di Roberto Tanisi

Proseguendo nella disamina del libro di Bruno Cavallone, dopo aver considerato, nel precedente articolo, la “notificazione” e il “morbo del processo”, soffermerò ora la mia attenzione su ulteriori due aspetti affrontati nell’opera: il rapporto fra il tempo e il processo e la decisione e talune eccentricità nel decidere.

Tempo e processo

Cos’è il tempo? “L’intuizione e la rappresentazione della modalità secondo la quale i singoli eventi si susseguono e sono in rapporto l’uno con l’altro”, è la definizione che si rinviene nel vocabolario Treccani. Una definizione non del tutto appagante, se è vero (come è vero) che attorno a questa categoria e ai suoi molteplici significati, si è addensata, nel corso dei secoli, una densa coltre di fumo, talvolta ricca di luoghi comuni e di ovvietà, che l’uomo ha provato a diradare, probabilmente senza riuscirci.

Forse non a caso Sant’Agostino, su cosa sia il tempo, risponde: “Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”, peraltro dubitando che lo stesso possa davvero esistere. Afferma, infatti, il Santo di Ippona: “Se dunque il presente, per essere tempo, deve diventare passato, come possiamo dire di lui che esiste, se l’unica ragione del suo esistere è che non esisterà, non potendo cioè realmente dire che il tempo esiste se non in quanto tende a non esistere”. Una risposta che è quasi un rompicapo, rispetto alla quale, molto più vicina al comune sentire mi pare l’affermazione di Henry Jakson van Dyke: “Troppo lento per chi aspetta; troppo veloce per chi teme; troppo lungo per chi si affligge; troppo breve per chi gioisce”.

Ma, reminiscenze filosofiche a parte (l’analisi sarebbe troppo lunga), il tempo, comunque lo si voglia considerare, ha grande influenza sul diritto e sul processo, fermo restando che anche qui, lungi dal rivestire carattere di assolutezza, esso resta destinato a valutazioni molto soggettive. Per dire: il creditore che attende di essere pagato considererà sempre troppo lunga l’attesa per la decisione, mentre per il debitore essa sarà breve; per il giudice che, in camera di consiglio, è chiamato a decidere un processo complicato il tempo scorre velocissimo, ma per chi attende la decisione sarà interminabile.

Con riferimento, poi, all’amministrazione della Giustizia, in Italia, si afferma comunemente che essa è estremamente lenta e, talvolta, colpevolmente lenta. Affermazione nella quale c’è del vero se il Legislatore, nel 1999, ha ritenuto di modificare l’art. 111 della Costituzione, introducendo nella nostra Carta fondamentale il principio della “ragionevole durata del processo”.

Una decisione che giunga, infatti, troppo tardi sarà considerata sempre “ingiusta”, e, tuttavia, per altro verso, neppure la rapidità del decidere può essere ritenuta necessariamente un valore: nonostante oggi si ripeta sempre, quasi come un mantra, che la giustizia deve essere più efficiente e veloce, tanto che il Ministro Bonafede, nell’atto di indirizzo politico per il 2020, ha ipotizzato una “drastica riduzione” o, addirittura, un “dimezzamento” dei tempi dei processi. Mi chiedo su cosa il Ministro fondi questa ottimistica previsione e come ciò possa accadere a condizioni di partenza – magistrati, personale, strutture – invariate. Il rischio è che a privilegiare la velocità, venga a risentirne proprio la … giustizia. “Se la gatta frettolosa fa i gattini ciechi, il giudice frettoloso fa giustizia sommaria” – ha scritto giorni fa un noto magistrato su un quotidiano.

Peraltro mette conto di rilevare come, almeno apparentemente, la durata del processo abbia una diversa incidenza nel processo penale rispetto al processo civile, posto che in quest’ultimo la durata è, almeno tendenzialmente, neutralizzata dal principio di retroattività della decisione al momento della domanda, con quanto ne consegue in materia di frutti, interessi, rivalutazione, ecc. Molto spesso, tuttavia, tale affermazione è puramente illusoria, dal momento che in tempi come quelli attuali, sempre più governati dalla celerità, in cui il lavoro, l’imprenditoria, gli affari richiedono un efficientismo esasperato (efficacemente espresso dal sintagma inglese just in time), il tempestivo soddisfacimento di un’obbligazione, scevro da lungaggini processuali, si lasci largamente preferire, perché  “plus dat, qui cito dat”, come avevano ben compreso gli antichi romani.

All’interno del rito processuale, poi, il calendario del processo risulta condizionato dai termini: dilatori, per cose che possono essere fatte solo da una certa data in poi, e perentori od ordinatori, per cose che debbono essere fatte entro una certa data (con conseguenze diverse a seconda del tipo). Non è raro il caso in cui i termini vengano sospesi, o per espressa previsione codicistica, ovvero per fatto eccezionale, come accade in questi giorni a causa dell’emergenza da Covid-19, che ha comportato una pressoché generalizzata sospensione dei processi, stante l’impraticabilità dei Tribunali a causa dell’obbligato distanziamento sociale necessario per combattere l’epidemia (che risulterebbe frustrato se solo si pensi all’angustia degli ambienti giudiziari nella loro quasi totalità).

Per non dire, infine, di come il tempo incida, attraverso la prescrizione, sul diritto penale e, di riflesso, sulla vita stessa dei cittadini. Non è questa la sede per affrontare un problema così delicato e complesso come quello della prescrizione dei reati, ma certo il sistema italiano, peraltro più volte riformato (in pejus), se riguardato nel contesto europeo, costituisce una grave anomalia, alla quale occorre porre rimedio, superando le posizioni aprioristiche su cui avvocati, magistrati e politici da tempo si confrontano senza giungere ad una conclusione condivisa (nell’interesse dei cittadini).

