di Roberto Tanisi

Vivere meglio il presente.

In questi giorni di ozi forzati e segregazione casalinga, leggere e ascoltare musica sono, forse, le occasioni migliori per ingannare il tempo. La vita che fino a qualche giorno fa scorreva frenetica, fra appuntamenti, incontri, udienze, provvedimenti da scrivere, affari familiari da assolvere, d’improvviso sembra essersi arrestata e ci pare, quasi, di vivere alla moviola. E nel nostro forzato quasi far nulla, ci capita talvolta di riflettere sul senso dell’esistenza, su ciò che siamo stati e, soprattutto su ciò che saremo, quando questa drammatica emergenza sarà finita.

Leggendo, mi sono imbattuto, fra l’altro, nel  seguente pensiero di Pascal: “Consenti a ogni uomo di considerare i propri pensieri e scoprirà che sono sempre rivolti al passato o al futuro. Ben di rado pensiamo al presente: o, se lo facciamo, è soltanto per prendere a prestito la luce che ci offre per illuminare il futuro. Il presente non è mai l’oggetto; ci serviamo del passato e del presente come mezzi; soltanto il futuro è il nostro fine. Quindi, non viviamo mai. Ci limitiamo a sperare di vivere!

È una riflessione quanto mai calzante se riferita a tempi, per così dire, normali. Ma oggi, in tempi certamente straordinari, siamo necessariamente costretti a pensare e vivere il presente, goccia a goccia, angosciati dalla paura per ciò che sarà, in una difficile guerra contro un nemico subdolo e invisibile che ci auguriamo di poter vincere, senza tuttavia sapere né come né quando.

Ecco allora che ascoltare musica o leggere un libro vale a distoglierci dai brutti pensieri e a restituirci un minimo di serenità, a renderci curiosi e vogliosi di ulteriori conoscenze. Un modo di vivere meglio il presente e sperare che il futuro, magari prossimo, ci liberi dall’incubo.

Così, per riempire le mie giornate di forzata segregazione, ho iniziato a leggere un libro che avevo acquistato tempo fa e che mi aveva incuriosito per il titolo e, ancor più, per il sottotitolo: “La borsa di miss Flite – Storie e immagini del processo”. L’autore è Bruno Cavallone, insigne avvocato e giurista, docente di diritto processuale civile prima all’Università di Parma poi in quella di Milano. Qualche anno fa, in una intervista a Repubblica, ebbe a dichiarare: “Vincere o perdere una causa non è altro che fare letteratura”. Un pensiero a dir poco singolare che però, leggendo il libro, trova agevolmente una sua spiegazione, perché in una materia oggettivamente arida come il contenzioso civile, Cavallone ci ha messo dentro – meglio, ci ha scovato – grande letteratura.

Gli autori dentro il processo.

Autori come Durenmatt, Carroll, Kafka, Dickens, Shakespeare, Rabelais li scopriamo dentro il processo, mentre ne evidenziano la più intima essenza, ponendo in luce talune criticità e inducendoci a riflettere sulla difficoltà stessa del rendere giustizia, oltre che sulle sue tante disfunzioni; non, però, con l’aridità di un’analisi statistica o di una relazione ministeriale, quanto con la grandezza delle loro opere.

Ma cos’è “La borsa di miss Flite”? È la borsa di una vecchietta, Miss Flite appunto, che nel romanzo Bleak House di Dickens, frequenta quotidianamente la Court of Chancery (un Tribunale inglese che decideva i giudizi civili secondo equità, esistito parallelamente alle Corti di Common law – che giudicavano invece secondo diritto – e che fu sciolta nel 1875: n.d.r.), trascinandosi dietro una capiente borsa in cui contiene le sue “carte”, i documenti “necessari” per vincere la causa che, nel suo immaginario, dovrebbe restituirle tutto il suo patrimonio, perduto a seguito di remote vicende giudiziarie.

Prendendo a pretesto quelle carte, l’autore compie un’operazione da vero e proprio inquisitore letterario, analizzando il processo, soprattutto il processo civile, proprio nelle implicazioni giurisdizionali delle tantissime opere letterarie e iconografiche esaminate, consegnandoci, così, personaggi, immagini, situazioni di perenne attualità e che non di rado scorrono dinanzi ai nostri occhi nei processi che quotidianamente celebriamo. Una variante originale e sofisticata del rapporto fra diritto (o giustizia) e letteratura.

