Le criptovalute (valute virtuali), tra le quali il bitcoin risulta essere la più nota, hanno natura digitale, vengono conservate in portafogli elettronici (wallet) e si distinguono dalla valuta elettronica, in quanto non sono emesse da un sistema centralizzato, vengono generate attraverso il procedimento di data mining (quindi non sono espressione di corrispondente valuta reale) e non vi è garanzia di commutabilità o rimborsabilità in valuta reale.


La fisionomia del sistema di acquisto di bitcoin «si presta ad agevolare condotte illecite», in quanto in grado di assicurare un grado elevato di anonimato.


Lo ha affermato, con una recentissima sentenza (sent.n.27024 del 7.07.2022, dep.il 13.07.2022), la Suprema Corte di Cassazione, Seconda Sezione penale, rilevando, in riferimento al contestato reato di autoriciclaggio (nell’imputazione provvisoria, oltre a numerosi reati di truffa, era stato contestato all’indagato anche il reato p.p.dall’art.648 ter 1 cod.pen. perché “avendo commesso i delitti di truffa aggravata di cui ai precedenti capi, impiegava e sostituiva in attività speculative e, in particolare, nell’acquisto di criptovalute il denaro proveniente dalla commissione di tali delitti in modo da ostacolarne concretamente l’identificazione della provenienza delittuosa) che:

  • l’indicazione normativa ex art. 648 ter.1 cod. pen. delle attività (economiche, finanziarie, imprenditoriali e speculative) in cui il denaro, profitto del reato presupposto, può essere impiegato o trasferito, lungi dal rappresentare un elenco formale delle attività suddette, appare piuttosto diretta a individuare delle macro aree, tutte accomunate dalla caratteristica dell’impiego finalizzato al conseguimento di un utile, con conseguente inquinamento del circuito economico, nel quale, vengono immessi denaro o altre utilità provenienti da delitto e delle quali il reo vuole rendere non più riconoscibile la loro provenienza delittuosa (in termini, Cass. sez. 2, sent. n. 13795 del 07/03/2019 – dep 29/03/2019 – Rv. 275228);
  • possono essere ricondotte nell’ambito della dizione di “attività speculativa” (della quale il legislatore, non a caso, non offre rigida definizione) molteplici attività e, in particolare, tutte quelle in cui il soggetto ricerca il raggiungimento di un utile, anche assumendosi il rischio di considerevoli perdite;
  • le valute virtuali possono essere utilizzate per scopi diversi dal pagamento e comprendere prodotti di riserva di valore a fini di risparmio ed investimento;
  • la configurazione del sistema di acquisto di bitcoin si presta ad agevolare condotte illecite, in quanto- a differenza di quanto rappresentato in ricorso con il richiamo alle registrazioni sulla blockchain e sul distribuited ledger – è possibile garantire un alto grado di anonimato (sistema cd. permissionless), senza previsione di alcun controllo sull’ingresso di nuovi “nodi” e sulla provenienza del denaro convertito (si è anche sottolineato come sia ormai noto il vasto numero di criptovalute utilizzate nel darkweb, proprio per le loro peculiari caratteristiche, e che alcune di esse, attraverso l’uso di tecniche crittografiche avanzate, garantiscono un elevato livello di privacy sia in relazione alla persona dell’utente sia in relazione all’oggetto delle compravendite);
  • indubbiamente, con il decreto legislativo n. 90/2017 attuativo della IV Direttiva Antiriciclaggio, il
    legislatore italiano ha apportato sostanziali modifiche al d.lgs. 231/2007, a sua volta attuativo della Direttiva 2005/60/CE, anticipando le disposizioni della V Direttiva Antiriciclaggio in materia di criptovalute, valute virtuali e destinatari degli obblighi di prevenzione, normativa di carattere
    preventivo che si affianca alla disciplina penalistica di contrasto a riciclaggio e autoriciclaggio di cui agli artt. 648-bis e 648-ter.1 cod. pen. senza tuttavia che nella fattispecie in esame risulti che tale nuovo meccanismo di controllo abbia consentito di evitare il reato contestato (al contrario, accertata la re-immissione del profitto delle truffe nel circuito dell’economia legale, sono risultate estremamente difficili le attività di ricostruzione dell’identità del soggetto al quale riferire le singole transazioni in criptovaluta, anche perché l’account impiegato dal M. faceva riferimento a false generalità dell’intestatario del conto corrente bancario di provenienza).

Sulla base di tali considerazioni, la Cassazione ha quindi ritenuto che i gravi indizi di colpevolezza, correttamente esaminati dai giudici della cautela, giustificavano l’adozione della misura in riferimento ai reati contestati per il quale il Tribunale del riesame aveva confermato il provvedimento del Gip, e riteneva congruamente motivato anche il diniego della misura meno afflittiva in ragione dell’ impressionante serialità degli episodi, delle abilità tecniche non comuni anche per realizzare i furti di identità strumentali alle truffe, la predisposizione di mezzi per realizzare altri delitti, i precedenti specifici, l’elevata professionalità nel delinquere dell’indagato ecc.

(M.C.)

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