dell’arbitrato privato, la giurisprudenza escogitò il complesso espediente di suggerire alle parti reciproche stipulationes penali, per cui ciascuna parte prometteva all’altra il pagamento di una somma determinata qualora non avesse mantenuto l’impegno che a decidere la controversia fosse un arbitro, dalle stesse parti concordemente scelto; si parlò al riguardo di compromettere e compromissum.  

Ma fu l’artefice del Corpus Iuris Civilis, l’imperatore Giustiniano, che intervenne incisivamente in materia, trasformando l’arbitrato in modo moderno e dotando la decisione, se la convenzione arbitrale fosse stata accompagnata da giuramento solenne e debitamente documentata, di forza vincolante ed esecutiva.  

In età postclassica e giustinianea, venuto meno il processo formulare, l’arbitrato privato, anche se avversato dall’accentramento del potere giudiziario nelle mani dell’imperatore, si affermò sul processo ordinario a causa dei costi, della complessità e della durata di quest’ultimo, ma soprattutto dall’autonomia lasciata ai contendenti dall’arbitrato. La causa del maggiore favore per l’arbitrato si riscontrò però nell’esistenza di formazioni sociali libere e spontanee, aggregazioni di artigiani, collegia o sodalitates, nelle quali i cittadini commercianti si affidarono alla bona fides dell’altro contraente e alla solidarietà fra uomini d’affari romani e non romani, che gestivano i loro negozi sulla base di una prassi determinata e conosciuta e interessati all’osservanza di essa; una tale prassi creava affidabilità dovuta al fatto che l’arbitro e le parti appartenevano alla stessa formazione sociale.

In epoca feudale, con la crisi del potere statale, fu un fenomeno naturale la sfiducia nella struttura pubblica e la tendenza a mezzi alternativi per la risoluzione di conflitti, risultando più frequenti le definizioni arbitrali delle vertenze giudiziarie, anche quando le parti volevano che la controversia fosse decisa secondo le norme del diritto positivo. Riferimenti a forme di giudizio arbitrale si rinvengono in molte fonti medioevali. La lex visigothorum prevedeva espressamente l’istituto; anche la lex salica stabilì che gli apretictores determinassero il valore delle cose che il debitore avrebbe dovuto corrispondere al suo creditore, nel caso di impossibilità di adempimento in denaro.  

Nell’età del diritto comunale le regole contenute nel Corpus Iuris, sul iudex, arbiter e sul compromissum, furono ampiamente utilizzate dai giuristi. Il diritto canonico intervenne con disposizioni più adeguate alla funzione dell’arbitrato, concedendo alle parti ampie facoltà nella scelta del rito, della forma dei giudizi arbitrali e della nomina degli arbitri; si concesse, inoltre, anche alle donne la possibilità di essere nominate arbitro. Anche gli statuti cittadini previdero e disciplinarono le decisioni arbitrali. A Venezia il Capitolare nauticum del 1255 stabilì l’elezione di tre arbitri per decidere le controversie di diritto marittimo; Federico II di Sicilia, anche se giudicante propenso a concentrare nelle proprie mani il potere giudicante, concesse la possibilità di ricorrere all’arbitrato.

Il rinascimento giuridico medioevale del secolo XIII e le nuove esigenze della vita economica e sociale, maturate in Italia con la rivoluzione dei Comuni e in Spagna con le Siete Partidas di Alfonso X El Sabio, accentuarono la divergenza fra l’arbiter, che decideva secondo le norme del diritto positivo, secondum iudiciorum ordinem, la cui decisione era appellabile, e l’arbitrator che definiva una causa civile ex bono et æquo, senza possibilità d’impugnazione; questa è una differenza di particolare importanza nello sviluppo storico dell’arbitrato inteso come una graduale metamorfosi da istituto di natura privatistica ad istituto processuale. Questo diventa terreno ideale per lo sviluppo dello ius mercatorum come diritto tendenzialmente universale, ultra-comunale, che nel Cinquecento è definito come “europeo”, quale nuovo ius gentium.

Fino all’epoca comunale la classe commerciante fu in grado di evitare l’intervento della corona imperiale nella vita corporativa e nelle forme di risoluzione di conflitti; tuttavia l’arbitrato inizio a declinare con l’ascesa del potere monarchico e con il germogliare dell’idea di Stato moderno, stante la necessità di sottoporre al controllo regio qualsiasi manifestazione della giustizia. Soprattutto con l’assolutismo di Luigi XIV, il Re Sole, l’arbitrato fu eclissato, insieme a molte altre manifestazioni di spontaneità sociale, schiacciate sotto il peso della sua convinzione di onnipotenza, riassunta nella celebre espressione “l’État c’est moi”. La decadenza dell’arbitrato si avvertì in maggiore misura nelle città, anteriormente comuni, che avevano fatto delle attività commerciali il loro principale motivo di sviluppo e ricchezza e che tolleravano o erano sottomesse al potere politico o all’influsso geografico di monarchie forti e con raggi d’azione su un vasto territorio. La classe mercantile cessa di essere artefice del proprio diritto; il diritto commerciale, unica fonte e obiettivo dell’arbitrato, subisce una duplice trasformazione: non è più diritto di classe, ma diritto di Stato; e non è più diritto universale, ma diritto nazionale. La transizione si compie in Francia, con gli editti di Francesco II e di Carlo IX; dalle magistrature mercantili su passa ai tribunali di Stato, sebbene concepiti come tribunali speciali, formati da giudici eletti da una assemblea di mercanti, ma nominati dal Re e investiti di potere sovrano.

Nel settecento la costituzione piemontese fu nettamente contraria all’istituto ed i codici parmense e sardo, cosi come il primo Codice di Procedura Civile del Regno d’Italia, prevedevano soltanto l’arbitrato volontario. Ma le virtù dell’arbitrato lo fanno sopravvivere al totalitarismo politico; infatti, alla perdita di potere politico della classe mercantile non corrisponde una diminuzione del ritmo di accumulazione del capitale commerciale, che, insieme all’inefficienza dei processi pubblici, resero utile l’arbitrato ed anche obbligatorio nei conflitti commerciali e familiari, in conformità con gli editti francesi del 1560 e 1673 e le Ordenanzas de Bilbao del 1737.

La Rivoluzione Francese, in controtendenza con gli orientamenti precedenti, si battè contro l’assolutismo anche nel campo dell’arbitrato ed estese l’istituto anzitutto in ambito volontario, perchè era considerato uno strumento adeguato per reagire agli abusi, agli oneri e alle lungaggini della giustizia dello Stato ed inoltre perchè era compatibile con i principi repubblicani e liberali, il cui nucleo era il contratto sociale. L’Assemblea Generale lo dichiarò miglior istituto per la risoluzione delle controversie fra i cittadini e lo eresse fra i principi della Costituzione del 1791, nella quale venne stabilito che il diritto dei cittadini di ricorrere all’arbitrato non poteva soffrire nessuna restrizione da parte del potere esecutivo. Di conseguenza la Francia, ma si riscontrano evoluzioni non dissimili in altri paesi europei, istituì l’arbitrato volontario, con un decreto dell’agosto del 1790; successivamente giunse a renderlo obbligatorio, con decreto del giugno 1793, per talune controversie patrimoniali e di comproprietà.

Il Codice Civile italiano del 1865 è, invece, espressione dell’idea per cui la giustizia non può che essere una funzione dello Stato, e quindi la funzione arbitrale, intesa come giustizia privata, viene relegata alla sfera dell’autonomia privata, considerando irrilevante l’arbitrato se non incanalato nella ufficialità statuale. Concezione, questa, congeniale all’ideologia fascista adottata dal Legislatore del 1940.  

Dopo la rinascita economica seguita alla Seconda Guerra Mondiale i flussi commerciali e gli scambi, non solo mercantili, ma anche di diversa natura generano alla fine del XX secolo la società del mercato globale dove l’intera organizzazione ha dimensioni planetarie che non possono essere frantumate dalla giurisdizione statale. Ai fini dell’efficacia e della sicurezza giuridica delle operazioni internazionali è quindi indispensabile un meccanismo celere, diretto e transnazionale per risolvere le controversie ed a queste esigenze deve quindi sopperire l’intramontabile istituto dell’arbitrato, che prende ora l’aggettivo di internazionale.  

L’arbitrato in quanto strumento di giustizia fra privati, ha la vocazione di far prevalere interessi non coincidenti con quelli caratteristici della giustizia statale, infatti mentre questi si riconoscono nella sicurezza delle relazioni giuridiche in cui lo Stato appare come unico garante competente ed efficiente dell’ordinamento, l’arbitrato si fonda sull’opposto principio per cui i privati possono efficientemente risolvere una specifica controversia con l’applicazione delle regole giuridiche, includendo molte volte gli usi commerciali, ritenuti più adatti al caso concreto.

Ciò spiega la controversa storia fra arbitrato e giurisdizione statale, che si erigono su concezioni contrastanti, ma non incompatibili. L’arbitrato esalta il ruolo dell’autonomia privata in quanto espressione della libertà contrattuale, mentre la giurisdizione si fonda sul principio secondo il quale il giudice statale non può essere privato della sua naturale competenza a vantaggio di altri soggetti sottratti alla sorveglianza statale. Con l’arbitrato internazionale si ha quasi un superamento delle opposte sensibilità allorché, fra la seconda parte del secolo scorso e l’inizio dell’attuale irrompe la circolazione internazionale dei modelli contrattuali uniformi, il più delle volte atipici, creati, non dai legislatori, ma dagli uffici legali delle grandi multinazionali. Alla scarsa propensione dei legislatori nazionali all’integrazione internazionale del diritto si contrappone un opposto atteggiamento dei giudici, in discreta misura, e soprattutto dell’accademia. Ai fini dell’efficacia e della sicurezza giuridica dell’investimento è indispensabile un meccanismo celere, diretto e transnazionale per risolvere le controversie. A queste esigenze deve quindi sopperire l’antico istituto dell’arbitrato, che prende, appunto, l’aggettivo di internazionale e che trova nelle fonti internazionali quel “volano” che le fonti nazionali hanno trascurato.