Del processo contemporaneo non troppo diverso quello del passato.

Scorrendo le pagine del libro, ci accorgiamo che tante delle problematiche attuali, che da sempre ci angustiano e delle quali non riusciamo a venire a capo, già esistevano, quasi immutate nei secoli passati: dalla difficoltà di notificare un atto alla temerarietà delle liti, dalla pericolosa contagiosità di certi processi alla loro eccessiva durata, da una certa tendenza degli avvocati a guadagnar tempo, magari indugiando nell’ars retorica, tanto inutile quanto più ampollosa, alla eccentricità di talune decisioni giudiziarie: il tutto condito da scrittura gradevole, venata di una pacata ironia ed autoironia e sorretta da una formidabile conoscenza dei tantissimi testi esaminati (le ricchissime note aiutano il lettore a districarsi meglio nel ginepraio delle citazioni).

A tutto ciò si aggiungano 50 tavole iconografiche che, oltre alle pagine letterarie, illustrano visivamente il lungo e intricato percorso dentro il cuore del processo (e del rendere giustizia).

“Le mie indagini – scrive Cavallone – riguardano il processo, che è per definizione il luogo dove il diritto <<si dice>> (iurisdictio) e in qualche misura <<si fa>>; e analizzano fonti letterarie, folkloriche, figurative. Ma in realtà queste indagini considerano il processo come fenomeno psicologico, esistenziale e antropologico-culturale prima che istituzionale e giuridico. Dunque non si rivolgono specificamente ai giuristi, bensì in generale a chi sia interessato a riflettere sulla propensione di ogni collettività organizzata a risolvere i conflitti tra i consociati”.

Un nuovo angolo visuale, una strada nuova, forse più agevole di certo più piacevole, per penetrare quello che Salvatore Satta definì “Il mistero del processo”.

Non potendo esaminare tutti gli aspetti del libro, mi limito solo a tracciarne alcuni, limitando, se mai, ad una successiva pubblicazione altri non meno interessanti aspetti.

Delle origini del processo: la notificazione è un tocco!

Il primo “quadro” riguarda la notificazione.

Il processo, com’è noto, è costituito da un insieme di atti consecutivi, legati fra loro da un nesso funzionale, costruito in vista di una decisione che lo definisca.

Secondo la definizione di Bulgaro (glossatore della scuola di Bologna, vissuto a cavallo fra il 1000 e il 1100: n.d.r.), riferita al processo civile, “processus est actus trium personarum, actoris, rei, iudicis”. Una definizione che pone l’accento sulla centralità del rapporto processuale e mette già in risalto il carattere di contesa, di “lotta” che gli è proprio: lotta fra attore e convenuto, ma anche lotta di entrambi contro il giudice, che ciascuno dei contendenti mira a portare dalla propria parte. Un giudice, tuttavia, che deve essere sapiente, imparziale, incorruttibile (ma che Anatole France – il quale probabilmente non aveva molto in simpatia i giudici – afferma di aver visto solo in qualche raro dipinto).

Se dunque il processo è un iter procedimentale, sequenza di atti, esso deve necessariamente avere una origine e una fine: l’origine è costituita dalla notificazione, ossia dall’atto che rende note all’altro le pretese dell’attore (letteralmente: colui che agisce, ossia il soggetto che inizia la causa: espressione particolarmente sgradita a Montanelli, per la facile confusione con l’attore… “che recita”) e vale a costituire il contraddittorio; la fine, invece, è costituita dalla decisione del giudice, di solito una sentenza.

Già da questa semplicistica definizione emerge, in tutta la sua importanza, il ruolo della notificazione, perché se questa non è correttamente eseguita, il suo vizio potrà rendere nullo o invalido tutto il processo.

