In un tempo in cui la velocità delle dichiarazioni prevale sulla profondità del pensiero, abbiamo il dovere di fermarci. Fermarci per osservare, per comprendere, per riflettere. Perché le riforme costituzionali e della giustizia promosse in questi due anni e mezzo dal Governo Meloni non sono, come qualcuno vorrebbe farci credere, l’espressione di un’agenda di modernizzazione dello Stato, dei tempi che cambiano.
Non stiamo assistendo a un processo di rafforzamento della nostra democrazia, piuttosto alla sua deformazione.
La verità è che ci troviamo davanti ad una visione del potere verticale e accentratrice, che mette in discussione l’equilibrio tra i poteri su cui si è retta la nostra Repubblica fin dalla sua nascita. Il Governo, è questa l’idea che ci siamo fatti ormai arrivati a metà legislatura, non sta cercando di risolvere i problemi del Paese; sta cercando di consolidare un assetto istituzionale distorto, concentrando poteri e indebolendo i contropoteri democratici.
L’elezione diretta del Presidente del Consiglio, per fare un esempio delle riforme proposte, è stata presentata come una risposta al problema della stabilità. Ma, nella realtà, rappresenta una torsione autoritaria del nostro ordinamento, il tentativo di concentrare il potere in toto nelle mani di una sola figura politica. Questa riforma del cosiddetto “Premierato” è una forzatura che stravolge la natura parlamentare della nostra democrazia e riduce il Presidente della Repubblica a un ruolo marginale,
depauperato della propria funzione di garante, mentre il Parlamento viene sempre più svuotato delle sue funzioni, come dimostrano i continui voti di fiducia – più di 80 dall’inizio della legislatura a oggi – e le modifiche regolamentari, come il “canguro”, usate per togliere voce alle proposte delle minoranze.
Se da un lato si centralizza il potere esecutivo con il premierato, dall’altro si cerca di smembrarlo con l’autonomia differenziata. È un paradosso politico: accentramento e frammentazione che coesistono in un patto di potere tra alleati di maggioranza.
Peccato che a pagarne il prezzo siano la coesione nazionale, l’uguaglianza tra i territori, la capacità stessa dello Stato di rispondere ai bisogni delle persone.
Nel campo specifico della giustizia, la situazione è altrettanto allarmante. Non solo non c’è stata alcuna riforma strutturale: al contrario, abbiamo assistito ad una sistematica offensiva contro la magistratura e i principi di legalità e trasparenza. Con il DDL Nordio si è iniziato smantellando i reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze illecite, con una leggerezza che ha lasciato sconcertati persino i più moderati osservatori istituzionali. Lo ha detto chiaramente anche il Presidente dell’ANAC, Giuseppe Busia: stiamo mettendo il nostro Paese fuori dagli standard internazionali di lotta alla corruzione. Non è una questione tecnica, è una questione di etica pubblica.
A questo si aggiunge un attacco diretto alla libertà di stampa e al diritto all’informazione. Le nuove norme introdotte sulle intercettazioni – che prevedono l’impossibilità di trascrivere dialoghi tra terzi e l’obbligo di distruggere perfino quelle tra avvocato e assistito – sono un vero bavaglio mascherato da tutela della privacy.
Non si vogliono evitare le “gogne mediatiche”, si vogliono nascondere i fatti, impedire che le notizie disturbino il potere.
E ancora: si sono limitate le possibilità d’appello per i pubblici ministeri, indeboliti i controlli sulla custodia cautelare, così producendosi una giustizia più cieca, più lenta e più ingiusta. Il tutto mentre si tagliano le risorse al comparto giustizia, anziché investire nella digitalizzazione, nell’assunzione di personale, nella riforma del sistema carcerario.
Poi c’è stato il cosiddetto “Decreto Sicurezza”, convertito in Parlamento solo pochi giorni fa. Mai nome fu più sbagliato, perché di sicurezza ha ben poco: una vera e propria follia giuridica, come ho avuto modo di evidenziare anche in Senato la settimana scorsa. Un testo in cui la sicurezza viene declinata solo in chiave
repressiva, svuotata della sua dimensione sociale. Un testo che trasforma il dissenso in reato e autorizza abusi come il Daspo urbano disposto dal questore senza alcuna verifica giudiziaria, che criminalizza le proteste pacifiche e normalizza la sorveglianza, che arriva perfino a colpire le madri detenute e i loro bambini, violando la Convenzione ONU sull’infanzia.
È lo Stato che dimentica la propria funzione educativa e ri-educativa costituzionale, e che sostituisce il diritto con la punizione.
Infine, una delle riforme più pericolose e ideologiche a cui stiamo assistendo è quella sulla separazione delle carriere dei magistrati.
È il caso di parlarne oggi, in questo contesto di altissimo livello. Apparentemente si tratta di un tema tecnico, persino ragionevole per chi non conosce a fondo il sistema giudiziario italiano; in realtà questa proposta è una mina piazzata sotto l’autonomia della magistratura. Separare giudici e pubblici ministeri significa rompere l’unità della giurisdizione, distruggere un equilibrio che ha garantito per decenni indipendenza, professionalità, e tenuta costituzionale.