L’espansione del commercio internazionale ha indotto ad uniformare le regole dell’arbitrato. Il primo tentativo fu quello del Congreso Juridico Sudamericano che si svolse a Montevideo nel 1889, a cui seguirono altre iniziative: i Protocolli di Ginevra del 24 settembre 1923 e del 26 settembre 1927, la Sesta e la Settima Conferenza Internazionale Americana realizzata, rispettivamente, nel 1928 nella capitale cubana e nel 1933 a Montevideo, il Trattato di Montevideo del 1940, il New York Convention on the Recognition and Enforcement of Foreign Arbitral Awards del 1958, la Convenzione di Ginevra sull’Arbitrato Commerciale Internazionale del 1961, la Convenzione costitutiva a Washington nel 1965 dell’ICSID, la Convenzione Interamericana d’Arbitrato Commerciale Internazionale di Panama del 1975, la Convenzione Interamericana sull’Efficacia Extraterritoriale dei Lodi Arbitrali di Montevideo del 1979 e la fondamentale Legge Modello UNCITRAL sull’Arbitrato Commerciale Internazionale del 21 giugno 1985 la cui ratifica da parte degli Stati membri è stata raccomandata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.

Anche in ambito nazionale, tuttavia, l’arbitrato ha trovato riconoscimento espresso in quasi tutte le legislazioni, persino nei Codici Canonici della Chiesa Romana, nel canone 1713, e della Chiesa Orientale dell’anno 1990, nei canoni 1168 e seguenti, che regolano l’arbitrato. Al diritto di carattere globale si dà il nome di lex mercatoria, come insieme delle regole scaturite dalle pratiche commerciali internazionali, dai contratti e nella ratio decidendi adottata dagli arbitri internazionali che forma un corpo di regulæ iuris che gli operatori economici sono indotti ad osservare sulla previsione che, in caso di controversia, verranno applicate ai loro rapporti commerciali.

In epoca moderna l’arbitrato ha quindi ricevuto un notevole sviluppo proprio grazie alla creazione dell’istituto dell’arbitrato internazionale, ma anche di quello amministrato o ad hoc. Siamo così giunti alle tipologie di arbitrato amministrate dalle Camere di Commercio, che sono diretta derivazione, da un punto di vista di inquadramento giuridico, dei corrispondenti istituti che già esistevano nel diritto romano nell’ambito delle corporazioni dedite agli affari, specie nella forma dell’arbitrato internazionale che supera la statualità del diritto nazionale per assurgere a quell’ambito internazionale che è tipico degli affari.

2. Compatibilità dell’arbitrato con la Carta Costituzionale e con la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.

Passando ai codici italiani moderni, in Italia è esistito dai tempi del fascismo, anche se ormai caduto in disuso, il Giurì d’onore, cui le parti possono deferire irrevocabilmente le liti per i reati di ingiuria e diffamazione, senza obbligo di produrre al giudice una giusta causa oppure un giustificato motivo. Si tratta di un organo giudicante previsto dall’art. 596 c.p., al quale la persona offesa e l’offensore possono deferire, d’accordo fra loro, prima che sia pronunciata sentenza irrevocabile e sempre che l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato, il giudizio sulla verità del fatto nonché l’accertamento dell’eventuale danno che ne è derivato, sulla cui quantificazione il Giurì d’onore si pronuncia in via equitativa.

In modo simile ai grand jury dei Paesi anglosassoni, l’arbitrato in Italia è stato in passato una fase obbligatoria prima di poter agire in giudizio per varie materie del contendere nel diritto privato (lavoro, condominio, banche, ecc.), con tentativi ripetuti da parte dei legislatori di rendere i lodi arbitrali un atto avente forza di legge fra le parti, che precludeva in toto oppure in casi specifici molto circostanziati la possibilità successiva di adire il giudice.

Nel codice di procedura civile attuale, in attesa dei decreti  attuativi   in esecuzione della legge di delega del 2021, l’arbitrato è regolato dalle norme di cui agli artt. 806-832 c.p.c. che non sono, in verità, particolarmente esplicite sui rapporti tra arbitrato e giurisdizione, considerata anche la particolare ed unica rilevanza che la Costituzione riserva a quest’ultima.

La nostra Carta Costituzionale, infatti, non prevede alcuna norma in relazione all’arbitrato, mentre espressamente collega la tutela dei diritti alla giurisdizione e quindi, in senso classico, allo Stato, disponendo all’art. 102, comma 1, che “la funzione giurisdizionale è esercitata dai magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario”.

Ci si è chiesti, allora, se sussista un qualche profilo di incompatibilità tra l’arbitrato e il predetto articolo 102 della Costituzione. La parte preponderante della dottrina ha superato una simile obiezione rilevando che l’arbitrato non è giurisdizione e che l’investitura del potere decisorio avviene in virtù del consenso delle parti, ossia di un atto di autonomia privata quale è la convenzione d’arbitrato e non in virtù di un’imposizione dell’autorità. L’attività arbitrale è, in definitiva, una manifestazione di tutela non giurisdizionale dei diritti, che si svolge al di fuori dall’ambito di applicazione dell’art. 102 della Costituzione.

Una questione più complessa riguarda, invece, la compatibilità dell’arbitrato con l’art 24 della Costituzione. La convenzione di arbitrato, cioè l’atto con cui le parti deferiscono ad arbitri la risoluzione delle controversie, ha certamente effetto sulla giurisdizione, nel senso che costituisce un impedimento all’esercizio della stessa. Infatti, se si ritiene che l’arbitrato sia un mezzo alternativo, rispetto alla giurisdizione statale, di risoluzione delle controversie, l’arbitrato dovrà essere frutto di una scelta in suo favore e in luogo della giurisdizione dello Stato. Ci si può allora chiedere se sia possibile tale scelta perché si potrebbe immaginare un ordinamento che vieta il ricorso all’arbitrato o che, più semplicemente, gli nega qualsiasi rilevanza, tanto è vero che la nostra Carta Costituzionale nulla prevede in tema di arbitrato, mentre sembra collegare la tutela dei diritti alla giurisdizione dello Stato. Della questione fu investita, poco dopo la approvazione della Costituzione la Corte Costituzionale, la quale però, con le sentenze 2 maggio 1958, n. 35 e 12 febbraio 1963, n. 2, la ritenne infondata, peraltro sotto il particolare profilo che la normativa del tempo prevedeva che la decisione arbitrale dovesse essere necessariamente convogliata nell’alveo della giurisdizione, così finendo con l’essere, anche se a posteriori, statalizzata (all’epoca, infatti, gli arbitri dovevano depositare entro cinque giorni la decisione da loro presa presso la pretura e il giudice statale, constatatane la regolarità, la dichiarava esecutiva, così trasformandola in sentenza. In mancanza, la decisione perdeva qualsiasi efficacia). Tale risposta era stata ritenuta ambigua in quanto ispirata ad una idea forte di sovranità che poteva però apparire in contrasto con l’intento del nostro Costituente, che aveva posto le basi per un ordinamento a democrazia diffusa con piena tutela dei diritti inviolabili dell’uomo, “sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità” (art. 2). Ed infatti, negli anni successivi la Corte costituzionale, intervenendo di nuovo sulla questione, ebbe a correggere il tiro (sentenze 14 luglio 1977, n. 127 e 27 dicembre 1991, n. 488 e, poi, altre ancora, fino alla decisione 8 giugno 2005, n. 221).