Leggendo l’art. 138 del codice di procedura civile vi si trova descritta quella che potremmo definire “regina delle notificazioni”, ossia la notificazione “a mani proprie del destinatario” (l’art. 157, 1° comma del cod. proc. pen., meno icasticamente, si limita a prevedere che “la prima notificazione sia eseguita mediante consegna di copia alla persona”), la sola che, con assoluta certezza, dimostra che l’atto di rendere noto il contenuto della pretesa azionata in giudizio ha raggiunto il suo scopo (tanto da poter essere effettuata ovunque il destinatario si trovi). Purtroppo tale forma di notificazione, se non è rara avis poco ci manca: per le difficoltà dell’Ufficiale giudiziario a reperire il destinatario, per gli accorgimenti talvolta messi in opera da quest’ultimo per non farsi trovare, a causa della cronica penuria di personale addetto a tale compito, e così via. Vi sono perciò altre forme di notifica le quali, tuttavia, non possono fornire la stessa garanzia di quella “a mani proprie” del destinatario. Il che si traduce, necessariamente, in difficoltà e ritardi nella celebrazione del processo. È ben per questo, per esempio, che il governo, in questa fase emergenziale dovuta all’epidemia da coronavirus, fra le tante misure adottate in materia di giustizia, con l’ultimo D.L. (n. 18 del 17.3.20) ha optato per una soluzione assolutamente semplificatoria, stabilendo che le notifiche dei rinvii delle udienze, non potute celebrare per l’epidemia in corso, in deroga a quanto previsto dai codici, siano effettuate, anche per le parti, non già direttamente a queste ultime, ma in modalità telematica presso gli studi dei loro difensori di fiducia.

La notifica dell’atto introduttivo del giudizio, correttamente effettuata (specie se “a mani”), è, dunque, come un “tocco magico” che dà concretezza alla contesa processuale fra i litiganti. Ed un vero e proprio “tocco”, fisico, essa era in anni ormai lontani.

Già nell’antica Roma il “vocante in ius”, dopo aver verbalmente invitato il “reus” a seguirlo, in caso di rifiuto lo toccava fisicamente, perché si ritenesse contestata la lite, e in caso di fuga, poteva addirittura arrestarlo o farlo arrestare.

Ma ancora nel ‘600 e ‘700 la notifica avveniva mediante un tocco. A farlo non era più direttamente la parte attrice, ma un messo investito di pubblici poteri il quale si avvaleva del c.d. “baton judiciaire”, un vero e proprio bastone col quale toccava fisicamente il notificando o, in alternativa, il suo uscio di casa. Col tocco la lite poteva ritenersi contestata. E questo valeva tanto per il processo civile che per quello penale. Nell’iconografia tradizionale, costituta da quadri e stampe d’epoca, il messo notificante indossava abiti sfarzosi e teneva ben evidente in mano il baton judiciaire, simbolo del suo potere e della potenziale sottomissione dell’altro. Ma, anche allora, non sempre tutto filava liscio perché, soprattutto se la notifica riguardava la materia penale, la reazione del notificando poteva essere anche molto violenta e il baton judiciaire finiva talvolta con l’essere rotto sulla testa del malcapitato messo notificatore.

Peraltro, delle difficoltà delle notifiche v’è traccia anche in letteratura (oltre che nel cinema, soprattutto quello americano).

In particolare, a proposito delle scomposte reazioni del notificando, merita di essere ricordato l’episodio descritto nel Roman de Renart (un insieme di racconti satirici che hanno per protagonisti gli animali, scritti fra il XII e il XIII secolo). Vi si narra, in particolare, del Leone che, regnando sulla Corte, aveva necessità di citare a comparire davanti al Tribunale la volpe Renart: un’operazione, tuttavia, non semplice, nonostante la potenza del Leone, a causa delle molteplici furbizie frapposte dalla volpe, per cui occorreranno diversi vani tentativi, prima che la traduzione del furbo Renart abbia luogo. Infatti, maliziosamente, dapprima la volpe trae in inganno il primo messo, l’Orso Brun, facendolo finire incastrato in un albero ove aveva nascosto del miele; poi tocca al  gatto Tibert, fatto entrare furtivamente in una casa piena di topi, dove finirà incastrato in un trappola. Solo dopo queste due fallimenti, il tasso Grimbert, profittando del fatto di essere cugino di Renart (e, così, tradendone la fiducia), munito (manco a dirlo) del baton judiciaire, riesce finalmente a portare la volpe dinanzi alla Corte che, dopo averla condannata a morte per impiccagione, le concede subito la grazia, a condizione di un viaggio di espiazione in terra santa (che, peraltro, Renart si guarderà bene dall’intraprendere).