Il Governo sostiene di voler garantire l’imparzialità del giudice, ma si dimentica, o finge di dimenticare, che questa imparzialità è già tutelata da regole molto rigide: l’incompatibilità tra funzioni giudicanti e requirenti, i criteri di assegnazione dei procedimenti, il fatto che meno dell’1% dei magistrati cambia funzione nel corso della carriera. Non c’è un problema reale da risolvere, c’è una volontà politica da perseguire. Quello che si vuole ottenere è l’indebolimento e l’isolamento della funzione requirente, che sarebbe così svincolata da una visione giurisdizionale e scivolerebbe sotto la sfera d’influenza del potere esecutivo: ciò accadrebbe, con la previsione di due CSM distinti, con la istituzione di un’Alta Corte disciplinare che rischia di diventare uno strumento di pressione, con l’autogoverno della procura più vulnerabile a interferenze esterne. È questo il vero obiettivo.
Si apre quindi la porta a un sistema in cui chi è al Governo sceglie le priorità giudiziarie, decide quali reati perseguire con forza e quali no, e in cui la legalità diventa facoltativa, discrezionale, soggetta all’indirizzo politico. Un passo dopo l’altro, si sgretola l’autonomia del pubblico ministero, che non sarà più garante dellalegalità, ma strumento del potere.
Si realizza poi un ulteriore paradosso: si introduce il sorteggio dei membri del nuovo CSM requirente, annullando così la possibilità, per i magistrati, di scegliere i propri rappresentanti. Che cosa resta, dunque? Una magistratura più debole, più casuale, più manipolabile.
Per non parlare dell’impatto che questa riforma avrebbe sulla cultura giudiziaria. Un PM separato, strutturalmente accusatorio, rischia di trasformarsi in un “accusatore di professione”, sempre più sbilanciato, sempre meno terzo. È un rischio enorme per l’imparzialità del processo e per il diritto alla difesa.
E c’è un’ultima cosa da dire, con fermezza. La magistratura italiana ha pagato un prezzo altissimo nella difesa della democrazia: 28 magistrati assassinati dalle mafie e dal terrorismo, quasi tutti pubblici ministeri. Oggi, anziché rafforzare la loro protezione e il loro ruolo, si sceglie di smantellarne gli strumenti. È un affronto non solo ai magistrati, ma alla storia della nostra Repubblica.
Noi sappiamo che la magistratura deve essere autonoma perché la giustizia deve essere libera. Libera dai ricatti, libera dai condizionamenti, libera di perseguire chiunque violi la legge, anche se potente. Ma a questo Governo non interessa una giustizia giusta: interessa una giustizia controllabile, comoda, ad personam, come si diceva tempo fa.
Il disegno è chiaro, coerente, inquietante. Non si tratta di riforme isolate, ma di una strategia sistemica per ridurre gli spazi di autonomia e pluralismo nelle istituzioni, e per piegare le regole ai fini di chi comanda. In questo Governo, più che effettuarne alcune riforme, stanno smantellando pezzo per pezzo il sistema della giustizia italiana.
Lo fanno mentre in Italia si acuiscono le disuguaglianze, l’insicurezza sociale e la povertà educativa, tutte condizioni che le mafie, storicamente, hanno saputo sfruttare con cinica efficacia. La criminalità organizzata, infatti, non spara più per conquistare il potere: lo acquista, lo infiltra, lo coopta. Per questo il vero nodo non è solo giudiziario, ma profondamente culturale e politico.
Non possiamo combatterle con meno giustizia, ma con più Stato sociale, più coesione sociale, più strumenti di prevenzione. In questa direzione vanno le misure patrimoniali e il riutilizzo sociale dei beni confiscati, che rappresentano una delle strategie più efficaci e visibili nella lotta alle mafie. Come spesso mi capita di ricordare anche ai colleghi e alle colleghe della maggioranza, queste leggi, soprattutto la legge Rognoni-La Torre, che in Europa e nel mondo studiano e copiano, sono “nate nel sangue”, dal sacrificio di tutte le persone che hanno perso la propria vita da innocenti, nel perseguimento della legalità e della giustizia.
Come ha ricordato la Corte dei Conti, la restituzione dei beni alla società civile è “attività antimafia a pieno titolo”. La Corte Costituzionale l’ha definita come lo strumento più incisivo per minare il consenso sociale della mafia. E ora anche la nuova Direttiva UE 2024/1260 ci invita a rafforzare il modello italiano, estendendolo come pratica europea: dalla confisca al riuso sociale programmato fin dal momento del sequestro.
Oggi in Italia sono oltre 1.000 le esperienze virtuose di riutilizzo sociale di beni confiscati: cooperative agricole, centri culturali, scuole, presidi sanitari, comunità di accoglienza, esperienze produttive sostenute da donne e uomini che, con coraggio, hanno trasformato il potere mafioso in riscatto comunitario. Questi luoghi sono diventati una pedagogia civile vivente, che educa alla legalità non con le parole, ma con i fatti.