Con tali più recenti sentenze la Corte Costituzionale ha posto in evidenza che l’art. 24 Cost., quando prevede che “tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi”, obbliga lo Stato ad apprestare l’organizzazione giudiziaria indispensabile per garantire tale diritto, secondo le modalità previste negli artt. 101 ss. Cost., ma non obbliga il cittadino a farvi ricorso. Quest’ultimo, come può decidere di non tutelare i propri diritti, così può decidere di tutelarli diversamente e, quindi, senza ricorrere al giudice dello Stato. Il fondamento dell’arbitrato, quindi, dal punto di vista negativo, è nell’art. 24 e, dal punto di vista positivo, è nell’autonomia privata e nella sfera inculcabile di tale autonomia, là dove si muova dentro i confini del lecito possibile. Fu allora osservato che, con riguardo al problema dell’ammissibilità degli arbitrati obbligatori sottoposto alla Consulta, l’arbitrato poteva essere assimilabile, proprio per la sua natura privatistica, ad una giurisdizione speciale, cosicché la previsione della sua obbligatorietà poteva andare contro il divieto di introdurre nuove giurisdizioni speciali. Soprattutto nella sentenza n. 127 del 1977 la Corte costituzionale (in relazione a questa obiezione), ha però rilevato che, a seguito del congiunto disposto degli articoli 24, primo comma, Cost. (diritto di azione in giudizio e correlativo esercizio, costituzionalmente garantiti) e 102, primo comma, Cost. (riserva della funzione giurisdizionale ai giudici ordinari, salve le eccezioni di cui all’articolo seguente), il fondamento di qualsiasi arbitrato è da rinvenirsi nella libera scelta delle parti: perché solo la scelta dei soggetti (intesa come uno dei possibili modi di disporre, anche in senso negativo, del diritto di cui all’art. 24, primo comma, Cost.) può derogare al precetto contenuto nell’art. 102, primo comma, Cost. Ciò corrisponde al criterio di interpretazione sistematica del testo costituzionale (nel quale la portata di una norma può essere circoscritta soltanto da altre norme dello stesso testo o da altre ancora ad esse parificate); e corrisponde anche alla garanzia costituzionale dell’autonomia dei soggetti (sottolineata con particolare vigore nella sent. n. 2 del 1963 della Corte Costituzionale), autonomia, che, mentre ad altro proposito è tutelata dagli artt. 41-44 Cost., nella materia che ne occupa e per le situazioni di vantaggio compromettibili è appunto garantita dall’art. 24, primo comma, della Costituzione. Sicché la “fonte” dell’arbitrato non può più ricercarsi e porsi in una legge ordinaria o, più generalmente, in una volontà autoritativa: ed il principio fissato nell’art. 806, primo comma, (prima parte), del codice del rito civile (“Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra loro insorte…”), assume il carattere di principio generale, costituzionalmente garantito, dell’intero ordinamento. Questa interpretazione – continua la Corte Cost. con la citata sentenza del 1977 – ha un chiarissimo riscontro nei lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, ed in particolare nelle dichiarazioni del Presidente della Commissione incaricata di preparare il progetto di Costituzione, il quale ebbe a distinguere nettamente la sorte dei collegi da riconoscere come vere e proprie giurisdizioni speciali da quella degli arbitrati “in materia civile, che si formano per volontà delle parti, e si basano su loro facoltà e sul loro diritto, che non può essere disconosciuto” (A.C. pag. 2339, seduta del 21 novembre 1947). Dunque o giurisdizioni speciali (quando sia possibile ravvisarne l’esistenza) oppure arbitrato volontario o facoltativo, fondato sulla libera opzione delle parti: non si dà spazio per un terzo tipo di deroga al principio dell’unità della giurisdizione, e cioè per gli arbitrati imposti dalla legge.

Questa conclusione, suggerita dai lavori preparatori – conclude la Corte Costituzionale, sempre con la motivazione della sentenza del 1977 -, trova saldo fondamento nel testo stesso della Carta costituzionale ed è avvalorata dall’art. 6, primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848.

La decisione del 1977 va ora a saldarsi con la recente pronuncia della CEDU del 20.5.2021 Beg Spa c. Italia in cui si afferma che, nel caso di arbitrato volontario, si è in presenza di un libero consenso all’adesione, espresso firmando una clausola compromissoria, in cui le parti rinunciano volontariamente ad alcuni diritti garantiti dalla Convenzione. Tale rinuncia non è incompatibile con la Convenzione stessa, a condizione che, però, la rinuncia sia stabilita in modo libero, legittimo e inequivocabile. Inoltre, nel caso di alcuni diritti della Convenzione, una rinuncia, per essere efficace ai fini della Convenzione stessa, richiede garanzie minime proporzionate alla sua importanza, tra cui l’imparzialità e l’indipendenza dell’organo o del collegio giudicante. Ai paragrafi 125 e seguenti della citata sentenza si aggiunge poi: <<125. La Corte ribadisce che l’articolo 6 § 1 della Convenzione assicura a ogni persona il diritto di adire una corte o un tribunale con un ricorso concernente i suoi diritti e doveri di carattere civile. Tale articolo sancisce pertanto il “diritto a un tribunale”, del quale il diritto di accesso, che è il diritto di adire un tribunale in materia civile, costituisce soltanto un aspetto (v. Ali Rıza e altri c. Turchia, nn. 30226/10 e 4 altri, § 171, 28 gennaio 2020, e i precedenti ivi citati). 126. Tale accesso a un tribunale non deve essere necessariamente inteso come un  accesso  a   un  tribunale   di   tipo   classico,   integrato   nel   normale apparato giudiziario del Paese; il “tribunale” può quindi essere un organo istituito per determinare un limitato numero di questioni specifiche, sempre purché offra le appropriate garanzie (si veda Lithgow e altri c. Regno Unito, 8 luglio 1986, § 201, Serie A n. 102). L’articolo 6 non preclude pertanto l’istituzione di tribunali arbitrali  al  fine  di  dirimere  alcune  controversie economiche tra privati (si veda Suda c. Repubblica ceca, n. 1643/06, § 48, 28   ottobre   2010).   In   linea   di   massima   le   clausole   compromissorie,   che presentano   innegabili   vantaggi   per   gli   interessati   nonché   per l’amministrazione   della   giustizia,   non   violano   la   Convenzione   (v, Tabbane c. Svizzera (dec.), n. 41069/12, § 25, 1 marzo 2016).  Occorre   inoltre   distinguere   l’arbitrato   volontario   dall’arbitrato obbligatorio.   In   caso   di   arbitrato   volontario,   al   quale   è   stato   prestato liberamente   il   consenso,   non   sorge   alcuna   reale   questione   ai   sensi dell’articolo  6.  Le  parti  di  una  controversia  sono  libere  di  investire  un organo diverso da un tribunale ordinario di alcune controversie derivanti da un contratto. Firmando una clausola compromissoria le parti rinunciano volontariamente ad alcuni diritti garantiti dalla Convenzione.  Tale rinuncia non è incompatibile con la Convenzione, purché essa sia stabilita in modo libero, legittimo e inequivocabile. Inoltre, per quanto riguarda alcuni diritti previsti dalla Convenzione, la rinuncia, per essere  efficace ai  fini della Convenzione, esige garanzie minime commisurate alla sua importanza (v. Mutu e Pechstein c. Svizzera, nn. 40575/10 e 67474/10, § 96, 2 ottobre 2018, e i precedenti ivi citati) >>.

Oggi nessuno più dubita che l’arbitrato sia ammissibile nel nostro ordinamento e bene fece la Corte Cost., fin dal 1977, a rimandare alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo per chiudere la questione, stante il carattere sovranazionale dei princìpi da questa espressi.

Tali princìpi trovano piena rispondenza anche nella giurisprudenza massimata più recente della Corte di Cassazione Sez. 6 – 2, che, con l’Ordinanza n. 34569 del 16/11/2021 (Rv. 663066 – 01), ha ribadito che l’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla l. n. 25 del 1994 e dal d.lgs. n. 40 del 2006, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione ( Massime precedenti Conformi Sezioni Unite: N. 24153 del 2013 Rv. 627786 – 01 “L’attività degli arbitri rituali, anche alla stregua della disciplina complessivamente ricavabile dalla legge 5 gennaio 1994, n. 25 e dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, ha natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario, sicché lo stabilire se una controversia spetti alla cognizione dei primi o del secondo si configura come questione di competenza, mentre il sancire se una lite appartenga alla competenza giurisdizionale del giudice ordinario e, in tale ambito, a quella sostitutiva degli arbitri rituali, ovvero a quella del giudice amministrativo o contabile, dà luogo ad una questione di giurisdizione”; Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: N. 23418 del 2020 Rv. 659285 – 01).

3. Inquadramento dell’arbitrato come sistema di risoluzione delle controversie alternativo rispetto al ricorso ai giudici statali. I vantaggi e gli svantaggi dell’una o dell’altra scelta.

L’arbitrato è comunemente ritenuto anche dalla migliore dottrina un sistema di risoluzione delle controversie alternativo rispetto al ricorso ai giudici statali, come tale rientrante nelle cd. A.D.R.

L’originaria formulazione della sigla deve ricondursi all’espressione inglese “Alternative Dispute Resolutions”, che potremmo correttamente tradurre come “Tecniche di risoluzione alternativa delle dispute”. L’origine del fenomeno risale alla metà degli anni Settanta e va localizzata nell’area statunitense, dove alcuni illustri studiosi hanno teorizzato per primi una serie di metodologie per risolvere i contenziosi, da utilizzare in alternativa ai percorsi legali classici di soluzione delle controversie nell’ambito del diritto civile.  L’esigenza di fondo che aveva indotto gli studiosi ad esplorare le vie innovative della giustizia alternativa era dettata dalla necessità di fare fronte ad un sistema tradizionale di gestione dei conflitti in cui i procedimenti giudiziari erano eccessivamente costosi ed estremamente lenti, ma soprattutto erano incapaci di garantire una buona soglia di riservatezza alle parti in causa. Tutti problemi che, purtroppo, sono noti anche alla cultura giuridica del nostro continente. L’esperienza nordamericana ha lentamente ed inesorabilmente sancito il successo di queste nuove tecniche integrative del sistema giudiziario: senza entrare in antinomia con i processi praticati nelle aule dei tribunali, le A.D.R. si sono affermate grazie alla loro capacità di facilitare, completare e predisporre concretamente al meglio il funzionamento della giustizia statale.  La diffusione delle A.D.R. si è quindi propagata in Europa, giungendo finalmente a trovare terreno fertile anche in Italia, dove i mass media prima e le istituzioni poi hanno attuato (e tuttora stanno attuando) una campagna di sensibilizzazione rivolta essenzialmente ai cittadini e ai primi fruitori del diritto, come i giudici e gli avvocati. Il buon funzionamento delle A.D.R. è legato in modo inscindibile alla conoscenza delle tecniche della negoziazione, il cui studio deve molto all’attività di ricerca svolta da giuristi eccellenti come Roger Fisher, William Ury e Bruce Patton che, all’Università di Harvard negli Stati Uniti, hanno attivato lo “Harvard Negotiation Project”. Le tecniche di risoluzione alternativa delle controversie, infatti, hanno come scopo precipuo quello di far pervenire le parti litiganti ad un accordo capace di lasciarle entrambe soddisfatte: tale obiettivo non potrebbe essere raggiunto senza il ricorso ad una gestione ponderata ed auto-consapevole del negoziato, cioè delle trattative che progressivamente dipanano il conflitto e lo rendono sempre meno acuto, fino a risolverlo. 