Da ultimo, nel Quart livre di Rabelais i maltrattamenti dei notificatori sono talmente consuetudinari da poter essere considerati, in un certo senso, istituzionalizzati. La qualcosa, paradossalmente, non doveva dispiacere tanto neppure agli stessi ufficiali notificatori, in quanto oltre alla paga corrisposta dal loro mandante, finivano, in tal modo, col percepire anche un lauto risarcimento a causa dell’aggressione subita. Forse è per questo che, ancora oggi, nella retribuzione degli Ufficiali Giudiziari sono compresi dei surplus economici, quasi a memoria delle antiche indennità di rischio.

Insomma, tutto questo per dire come, anche nei testi classici, sia possibile cogliere le tante difficoltà storicamente frapposte alla celebrazione del processo il quale, già dal suo sorgere, si presenta come una sorta di gara ad ostacoli.

D’altro canto, se pensiamo alle notifiche attuali, soprattutto nella materia penale, il discorso non cambia di molto. Forse non ci saranno più le aggressioni all’Ufficiale giudiziario (anche se qualche eccezione purtroppo si registra ancora), ma raggiungere correttamente il destinatario della notifica costituisce, ancora oggi, in tempi di processo telematico imperante, impresa se non ardua, certamente non semplice. Tanto che da più parti si invoca una modifica dell’attuale normativa, che passi da una maggiore responsabilizzazione e collaborazione da parte dell’avvocatura. La quale, per parte sua, non del tutto impropriamente, fa orecchio di mercante.

Del pericoloso “morbo” del processo.

Il secondo “quadro” prova a descrivere una particolare categoria di utenti della giustizia: coloro che si ammalano del pericoloso “morbo” del processo (come dire che di processi si può anche morire).

“La legge e diritti [sono] un’eterna malattia, di generazione in generazione”. È una frase sibillina, di non facile intellegibilità, che Goethe mette in bocca a Mefistofele nel suo Faust.

Non è facile coglierne il significato. La prima considerazione che mi viene di fare è  legata alla natura del personaggio che la pronuncia. Mefistofele, lo spirito del male che nega persino la nascita e la vita, un essere dunque totalmente negativo, dal suo punto di vista, non può che porsi contro, essere agli antipodi di ciò che sono la legge e i diritti: qualcosa di positivo ed essenziale per l’esistenza stessa della società e per la vita dell’uomo. Oppure – altra ipotesi – in un’epoca in cui, grazie all’illuminismo, cominciava a maturare la crisi del giusnaturalismo, con la frase sopra citata Goethe, intendeva forse distinguere il diritto naturale dal diritto positivo, indirizzando contro quest’ultimo la sua esecrazione.

 Ma, a parte ciò – scrive Bruno Cavallone nel suo “La borsa di miss Flite” – l’espressione “eterna malattia”, più che alla legge, sembra si addica ancor meglio al processo.

Già si è visto come nel romanzo di Dickens “Bleak House”, un personaggio simbolico e quanto mai importante sia miss Flite, quotidianamente presente presso la Court of Chancery nella speranza di poter finalmente “vincere la causa” grazie alle “carte” contenute nella sua borsa e ritornare in possesso dei beni perduti in pregresse vicende giudiziarie. Miss Flite è un simbolo, il simbolo di coloro – e sono tanti, anche oggi – che vedono nel processo la sola soluzione alle ingiustizie di cui, a torto o a ragione, assumono di essere stati vittima. Non è la sola, nel romanzo di Dickens, ad aver contratto il “morbo del processo”. Senza scendere nei dettagli della trama, basti dire che anche il protagonista del romanzo, Richard Carstone, si trova coinvolto in un complicato giudizio ereditario dinanzi allo stesso Tribunale e resta, dunque, contagiato da quel medesimo morbo: presenzia a tutte le udienze, sperando vanamente che arrivi la svolta decisiva e veda riconosciute le sue ragioni, ma poi si disillude per l’ennesimo rinvio; frequenta quotidianamente le Cancellerie, chiedendo copia di questo o quel documento; si confronta con altri “malati” della stessa malattia (come Miss Flite), maledicendo giudici e funzionari; allontana da sé quanti, come John Jarndyce, vorrebbero farlo ragionare e indurlo a desistere da quel processo che, lentamente quanto inesorabilmente, lo sta depauperando. Ma niente, non c’è nulla che lo faccia ragionare. Paradossalmente, quanto più egli critica il sistema della giustizia inglese, tanto più ne è attratto, al punto da non poterne fare a meno e consumare così la sua esistenza dentro le stanze del Tribunale. Il virus del “morbo del processo” gli si è inoculato nelle carni ed egli vivrà solo nell’attesa del suo giudizio, verrebbe da dire nell’attesa del “Giorno del giudizio”, allorquando miseramente, ancora giovane, vedrà compiersi i suoi giorni senza aver ottenuto giustizia.