Ma se il tempo è il “denaro della nostra vita” (così Carl Sandburg) e se è ovvio che esso necessariamente incide anche  sulla giustizia e sui processi, altrettanto ovvio è che su come ciò sia accaduto ed accada sia possibile avere qualche riscontro anche nella storia e nella letteratura.

Del tempo e dei protagonisti del processo.

In un racconto di Goethe, ripreso da Bruno Cavallone nel suo La borsa di miss Flyte, viene descritta un’udienza civile nella Repubblica di Venezia, all’interno del Palazzo ducale. Si trattava di un’udienza, non particolarmente importante, dedicata alla lettura degli atti, in cui lo scorrere del tempo era governato da una clessidra. Scrive, infatti Goethe: “Finché il cancelliere legge, il tempo non si calcola, ma se l’avvocato parla, gli si concede un certo tempo” (il che fa ragionevolmente ritenere che la logorrea di certi avvocati non è cosa di oggi). “Il cancelliere legge, la clessidra giace, e l’omino ci tiene la mano sopra. Ma appena l’avvocato apre la bocca – scrive Goethe – la clessidra si raddrizza, per ricadere di nuovo quando egli tace”. Da qui la necessità, per l’avvocato, di intervenire con osservazioni “repentine” e soprattutto calzanti.

Era, infatti, regola processuale, in quegli anni a Venezia, di assegnare agli avvocati, in vista dell’arringa finale, delle clessidre della durata di venti minuti per i primi due chiamati a parlare, di quindici per il terzo e di soli dieci minuti per il quarto avvocato; il che ci fa capire diverse cose e, in particolare, che, essendo le posizioni processuali diversificate, per quelle più complesse era concesso un maggior lasso di tempo e, soprattutto, il privilegio di affrontarle per prime, quando l’attenzione dell’ascoltatore è  massima, mentre tutte le altre venivano postergate ed il tempo accordato era proporzionalmente ridotto perché, com’è noto, con l’andare del tempo, l’attenzione dell’ascoltatore tende inevitabilmente e scemare.

Di ciò era pienamente consapevole Piero Calamandrei  che, nel suo famoso Elogio dei giudici scritto da un avvocato, auspica sia eliminata “dal costume forense quella tendenza al <<bel canto>> che ha screditato presso i giudici l’oralità” ed invita i giovani avvocati, quale esercizio di retorica, a discutere un complesso processo civile (ma il discorso vale anche – e forse più – per il penale) dapprima in un’ora, poi in mezz’ora, infine in quindici minuti, considerati come durata ottimale.

Del resto, la contingentazione dei tempi per gli avvocati e i retori è cosa remota, risalendo già all’antica Grecia e a Roma, ove si faceva ricorso all’uso di clessidre ad acqua, che venivano assegnate all’oratore in base alla complessità del processo (anche se non mancava chi cercava di frodare, o aggiungendo della cera al pertugio d’uscita dell’acqua o rendendo quest’ultima più densa, così da rallentarne il gocciolio).

Tuttavia, anche con questo sistema, c’era chi esagerava, facendosi assegnare un numero eccessivo di clessidre, come ci ricorda in un epigramma il poeta Marziale, il quale racconta di un avvocato, di nome Ceciliano, che si era fatto assegnare ben sette clessidre e nel corso della sua poderosa arringa, si dissetava in continuazione bevendo acqua da certe ampolle di vetro. La sua arringa, però, oltre che poderosa doveva essere ben noiosa, se Marziale, ad un certo punto, gli suggerisce di bere anche dalla clessidra (“Jam de clepsydra, Cecilianae, bibas”), così da accorciare quello che doveva essere un vero e proprio supplizio.

Peraltro, il problema della eccessiva lunghezza di talune arringhe difensive si trascina insoluto sino ai giorni nostri. Ricordo, anni fa, in Corte d’Appello, un illustre avvocato che, dopo aver redatto un appello di circa duecento pagine ed aver depositato una memoria difensiva anche più lunga, con la sua arringa intrattenne la Corte per due udienze consecutive. Ora, se è vero che l’art. 24 della Costituzione garantisce la pienezza del diritto di difesa, non è men vero che il ricorso a scritti difensivi eccessivamente lunghi o a interminabili arringhe difensive, lungi dal giovare al cliente, costituisca un abuso di tale diritto ed imponga l’imposizione di limiti, così come facevano i giudici veneziani del tempo di Goethe che, all’avvocato prolisso che chiedeva più clessidre e più tempo, rispondevano “no ghe più sabbion”.

Prassi – quella di fissare tempi contingentati alla discussione – che è stata recentemente adottata dalla Cassazione e che, con la Presidenza Canzio, è stata estesa anche agli scritti processuali (di avvocati e giudici) attraverso una circolare, nella quale si raccomanda di rifuggire dall’eccesso di verbosità e concentrare in limiti ragionevoli le argomentazioni giuridiche decisive per la soluzione della controversia.

Non a caso, nell’aula delle Sezioni Unite del “Palazzaccio” di Piazza Cavour, figura la frase latina: “Veritas nimium altercando amittitur” (“La verità si perde discutendo troppo”).

Ma proprio per questo, il mio tempo è finito e allora della decisione e di talune eccentricità scriverò in altro momento.   

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