Le tre tecniche di gestione del conflitto che classicamente si fanno rientrare nel novero delle A.D.R. sono l’arbitrato, la mediazione e la conciliazione. Le parti in lite che desiderano fare ricorso ad uno strumento di giustizia “alternativa”, possono scegliere fra le tre opzioni quella che più si conforma alle loro aspettative.

L’arbitrato è una procedura formale, che segue un rito schematicamente predeterminato nel corso del quale un soggetto terzo e imparziale, che riveste il ruolo di arbitro, trova una soluzione per il conflitto dopo aver valutato le opposte argomentazioni delle parti. La decisione che viene presa dall’arbitro ha effetti obbligatori per le parti e prende il nome di lodo. La procedura in cui si articola un arbitrato, ovviamente, non coincide esattamente con la struttura di un processo. Allo stesso modo, il lodo non ha effetti giuridici perfettamente identici a quelli di una sentenza. Semplificando, però, è possibile affermare che fra tutte le A.D.R. l’arbitrato è la tecnica che meno si discosta dal classico processo in tribunale, perché l’arbitro, proprio come il giudice, interviene per risolvere il conflitto facendo uso di un potere di decisione vincolante.

La mediazione è una procedura informale, che al pari dell’arbitrato si svolge davanti ad uno o più terzi imparziali (i mediatori) e tuttavia ha il pregio di restituire alle parti la responsabilità delle proprie decisioni: il compito del mediatore infatti non è quello di valutare i torti e le ragioni dei litiganti, bensì quello di aiutarli a riattivare fra loro un dialogo interrotto, mediante l’utilizzo delle proprie abilità relazionali. Elemento imprescindibile della mediazione è la libera e volontaria adesione dei confliggenti alla procedura. Grazie alla sua struttura, ispirata da un principio di assoluta non-coercitività, la mediazione è uno strumento che si presta in modo eccellente alla gestione dei conflitti che toccano le corde più sensibili dell’animo umano. E’ particolarmente efficace nel campo sociale, nel settore del diritto di famiglia e del diritto penale (area, quest’ultima, nella quale la mediazione riveste un’importante ed innovativa funzione promotrice della cosiddetta giustizia riparativa). Il mediatore terzo ed imparziale non ha alcun potere decisionale, ma svolge il ruolo del “facilitatore” che accompagna le parti lungo un percorso comune, verso la ricerca cooperativa della soluzione alla controversia.

La conciliazione è una procedura semi-formale, che segue una serie di fasi prestabilite senza però essere “ingabbiata” entro gli stretti limiti e le rigide scadenze temporali che normalmente sono imposte dai riti processuali o arbitrali. Con la conciliazione le parti tentano di avvicinare i loro punti di vista per trovare una soluzione al conflitto che le oppone: per ottenere questo scopo fanno ricorso all’autorevolezza di un terzo imparziale, che riveste il ruolo di conciliatore ed è una figura pubblica, dotata di competenze tali da guidare le parti verso la risoluzione del conflitto mediante il rispetto di una serie di norme comportamentali da lui prefissate (ad esempio: ciascuna parte deve attendere che il conciliatore le dia la parola prima di esporre il proprio punto di vista; gli avvocati presenti alla seduta di conciliazione devono parlare solo dopo che i loro clienti si saranno espressi personalmente, ecc.). In pratica, comunque, c’è grande affinità fra la mediazione e la conciliazione. Di fatto, le due procedure tendono ad essere confuse fra loro ed è frequente che, nella prassi, gli organismi specializzati in tecniche A.D.R. propongano modelli procedurali border-line fra mediazione e conciliazione, in cui alcune caratteristiche dell’una si sovrappongono a quelle dell’altra.

Le peculiarità di ogni singolo caso e l’estrema duttilità delle A.D.R. non consentono di formulare una descrizione generalizzante.  E’ certo, tuttavia, che riservatezza, autonomia, celerità ed economicità sono caratteristiche che tipicamente accomunano tutte le procedure di A.D.R., rendendole spesso preferibili alle vie proposte dalla giustizia ordinaria.

Non mi soffermerò sulla correttezza o meno della definizione dell’arbitrato come una ADR, poiché su tale argomento si sono già spesi fiumi di inchiostro, stante anche la peculiarità della giurisdizione italiana, come sopra delineata anche alla luce della giurisprudenza costituzionale e della Corte Suprema di Cassazione italiana rispetto a quella nordamericana, quanto piuttosto sui vantaggi e sugli svantaggi della scelta dell’arbitrato in luogo della giurisdizione ordinaria.

L’arbitrato può essere scelto allo scopo di conseguire uno dei suoi vantaggi sperati consistenti nel fatto che: le parti possono scegliere il loro giudice (ossia l’arbitro o gli arbitri), facoltà che si dimostra particolarmente utile quando per la decisione della controversia devono essere risolte questioni di particolare complessità, sia giuridiche che tecniche; le parti possono pure scegliere la lingua del procedimento arbitrale; il procedimento arbitrale si conclude spesso in tempi più rapidi rispetto a quelli di un procedimento pendente avanti il giudice statale; il procedimento arbitrale e il lodo generalmente non sono pubblici e anzi sono confidenziali; in molti ordinamenti, i mezzi di impugnazione avverso i lodi sono limitati, il che li rende tendenzialmente più stabili rispetto a una decisione di un giudice statale; in virtù delle disposizioni della Convenzione di New York del 1958, è generalmente più facile eseguire all’estero un lodo che non una sentenza pronunziata da un giudice statale.

Nondimeno, il ricorso all’arbitrato può presentare anche degli svantaggi; ad esempio, in diversi ordinamenti, l’arbitrato è più costoso rispetto al ricorso ai giudici statali, tanto da essere ritenuto uno strumento elitario; gli arbitri generalmente non possono eseguire direttamente misure cautelari pronunciate nei confronti delle parti; anche il lodo non costituisce immediatamente titolo esecutivo, essendo soggetto a un procedimento di controllo da parte del giudice statale, considerato che, anche nell’impianto della modifica del 2021, la parte che intende far eseguire il lodo nel territorio della Repubblica ne propone istanza depositando il lodo in originale o in copia conforme, insieme con l’atto contenente la convenzione d’arbitrato, in originale o in copia conforme, nella cancelleria del tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato e il tribunale, accertata la regolarità formale del lodo, lo dichiara esecutivo con decreto; le limitazioni all’impugnazione dei lodi comportano che un’eventuale decisione erronea non può essere facilmente riformata.

Nella generalità degli ordinamenti, vi sono poi alcune controversie che, per loro natura, non possono essere deferite agli arbitri, o possono esserlo solo al ricorrere di determinati presupposti. In particolare, possono essere individuate due categorie di queste controversie: le controversie che hanno ad oggetto diritti assolutamente o parzialmente non disponibili; le controversie che vedono come parte un soggetto che viene ritenuto dall’ordinamento bisognoso e meritevole di una specifica tutela rafforzata (ad esempio, i consumatori, i conduttori di unità abitative, o i lavoratori subordinati).

Il presupposto della arbitrabilità è in ogni caso la esistenza di una clausola arbitrale. Le clausole arbitrali possono dividersi in due categorie: le clausole inserite in un contratto che prevedono che, ove insorga una controversia tra le parti, essa sia deferita agli arbitri (clausola compromissoria); gli accordi conclusi dopo che una controversia è sorta, in forza dei quali tale controversia è deferita agli arbitri (compromesso).

Nella generalità degli ordinamenti, una clausola arbitrale è ritenuta valida anche in mancanza di particolari formalità, purché emerga chiaramente la volontà delle parti di deferire la controversia ad arbitri. Ad esempio, per il diritto italiano, sarebbe valida anche una clausola estremamente sintetica, del genere “Controversie: arbitrato”. Inoltre, solitamente le clausole arbitrali sono soggette a una speciale disciplina e viene loro riconosciuta autonomia dal contratto che le contiene. Così, ad esempio, ove sorgesse disputa tra le parti in merito alla nullità del contratto, questa nullità non travolgerebbe la clausola compromissoria.

Pur con queste limitazioni vi sono peraltro categorie di arbitrati che possono essere ritenute non elitarie e con costi assai contenuti, quali quelli “amministrati” dalle Camere di Commercio per i quali i costi sono fissati con Regolamenti che “bloccano” di fatto i compensi oltre un certo importo e che assicurano una “selezione” degli arbitri di particolare prestigio così da garantire una giustizia anche di “qualità” il che può costituire un valore aggiunto in un momento storico in cui la giustizia ordinaria è affidata per una percentuale altissima alla magistratura onoraria che non è stata sottoposta ad un concorso vero e proprio, scritto e orale, in grado di operare una selezione di quella qualità del servizio giustizia che deve garantire il giudice.  

4.L’arbitrato nel diritto internazionale e comparato.

L’arbitrato è sovente usato per la risoluzione di controversie civili e commerciali, specialmente nel settore del commercio internazionale. Un esempio concreto è l’arbitrato offerto dalla Camera di commercio internazionale (ICC), che lo regola tramite le Arbitration Rules.