Una storia, quella raccontata da Dickens, per certi versi non dissimile da quella narrata da Kafka ne “Il Processo”. Del resto è noto che Kafka amasse Dickens, sicché non è da escludere che possa esserne stato influenzato.

La storia è piuttosto semplice. Una mattina due individui a lui sconosciuti, si presentano in casa di Joseph K. e lo dichiarano in arresto. K. Scopre così di essere sotto processo. Pensando ad un errore prova ad attivarsi, a dimostrare che si tratta di un dannato malinteso, ma poi si accerta di essere effettivamente imputato. Peraltro, senza conoscere mai pienamente il contenuto delle accuse che gli vengono mosse.

Probabilmente avrebbe anche la possibilità di sottrarsi al giudizio, ma anch’egli, in certo modo, finisce con l’esserne avviluppato, soggiogato, come se avesse contratto – lui pure – quel “morbo” già visto in Dickens (“Il pensiero del processo non lo abbandona più” si legge ad un certo punto): incapace di dedicarsi a qualsiasi altro impegno o lavoro, diventa vittima di una sindrome ossessiva da cui neppure il suo avvocato riesce a liberarlo (anzi, come tutti gli “ammalati” di processo, egli nutre grande sfiducia, oltre che nei giudici e nel sistema giustizia, verso il suo stesso difensore). E come Richard Carstone, termina malamente i suoi giorni, assassinato da due sicari, senza conoscere la fine (e l’esito) del processo (che per Kafka è già, di per sé, una sentenza: “La sentenza non viene a un tratto, è il processo che si trasforma poco a poco in sentenza”).

Qualcuno potrebbe pensare che queste brevi note vogliano essere solo un vacuo sfoggio di erudizione. Nulla di più sbagliato. Di Carstone o di Joseph K,, ossia di ammalati di processo, ce ne sono tanti anche nei nostri tribunali. Talvolta, per ragioni assolutamente banali (“È una questione di principio”, si sente dire), hanno dato vita – e danno vita – ad una miriade di giudizi, con enormi esborsi di denaro, in certi casi fino a disperdere intere fortune, senza riuscire, alla fine, a raggiungere pienamente lo scopo che li mosse. Perché, in realtà, uno scopo vero non c’è. Perché il loro vero scopo è solo il processo, non il suo esito (che, difatti, per loro non risulterà mai appagante). Come Karstone e miss Flite, trascorrono gran parte della loro vita girando per cancellerie, studi professionali, aule d’udienza. Dicono tutto il male possibile di giudici e avvocati – che non di rado denunciano – salvo poi, paradossalmente, dare ancora corso a cause su cause e, in definitiva, finendo col vivere (male) la loro esistenza, inesorabilmente avvelenata  dal morbo del processo.

Di processo, addirittura “finto”, muore anche Alfredo Taps, protagonista del “La panne” di Frederich Durenmatt (da cui Ettore Scola trasse una grande film: “La più bella serata della mia vita”, con Alberto Sordi).

Agiato imprenditore, che si è fatto avanti nella vita a furia di sgomitate non sempre lecite, a causa di un guasto della sua auto, viene ospitato in una villa dove alcuni magistrati, avvocati e funzionari in pensione si divertono, nel corso di cene luculliane, ad imbastire processi immaginari nei confronti dei loro ospiti.

Nel corso del processo cui viene sottoposto, Traps trae dalla sua mediocre biografia condotte non certo irreprensibili, fino a scoprirsi autore dell’omicidio “indiretto” (tramite un infarto artatamente provocato) del suo principale, al quale succede nella titolarità dell’azienda. Il processo si chiude con la sua simbolica condanna a morte, ma anche in questo caso l’esito è letale, perché inopinatamente Traps si uccide.

Come si vede il “virus” del processo è sempre in agguato, dovunque e nella vita di chiunque. “Tuttavia – scrive Bruno Cavallone nel suo libro – questa “eterna malattia” miete vittime soltanto tra coloro che – per debolezza, per insicurezza, per vanità, o più in generale per carenza di adeguate difese immunitarie morali – vogliono far dipendere dal processo il proprio destino”.

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