L’ arbitrato internazionale è simile al contenzioso giudiziario nazionale, ma invece di aver luogo davanti a un tribunale nazionale, si svolge davanti a giudici privati ​​noti come arbitri. È un mezzo di risoluzione internazionale delle controversie consensuale, neutro, privato e esecutivo ed in genere è più veloce e meno caro di procedimenti giudiziari nazionali. A differenza delle sentenze dei tribunali nazionali, i lodi arbitrali internazionali possono essere applicati in quasi tutti i paesi del mondo, il che rende l’arbitrato internazionale il meccanismo principale per la risoluzione delle controversie internazionali. L’uso dell’arbitrato internazionale si è evoluto per consentire a soggetti appartenenti a diversi contesti giuridici, linguistici e culturali di risolvere le controversie in modo definitivo e vincolante, in genere senza le formalità delle norme procedurali dei propri sistemi giuridici.

L’arbitrato internazionale viene talvolta chiamato a forma ibrida di risoluzione internazionale delle controversie, poiché unisce elementi della procedura di diritto civile e della procedura di diritto comune, offrendo allo stesso tempo alle parti un’opportunità significativa di definire la procedura arbitrale in base alla quale sarà risolta la controversia. Può essere utilizzato per risolvere qualsiasi controversia considerata “arbitrabile”, un termine il cui campo di applicazione varia da Stato a Stato, ma che include la maggior parte delle controversie commerciali.

Le aziende includono frequentemente accordi arbitrali internazionali nei loro contratti commerciali con altre imprese, in modo che se insorgono controversie in merito all’accordo, sono obbligate ad arbitrare piuttosto che a perseguire i tradizionali contenziosi giudiziari. L’arbitrato può anche essere utilizzato da due parti per risolvere una controversia tramite un cosiddetto “accordo di presentazione”, che è semplicemente un accordo arbitrale che viene firmato dopo che una controversia è già sorta.

Gli accordi arbitrali tipici sono molto brevi. La clausola arbitrale del modello ICC, per esempio, prevede semplicemente: “Tutte le controversie derivanti da o in connessione con il presente contratto devono essere risolte in via definitiva secondo le Regole di arbitrato della Camera di commercio internazionale da uno o più arbitri nominati in conformità con le Regole stesse.”

Le parti aggiungono inoltre frequentemente norme relative alla legge che regola il contratto, il numero di arbitri, il luogo dell’arbitrato e la lingua dell’arbitrato.

Un fenomeno relativamente recente è “arbitrato sugli investimenti”. È uno dei tipi di arbitrato che sta crescendo più rapidamente. Riguarda l’istituzione di procedimenti arbitrali da parte di investitori stranieri contro Stati sulla base di trattati bilaterali o multilaterali di investimento. Potrebbe essere l’unico ricorso in risposta all’espropriazione di investimenti privati ​​da parte di uno Stato.

I principali vantaggi dell’utilizzo dell’arbitrato internazionale per risolvere una controversia piuttosto che il contenzioso giudiziario tradizionale comprendono: L’arbitrato internazionale può risolvere le controversie in modo più rapido rispetto ai tradizionali contenziosi giudiziari; l’arbitrato internazionale può essere meno costoso del tradizionale contenzioso giudiziario; l’arbitrato internazionale può fornire giustizia di qualità migliore, poiché molti tribunali nazionali sono sovraccarichi, il che non sempre concede ai giudici tempo sufficiente per produrre decisioni legali di alta qualità; i clienti possono svolgere un ruolo attivo nella selezione di un arbitro esperto nel settore dell’arbitrato internazionale, piuttosto che un generalista come molti giudici nazionali; l’arbitrato internazionale è flessibile e le singole parti in una controversia svolgono un ruolo significativo nella selezione della procedura più appropriata per risolvere la controversia internazionale e decidere se includere procedure come la produzione di documenti; l’arbitrato internazionale può essere “riservato”, il che è utile se le parti desiderano continuare i loro rapporti commerciali o evitare la pubblicità negativa; l’arbitrato internazionale è neutrale e questo è molto importante per le transazioni transfrontaliere, poiché evita la possibilità del vantaggio del “tribunale di casa” per una parte, considerato che in alcuni paesi i giudici non governano in modo indipendente; in certi casi, come controversie tra investitori e stato, l’arbitrato internazionale offre l’unico rimedio per la violazione di un diritto legale.

L’arbitrato è utilizzato anche come mezzo di soluzione pacifica delle controversie tra Stati. La Corte Internazionale di Giustizia, istituita con la Carta delle Nazioni Unite del 1945, con sede a L’Aja presso il Palazzo della Pace, è senza dubbio il massimo organo giurisdizionale mondiale. Ai sensi dell’art. 92 Carta ONU, essa opera sia sulla base della stessa Carta sia sulla base del suo Statuto. È proprio la ratifica di queste due fonti da parte degli Stati che si configura come manifestazione della volontà di sottoporsi alla giurisdizione della CIG. Essa può essere adita solo dagli Stati e generalmente decide sulla controversia applicando il diritto internazionale

Ai fini della trattazione, tuttavia, non può non farsi cenno anche agli altri Tribunali internazionali istituiti nell’ambito di organizzazioni internazionali: il Tribunale del Commercio, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, il Tribunale del Mare previsto dall’Allegato VII alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare per le controversie riguardanti la sua interpretazione e applicazione.

5.L’arbitrato secondo il diritto italiano.

L’istituto dell’arbitrato è previsto, nel nostro diritto interno, dal Codice di Procedura Civile (libro IV, titolo VIII, artt. 806-840).

Ai sensi dell’art. 806, co. 1, cod. proc. civ., “Le parti possono far decidere da arbitri le controversie tra di loro insorte che non abbiano per oggetto diritti indisponibili, salvo espresso divieto di legge”. Il secondo comma del medesimo articolo specifica poi che “Le controversie di cui all’art. 409 cod. proc. civ.”, ossia quelle per le quali trova applicazione il cosiddetto rito del lavoro, “possono essere decise da arbitri solo se previsto dalla legge o nei contratti o accordi collettivi di lavoro”.

La decisione pronunciata dagli arbitri, denominata lodo, produce gli stessi effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria (art. 824/bis cod. proc. civ.), con la sola eccezione dell’efficacia esecutiva. Per eseguire il lodo in Italia è infatti necessario che esso venga dichiarato esecutivo dal Tribunale nel cui circondario è la sede dell’arbitrato nel cui ambito è stato pronunciato (art. 825 cod. proc. civ.).

Esiste però un altro tipo di arbitrato, denominato irrituale, che si conclude con un lodo che, in deroga a quanto previsto dall’art. 824/bis cod. proc. civ., ha gli effetti di una determinazione contrattuale e come tale è annullabile, al ricorrere dei vizi previsti dalla legge, nell’ambito di un procedimento ordinario di cognizione promosso avanti il giudice statale (art. 808/ter cod. proc. civ.).

Una prima grande classificazione tra i tipi di arbitrato si rinviene, quindi, avendo riguardo all’efficacia del provvedimento (il lodo) con il quale si conclude il procedimento arbitrale. Invero, se il lodo è destinato a produrre gli effetti propri della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria, si parla di arbitrato rituale che è soggetto ai mezzi di gravame dell’impugnazione per nullità, della revocazione e dell’opposizione di terzo. Ove invece il lodo abbia efficacia meramente negoziale, l’arbitrato sarà irrituale. Da ultimo, la Corte di Cassazione, Sez. 2 -, con Ordinanza n. 12058 del 13/04/2022 (Rv. 664389 – 01) ha ribadito che “Posto che l’arbitrato irrituale è un mandato congiunto a comporre una controversia mediante un negozio con questa funzione, deve escludersi la sua assimilabilità al contratto di transazione atteso che la risoluzione della controversia da parte degli arbitri non implica reciproche concessioni tra le parti; peraltro, a differenza dell’arbitrato rituale, la possibilità di attuare i diritti discendenti dall’arbitrato irrituale è rimessa esclusivamente al comportamento delle parti, dovendosi escludere che il relativo lodo possa essere reso esecutivo” (Massime precedenti Vedi: N. 30000 del 2021 Rv. 662724 – 01).

Il procedimento arbitrale rituale nasce dalla domanda di arbitrato, l’atto con cui viene individuato l’oggetto del processo dal punto di vista dell’attore. La proposizione della domanda di arbitrato è equiparata alla domanda proposta in sede giurisdizionale; quindi si può ricordare che: 1) la proposizione della domanda di arbitrato interrompe la prescrizione e determina la sospensione del suo corso, dal momento in cui viene proposta fino al momento in cui la decisione dell’arbitro (collegio arbitrale) non sia più impugnabile; 2) la domanda di arbitrato può essere trascritta, al pari della domanda giudiziale, in relazione a beni immobili e beni mobili registrati.

Una volta iniziato il processo arbitrale può succedere che una delle parti proponga un’eccezione relativa all’interpretazione, alla validità e all’efficacia della convenzione di arbitrato. Si parla in tal caso di eccezione di incompetenza qualora durante il processo arbitrale vengano poste al giudice questioni che non rientrano all’interno, che esorbitano dunque dalla previsione della clausola compromissoria e patto compromissorio. Peraltro, se la relativa eccezione di incompetenza non è fatta valere durante il procedimento, una volta emesso il lodo, questo non è più impugnabile per vizio di incompetenza dell’arbitro; si viene a creare un compromesso tacito. Similmente, l’eccezione di incompetenza per inesistenza, invalidità e inefficacia della convenzione di arbitrato va fatta valere nella prima difesa successiva alla nomina degli arbitri.

6.Classificazioni dell’arbitrato.

L’arbitrato può essere classificato secondo vari criteri.  

In primo luogo, si può distinguere, come si è visto nel capitolo precedente, fra arbitrato rituale, quando, conformandosi alla volontà delle parti, esso conduce a una decisione, il lodo rituale, che ha efficacia di sentenza e può essere omologato divenendo titolo esecutivo ed arbitrato irrituale quando, invece, secondo la volontà delle parti, conduce a una decisione, il lodo irrituale, che ha natura ed efficacia negoziale. In questa seconda circostanza il lodo irrituale non potrà divenire direttamente titolo esecutivo, ma potrà essere utilizzato per richiedere un decreto ingiuntivo o come prova documentale nel, corso di un giudizio.

Possiamo poi distinguere tra arbitrato secondo diritto o arbitrato in equità, a seconda che gli arbitri giudichino durante il procedimento secondo le norme sostanziali di un certo ordinamento giuridico o con riferimento a criteri equitativi, quando gli Arbitri possono deviare dal rigore stesso della norma di legge e riferirsi a usi o principi più ampi di giustizia in senso lato, avuto riguardo al caso concreto, ai suoi elementi e alle sue circostanze.

Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra arbitrato interno ed arbitrato internazionale di cui si è ugualmente parlato sopra. L’arbitrato internazionale, più precisamente detto arbitrato commerciale internazionale, al fine di non confonderlo con l’arbitrato tra Stati, riguarda quelle controversie che hanno un particolare carattere di transnazionalità; ad esempio, tra parti una italiana e l’altra straniera, oppure quando l’oggetto della controversia sottoposta ad arbitrato sia inerente al diritto del commercio internazionale.

L’arbitrato amministrato è quello più diffuso ed assume tale denominazione quando le parti richiedono l’intervento di un Ente o un’Istituzione preposta alla gestione e al controllo di ogni fase del procedimento secondo regole contenute in regolamenti e tariffari prefissati. Ricorrere all’arbitrato amministrato risulta abbastanza semplice, essendo sufficiente indicare nella clausola o nel compromesso arbitrale il riferimento all’Istituzione specializzata che vigilerà su ogni aspetto del procedimento arbitrale.

Fra le principali Istituzioni che amministrano gli arbitrati in Italia troviamo le Camere di Commercio, ma esistono anche associazioni ed enti privati che svolgono tale funzione come ad esempio la Corte arbitrale europea Delegazione italiana, la Camera arbitrale INMEDIAR dell’Istituto nazionale per la mediazione e l’arbitrato, l’AIA (Associazione italiana per l’arbitrato) o l’ANPAR (Associazione nazionale per l’arbitrato e la conciliazione).

L’arbitrato è denominato ad hoc quando il procedimento è direttamente disciplinato dalle parti nella loro convenzione arbitrale (clausola compromissoria/compromesso) o in un atto separato, senza il riferimento a una Istituzione arbitrale.

Si parla di arbitrato documentale quando il procedimento si svolge solo tramite esame di prove documentali; in questa specifica circostanza si garantiscono decisioni arbitrali in tempi rapidissimi. Questo tipo di arbitrato è particolarmente indicato in tutte le controversie di valore moderato, in cui le parti rinunciano all’audizione personale, alle prove testimoniali e al dibattimento orale.

Di istituzione relativamente recente è l’arbitrato accelerato e / o arbitrato semplificato.

In data 1 marzo 2017 è entrata in vigore la nuova versione del Regolamento arbitrale della Camera di Commercio Internazionale (“Regolamento”), la quale mira ad accelerare, rendere più efficiente e trasparente l’arbitrato. L’edizione 2017 del Regolamento segue quella del 2012 e rappresenta, sotto diversi aspetti, un significativo passo verso l’economicità e celerità del processo e allo stesso momento attribuisce rilevanti poteri decisionali alla Corte Internazionale della Camera di Commercio Internazionale (“Corte ICC”). In data 1 marzo 2017 è stata resa pubblica anche la “Note to Parties and Arbitral Tribunals on the Conduct of the Arbitration under the ICC Rules of Arbitration” (“Note to Parties”), alla quale viene attribuita una particolare rilevanza da parte della stessa Corte ICC e che rappresenta una sorta di guida ufficiale nell’interpretazione del nuovo Regolamento.

Una delle più importanti modifiche che si rinvengono nel nuovo Regolamento riguarda l’introduzione di una procedura accelerata e semplificata, con tariffe ridotte, la quale è disciplinata dall’articolo 30 del Regolamento e dalla sua Appendice VI (“Procedura Accelerata”). L’introduzione della Procedura Accelerata – pur essendo la più importante innovazione del Regolamento – non rappresenta un’assoluta novità nel mondo dell’arbitrato internazionale. Al contrario, da un certo punto di vista, rappresenta il ritorno alle radici dell’istituto dell’arbitrato, il quale nasce come un’alternativa più snella e più rapida alla giustizia ordinaria. Negli ultimi anni, la prassi dell’arbitrato internazionale si è infatti allontanata da quest’idea originaria (risultando spesso troppo costosa e non garantendo l’auspicabile celerità) e pertanto l’introduzione della Procedura Accelerata, anche da parte della Corte ICC, è stata particolarmente apprezzata dagli operatori economici.

Al fine di garantire la celerità del procedimento, sono state introdotte le seguenti previsioni per la Procedura Accelerata: a. non viene redatto l’“Atto di missione”, cioè il documento che precisa i termini del mandato degli arbitri previsto dall’art. 23 del Regolamento; b. le parti non hanno la possibilità di formulare nuove domande, salvo che siano a ciò autorizzate dal tribunale arbitrale; c. la “riunione di gestione del procedimento” prevista dall’articolo 24 del Regolamento si deve tenere entro il termine di 15 giorni dalla trasmissione del fascicolo al tribunale arbitrale. Nel condurre l’arbitrato, pur dovendo garantire alle parti la ragionevole possibilità di presentare i propri argomenti, il tribunale arbitrale può decidere la controversia anche solo sulla base di documenti forniti dalle parti, ossia senza tenere alcuna udienza, né concedere prove testimoniali o espletamento di perizie. Il tribunale arbitrale, qualora lo ritenga opportuno, può altresì limitare il numero, l’oggetto e la corposità delle memorie scritte delle parti. Il lodo dovrà essere emesso entro il termine di 6 mesi a partire dalla “riunione gestionale del procedimento” (salvo eventuali proroghe che la Corte ICC può concedere su richiesta motivata, ma comunque solo in casi limitati e sufficientemente giustificati). Il lodo dovrà in ogni caso contenere la motivazione, che tuttavia potrà essere più concisa.

Uno degli indubbi vantaggi che accompagna l’introduzione della Procedura Accelerata è la sensibile riduzione dei costi che comporta un procedimento arbitrale. Mentre le spese amministrative sono le medesime sia nel caso di Procedura Accelerata che quella “ordinaria”, gli onorari degli arbitri sono diminuiti del 20 % rispetto a quelli previsti dalle tariffe generali. Oltre a questa riduzione delle spese dell’arbitrato, il vero e proprio risparmio che consegue all’espletamento della Procedura Accelerata è la riduzione dei costi di assistenza legale, in considerazione della riduzione dei tempi, delle memorie e dell’attività che dovrà essere complessivamente svolta.

Con il nuovo Regolamento vengono attribuiti alla Corte ICC maggiori poteri e viene dunque limitata la libertà ed autonomia delle parti. Tuttavia non si tratta di un’assoluta novità nel mondo dell’arbitro internazionale. Una simile procedura accelerata è prevista altresì dai regolamenti della Stockholm Chamber of Commerce, della Hong Kong International Arbitration Centre e della Singapore International Arbitration Centre.

L’idea dell’arbitrato accelerato si sta diffondendo anche tra le camere arbitrali italiani. A titolo esemplificativo, la Camera di Commercio di Roma ha introdotto (anche se allo stato è sotto revisione) una forma di procedura semplificata con arbitro unico, dotata di una fase preliminare di conciliazione, che può essere applicata alla risoluzione di controversie di valore economico contenuto entro Euro 150.000,00. La introduzione dell’arbitrato accelerato è attualmente all’attenzione anche della Giunta della Camera di Commercio di Cagliari – Oristano su proposta del Consiglio della Camera Arbitrale della stessa Camera di Commercio.

Sempre in tema di arbitrato accelerato pare opportuno segnalare che il 9 luglio 2021 la Commissione delle Nazioni Unite sul diritto del commercio internazionale, comunemente noto come UNCITRAL, ha adottato il Regolamento di arbitrato accelerato dell’UNCITRAL, che è entrato in vigore il 19 settembre 2021 (il “(UNCITRAL) Regole accelerate”). UNCITRAL ha anche pubblicato una Bozza di nota esplicativa al regolamento accelerato (il “Nota esplicativa”), contenente utili commenti sull’applicazione e l’interpretazione del Regolamento accelerato. Le Regole Rapide contengono 16 Articoli che sono incorporati come Appendice al 2013 Regole arbitrali UNCITRAL attualmente in vigore e devono essere letti congiuntamente ad essi. 

L’articolo 1 dell’UNCITRAL Expedited Rules prevede che le Expedited Rules si applichino solo ove le parti lo convengano espressamente. Il consenso espresso delle parti dovrebbe fungere da scudo di protezione per le parti meno esperte o meno potenti che altrimenti si troverebbero legate alla procedura accelerata accettando le Regole di arbitrato UNCITRAL. È inoltre generalmente prudente richiedere l’espresso consenso delle parti quando devono essere applicate norme procedurali rigorose per accelerare un arbitrato, al fine di prevenire, o almeno minimizzare, problemi di giusto processo, che potrebbe potenzialmente compromettere l’esecutività dei lodi arbitrali risultanti.

È interessante notare che l’applicazione delle Regole rapide non dipende dall’importo della controversia o da altri criteri, come nel caso delle principali regole istituzionali. Per esempio, il “Disposizioni relative alla procedura accelerata ICC” sono applicabili nei casi in cui l’importo della controversia non superi USD 2 milioni o USD 3 milioni (a seconda della data della convenzione arbitrale). La Nota esplicativa chiarisce ulteriormente, nel paragrafo 6, che le parti sono libere di concordare l’applicazione delle Regole rapide in qualsiasi momento, anche dopo l’inizio del procedimento arbitrale ai sensi del Regolamento arbitrale UNCITRAL.

Infine, ma non ultimo, appare opportuno richiamare l’arbitrato on line. Si tratta di un normale procedimento arbitrale la cui gestione avviene esclusivamente con modalità telematiche e informatiche: atti e documenti sono dematerializzati e le udienze avvengono in videoconferenze tramite piattaforme VOIP. Tutto ciò permette uno svolgimento rapido del procedimento a costi altamente competitivi e salvaguardando la professionalità e qualità dell’arbitrato.

In realtà solo pochi regolamenti e leggi nazionali anche extraeuropee prevedevano, prima della emergenza generata dal COVID, disposizioni sulle udienze in remoto e quasi sempre in termini di facoltà e non certo di obbligo. Tra le leggi si possono citare, ad esempio, l’art. 1072b del codice di procedura civile olandese che ha previsto da tempo la possibilità che testimoni e esperti possano essere “sentiti” online. Tra i regolamenti di alcune istituzioni arbitrali l’art. 19.2 del regolamento LCIA consente udienze in remoto o miste, così come il nuovo art. 26.1 Regolamento ICC. Altre istituzioni prevedono la possibilità di utilizzare strumenti elettronici senza fare espressamente riferimento alle udienze in remoto (HKIAC, International Centre for Dispute Resolution-ICDR, Singapore). Alcuni regolamenti prevedono dei riferimenti alle udienze in remoto ma solo in certi casi, come l’art. 28 Uncitral che consente di sentire testimoni e esperti in remoto SCC e consente di tenere la management conference in remoto. Qualcuno ha ritenuto che ciò significasse che le udienze in remoto potessero essere consentite solo se espressamente previste (visto che sono disciplinate su certi aspetti).

Con l’avvento della emergenza COVID la regolamentazione del processo da remoto ha subìto una forte impennata anche in Italia e si deve ritenere che le principali disposizioni, ormai di uso comune, continueranno ad essere usate anche dopo la fine dell’emergenza. Contemporaneamente la normativa sul processo da remoto ha determinato una forte accelerazione anche con riguardo alla disciplina dell’arbitrato on line che è stato introdotto pure dalla Camera Arbitrale di Cagliari – Oristano con il nuovo Regolamento in corso di approvazione.

Solo un accenno si può fare all’arbitrato nelle controversie di lavoro che sostanzialmente esula dalle finalità del presente Seminario.

Inizialmente, la conciliazione avveniva dietro istanza volontaria di entrambe le parti, solamente per i licenziamenti, e il rifiuto della proposta poteva produrre effetti ai fini della decisione. Con la legittimazione delle clausole compromissorie e dell’obbligo di devolvere le controversie ad arbitri e la composizione dei collegi arbitrali nelle direzioni provinciali del lavoro gestite dal ministero competente, si è però superato il vincolo costituzionale che riservava il compito di applicare le leggi a una magistratura indipendente dall’esecutivo, sostituendola con una nuova struttura controllata dal Governo.

Con le modifiche introdotte dalla legge n. 183 del 2010 (cosiddetto “Collegato Lavoro”), il lavoratore ha poi avuto anche la possibilità di decidere, non prima della conclusione del periodo di prova, ove previsto, oppure a partire da 30 giorni dalla data di stipulazione del contratto, se ricorrere all’arbitrato preventivamente e non più solo all’insorgere di una controversia. In caso di lite nel corso del rapporto di lavoro, pertanto, il prestatore ha la facoltà di scegliere se affidare la decisione della controversia ad arbitri, ossia soggetti terzi che non appartengono all’ordine giudiziario, oppure ad un giudice, organo investito del potere giurisdizionale. Tali modifiche non incidono sul licenziamento, la cui impugnazione rimane, per contro, di competenza del giudice ordinario e dovrà essere proposta entro 60 giorni dalla ricezione della comunicazione del recesso da parte dell’azienda (o dalla comunicazione dei motivi se non contestuali) (art. 6 L. 604/1966). Il “Collegato Lavoro”, inoltre, estende anche alle controversie di lavoro nel settore pubblico gli artt. 410, 411, 412, 412 ter e quater del c.p.c., con la contestuale abrogazione degli articoli 65 e 66 del d.lgs. 3 marzo 2001 n. 165.

Con la legge di delega di riforma del cpc del 2021 l’obiettivo dichiarato del Governo è quello di giungere all’emanazione di un testo unico in materia di procedure stragiudiziali di risoluzione delle controversie con la finalità di favorirle attraverso l’aumento degli incentivi fiscali, estendendo a tali istituti l’applicabilità del gratuito patrocinio, ampliando l’ambito delle controversie per le quali il previo tentativo di mediazione è condizione di procedibilità, favorendo la partecipazione delle parti, anche con modalità telematiche, disciplinando le attività di istruzione stragiudiziale ed infine potenziando la formazione e l’aggiornamento dei mediatori e la conoscenza di questi strumenti presso i giudici.

Con specifico riferimento alla riforma delle procedure di negoziazione assistita e all’ambito dei rapporti di lavoro si prevede che il Governo debba consentire la negoziazione assistita anche per le controversie individuali di lavoro senza che la stessa costituisca una condizione di procedibilità. In tali casi, le parti dovranno essere assistite dal proprio avvocato e, ove lo ritengano, anche dai consulenti del lavoro.

I decreti delegati dovranno peraltro assicurare all’accordo il regime di stabilità protetta previsto dall’art. 2113, quarto comma, del codice civile, secondo il quale non sono dichiarate invalide le rinunzie e le transazioni effettuate in sede di negoziazione assistita relative a diritti indisponibili del lavoratore. La norma di delega fa salve le ulteriori modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva (ex art. 412-ter c.p.c.): la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita è quindi prevista in aggiunta alla risoluzione stragiudiziale.

7. Le linee di tendenza future in materia di arbitrato.

I dati della Camera Arbitrale di Milano, senza dubbio la più importante d’Italia, parlano di una tendenza all’aumento – non travolgente, ma neppure insignificante – del numero degli arbitrati aperti di anno in anno: stabile intorno al centinaio nella prima parte degli anni 2000 (95 nel 2003, 105 nel 2004, 99 nel 2005, 102 nel 2006, 99 nel 2007), questo numero prende a salire nel 2008 (118 nuovi arbitrati) per poi accentuare notevolmente il suo trend di crescita (153 nel 2009, 129 nel 2010, 130 nel 2011, 138 nel 2012) e così via.

Sul piano normativo non può dirsi lo stesso quanto alle scelte del legislatore nel quale non si legge un atteggiamento di favore verso l’arbitrato se non con affermazioni generiche non seguite peraltro da apposite disposizioni concrete che potrebbero agevolare la sua diffusione così da porre l’Italia al passo quanto meno con gli altri paesi europei.

La riforma del 2006 (Dlgs n. 20/2006) aveva senza dubbio rinvigorito il meccanismo arbitrale ampliando l’area della sua possibile operatività e garantendo una maggiore forza e stabilità dei suoi risultati. È vero che in un settore specifico ma molto rilevante, come quello delle controversie di cui sia parte una pubblica amministrazione, negli anni passati si sono registrate, per una certa fase, tendenze limitative o addirittura preclusive del ricorso alla giustizia arbitrale, ma le tendenze sono ben presto rientrate, in pro del riconoscimento di una generale praticabilità dell’arbitrato anche in quell’ambito.

Un segno ancora più forte era venuto dal decreto legge n. 132/2014, convertito nella legge n. 162/2014, con la previsione di una generalizzata possibilità di translatio dei processi pendenti dai giudici ordinari, originariamente aditi, ad arbitri. È chiaro che il senso del provvedimento va ravvisato non tanto in una qualche ritenuta superiorità della giustizia arbitrale su quella togata, quanto – per chiara indicazione del suo stesso titolo: «Misure urgenti… per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile»- nell’ennesimo disperato escamotage con cui si ipotizza di decongestionare i ruoli della giustizia ordinaria. E tuttavia la norma (quale ne sia la ratio congiunturale, quali ne siano le prospettive di reale successo) parrebbe suonare come valorizzazione e incentivazione dell’arbitrato come sede privilegiata di risoluzione delle controversie civili.

Quanto alla attualità, mancano nella legge di delega del 2021 disposizioni di facilitazione di carattere fiscale per l’arbitrato, che, in Italia, hanno importanza decisiva nelle scelte da parte delle imprese, poiché l’impresa italiana è assai attenta all’aspetto fiscale, se non altro in quanto in Italia il carico fiscale è fra i più alti in Europa. Per questo una buona parte di una giornata di studio del presente Seminario è dedicata agli aspetti fiscali dell’arbitrato, nella speranza che per quella data i decreti delegati avranno visto la luce con disposizioni concrete di favore per l’arbitrato.

A fronte di disposizioni assai incisive, anche se a mio avviso non risolutive, sul fronte della giustizia civile, specie di ordine organizzativo e non soltanto processualistico, sul tema della giustizia arbitrale la legge di delega del 2021 contiene minimi aggiustamenti, ad esempio attraverso il dimezzamento del termine lungo per l’impugnazione del lodo onde adeguarlo al termine di impugnazione della sentenza ovvero prevedendo la ricusazione dell’arbitro “per gravi ragioni di convenienza” (principio, questo, ben poco adatto al costume italiano che potrebbe trarne motivo per allungamenti o critiche ingiustificati) o ancora reinserendo l’arbitrato societario nel codice di procedura civile, che appare questione di forma piuttosto che di sostanza.

Assai timido appare l’approccio della legge di delega in materia di tutela cautelare da parte degli arbitri confinata ai soli casi di “espressa volontà” compromissoria o successiva delle parti in tal senso, e salva diversa disposizione di legge.

Come è noto, l’assenza di poteri cautelari arbitrali ha isolato l’Italia nel panorama legislativo internazionale (insieme a Cina, Tailandia e ormai pochissimi altri ordinamenti) e, vista la crescente rilevanza della tutela cautelare nell’arbitrato internazionale, è generalmente considerata il principale ostacolo alla scelta dell’Italia come sede di arbitrati internazionali.

Circa la competenza ad assumere provvedimenti cautelari, la legge di delega mira a ribaltare la situazione attuale: da un lato, essa riconosce il potere degli arbitri, “salva diversa disposizione di legge” e a condizione dell’accordo delle parti in tal senso; dall’altro, essa esclude il potere dell’autorità giudiziaria di adottare misure cautelari in presenza di un accordo compromissorio a partire dall’accettazione del mandato da parte degli arbitri.

L’attribuzione del potere cautelare agli arbitri salva diversa disposizione di legge è l’esatto inverso della soluzione attuale: il testo vigente dell’art. 818 cod. proc. civ. esprime il divieto, ma lo rende appunto soggetto ad eventuale diversa previsione normativa. L’inciso “salva diversa disposizione di legge” era stato introdotto con la riforma del 2006 per tenere conto, non solo di possibili aperture settoriali (che ovviamente sarebbero state possibili senza necessità di espressa previsione), ma anche e soprattutto dell’eccezione già allora contenuta nell’art. 35, 5° comma, d.lgs. n. 5/2003, che, nell’arbitrato societario, se la convenzione arbitrale consente la devoluzione in arbitrato di controversie relative alla validità delle delibere assembleari, consente anche agli arbitri di disporre, con ordinanza non reclamabile, la sospensione dell’efficacia della stessa delibera. Nella nuova prospettiva, quindi, la diversa previsione di legge avrà l’effetto di escludere i poteri cautelari degli arbitri. L’inclusione dell’inciso nella legge delega non appare perciò del tutto congruo e sembra testimoniare una persistente sfiducia negli arbitri ai fini dell’assunzione di provvedimenti ritenuti particolarmente sensibili ed invasivi della sfera giuridica delle parti. Una volta superata tale sfiducia in termini generali, non si vede cosa potrebbe giustificare la limitazione o l’esclusione dei poteri cautelari arbitrali in particolari settori.

Menomazione ben più rilevante costituisce la condizione dell’espressa attribuzione dei poteri cautelari agli arbitri da parte dei compromittenti. Si tratta di un requisito perlopiù sconosciuto alle più evolute leggi straniere sull’arbitrato, che tendono a seguire il principio inverso: i poteri cautelari degli arbitri costituiscono la regola e l’espressa esclusione da parte dei compromittenti l’eccezione (v., per esempio, l’art. 183, 1° comma, della legge svizzera di diritto internazionale privato: “Sauf convention contraire, le tribunal arbitral peut ordonner des mesures provisionnelles ou des mesures conservatoires à la demande d’une partie”; in Inghilterra, l’espresso conferimento del potere cautelare degli arbitri è superfluo per importanti categorie di misure, quali security for costs, misure cautelari relative alla proprietà e all’assunzione e preservazione delle prove, rispetto alle quali il potere sussiste, salvo diverso accordo delle parti: v. sez. 39 dell’Arbitration Act 1996; sembra invece presupporre l’accordo delle parti per la pronuncia di qualsiasi provvedimento cautelare la legge egiziana: art. 24, 1° comma, della legge sull’arbitrato in materia civile e commerciale).

Maggiore attenzione verso l’arbitrato vi è stata invece in ambito europeo. Ha infatti scadenza il 5 luglio 2022, ad esempio, il bando per i contributi finanziari a organismi di risoluzione alternativa delle controversie a norma della direttiva ADR 2013/11/UE. La dotazione finanziaria complessiva, ricordiamo, è pari a un milione di euro. Lo scopo del bando è quello di facilitare l’accesso dei consumatori a enti di risoluzione alternativa delle controversie efficaci ed efficienti, a norma della direttiva ADR 2013/11/UE. Ma non solo, si intende agevolare la sensibilizzazione, la protezione dei consumatori vulnerabili, il networking degli enti nazionali di risoluzione alternativa delle controversie e questo a livello sia nazionale che europeo. Il tutto favorendo la cooperazione con gli organismi nazionali di applicazione, l’uso di strumenti digitali trasparenti e una buona governance. Grazie ad un quadro ADR dell’Unione Europea, infatti, si dovrebbero spingere i consumatori ad optare proprio per l’ADR. Questo in particolar modo quando si tratta di risolvere controversie di basso valore.

Come noto, la Convenzione di New York del 1958 sul riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze arbitrali straniere, nonché disposizioni di diritto internazionale privato comuni alla maggior parte degli Stati (per l’Italia, l’art. 4 della l. n. 218/1995), già oggi consentono agli operatori economici, anche con riguardo a controversie del tutto interne al loro Stato di origine, di scegliere su scala quasi planetaria sia l’ordinamento nel quale radicare il procedimento arbitrale – per mezzo della localizzazione della sede dell’arbitrato, che ha il duplice effetto di attribuire alle corti dello Stato della sede competenza (presumibilmente esclusiva: cfr. M.V. Benedettelli, Harmonization and Pluralism in the New York Convention: Balancing Party Autonomy and State Sovereignty, in Benicke, S. Huber (a cura di) National, International, Transnational: Harmonischer Dreiklang im Recht. Festschrift für Herbert Kronke, Bielefeld, 2020, p. 1329 ss., a p. 1339) con riguardo al controllo della validità del lodo e ad altre funzioni di supporto della procedura, e di assoggettare il procedimento arbitrale alla legge che in tale Stato regola l’arbitrato – sia gli ordinamenti (potenzialmente diversi) nei quali dare esecuzione al lodo. Tale scelta ha luogo (o dovrebbe aver luogo, ove gli operatori economici, e i loro consulenti legali, agissero razionalmente) in una logica da forum e law shopping, comparando cioè la “qualità” delle diverse istituzioni e leggi statali chiamate a dare garanzia ed effettività al negozio compromissorio e alle decisioni pronunziate sul suo fondamento.

Gli Stati possono avere un proprio interesse a “competere” attivamente su tale “mercato” nella misura in cui l’arbitrato può divenire una vera e propria “industria” generatrice di reddito, come dimostra l’esperienza delle principali piazze della giustizia arbitrale (Londra, Parigi, Ginevra, New York, Singapore) in cui ogni anno migliaia di professionisti rendono servizi (quali arbitri, difensori, esperti, funzionari di camere arbitrali) per la soluzione di controversie spesso prive di qualsivoglia connessione con lo Stato in cui operano, salva, appunto, la localizzazione della sede dell’arbitrato o di procedimenti giudiziali ad esso connessi. Non ci sono ragioni per le quali l’Italia non possa aspirare a divenire anch’essa una delle sedi d’arbitrato preferite dal commercio internazionale, considerata la reputazione di cui godono i suoi giuristi, alcuni dei quali sono membri riconosciuti della comunità dell’arbitrato internazionale, la sofisticazione del proprio diritto dell’arbitrato quale interpretato da un’ampia e articolata giurisprudenza, e la collocazione geo-politica del nostro Stato che potrebbe attrarre arbitrati coinvolgenti operatori dell’area mediterranea per ragioni sia di “neutralità” che di “vicinanza” ed “efficienza”.

Anche quando non intenda partecipare attivamente alla “concorrenza tra ordinamenti” proponendosi come hub per arbitrati internazionali, uno Stato può nondimeno avere un diverso (e più concreto) interesse a favorire la scelta delle parti di localizzare la sede dell’arbitrato al suo interno: se il rapporto litigioso coinvolge propri operatori economici, perché per un’impresa è ovviamente più agevole ed efficiente ricorrere all’arbitrato domestico piuttosto che all’arbitrato straniero; o comunque se la lite risulta altrimenti connessa con la sua comunità nazionale, in quanto nell’ambito di un arbitrato domestico le corti godranno di maggiori poteri per controllare che procedimento e lodo non confliggano con norme e principi imperativi che lo Stato può volere siano protetti anche nel contesto di controversie transfrontaliere. Che questa esigenza sia avvertita anche dal legislatore italiano è d’altronde dimostrato dalla inderogabilità attribuita a varie disposizioni della disciplina speciale dell’arbitrato societario e dai rischi che la loro efficacia possa essere compromessa quando la sede di un arbitrato interessante una società di diritto italiano venga posta all’estero.

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