Eppure, mentre sul territorio tante realtà costruiscono legalità, il Governo ha perso occasioni fondamentali per rafforzare davvero la lotta alla mafia. Penso in particolare al DDL Nordio, che, oltre ad abolire reati come l’abuso d’ufficio, ha scelto di indebolire strumenti cruciali per le indagini antimafia. Le nuove norme sulle intercettazioni – limitate, compresse, oscurate – rappresentano un colpo diretto alla capacità investigativa dello Stato, proprio nei contesti più complessi, dove silenzi, reticenze e omertà sono la regola. Penso poi all’assenza di un piano organico di valorizzazione e protezione dei collaboratori e testimoni di giustizia, strumenti fondamentali per spezzare i legami interni alle organizzazioni criminali e ancora alla tutela degli imprenditori che denunciano i fenomeni di estorsione e di usura. Penso infine alla mancata riforma e al silenzio legislativo sulle misure di prevenzione interdittive, che vengono progressivamente svuotate, depotenziate, rese inefficaci.
Anche in questo caso, il Governo ha perso un’occasione storica: invece di rafforzare la risposta dello Stato alla criminalità, ha scelto la strada della semplificazione propagandistica. In Senato abbiamo presentato decine di emendamenti per rafforzare questi strumenti, senza mai ricevere ascolto né confronto argomentato.
In due anni e mezzo, la maggioranza ha abbandonato ogni iniziativa di rilancio, ha indebolito gli strumenti preventivi, non ha stanziato fondi sufficienti per sostenere gli enti locali nel gestire e valorizzare i beni confiscati. La narrazione propagandistica della sicurezza ha preso il posto della lotta alla mafia, quella vera, che si fa sul campo con rigore e professionalità. Si è persa l’occasione di costruire giustizia sociale, di valorizzare il lavoro straordinario di cooperative, associazioni, realtà educative.
Ma c’è chi, anche dentro le istituzioni, continua a lavorare per costruire strumenti innovativi e concreti. Penso, e ne sono orgogliosa, al progetto di legge “Liberi di Scegliere”, portato avanti dal Comitato Cultura della Legalità e Protezione dei Minori della Commissione Parlamentare Antimafia, che oggi stiamo cercando di trasformare in legge dello Stato. Un progetto che nasce dall’intuizione del giudice Roberto Di
Bella e che si propone di offrire ai figli e alle figlie di famiglie mafiose una via di uscita dal sistema malavitoso. Non più discendenza destinata all’eredità criminale, ma ragazzi e ragazze accompagnati in un percorso di rottura, di emancipazione, di futuro. È un progetto che restituisce senso allo Stato e che dimostra come la giustizia possa essere anche cura, fiducia, opportunità.
Ed è proprio partendo da questo orizzonte – la giustizia come strumento di liberazione e non solo di punizione – che dobbiamo lanciare un appello forte per intervenire sulla drammatica condizione delle nostre carceri. Infatti, mentre questo Governo lascia soli territori e operatori che combattono il potere mafioso, abbandona anche i più fragili. La crisi del sistema penitenziario, in particolare, è oggi uno dei
maggiori fallimenti del Governo. Le carceri italiane vivono una situazione di sovraffollamento strutturale, con più di 62.000 detenuti presenti a fronte di circa 51.000 posti disponibili, e gravi carenze sanitarie e infrastrutturali.
Ma la situazione è ancora più grave se guardiamo alle detenzioni minorili. Secondo l’ultimo Rapporto Antigone, al 31 marzo 2025 risultano 597 minori detenuti nei 17 istituti penali per minorenni italiani. Circa due terzi dei ragazzi e ragazze in carcere sono sottoposti a una misura cautelare in attesa di processo. È una realtà che viola il principio della presunzione d’innocenza e ignora le alternative previste dall’ordinamento minorile. Inoltre, l’aumento degli atti di autolesionismo e/o di tentativi di suicidio tra minori ristretti, insieme alle percentuali di fuoriuscita dal sistema scolastico, di patologie psicologiche o psichiatriche conclamate, raccontano un sistema che sta fallendo sia nella tutela dei diritti, sia nella funzione rieducativa.
Qual è la risposta del Governo? Il Decreto Caivano. Una legge pensata sull’onda dell’emozione e costruita con lo stampo del populismo penale, che abbassa l’età dell’imputabilità e criminalizza i quartieri più poveri, senza offrire percorsi educativi, riabilitativi, di reinserimento e di investimenti sui territori. Si è colpita l’infanzia invece di proteggerla. Si è risposto al disagio con la repressione.
Ma non c’è sicurezza senza giustizia, e non c’è giustizia senza dignità, equità, educazione, comunità.
Ciò che emerge con chiarezza è un disegno politico regressivo, teso non alla risoluzione dei problemi reali, ma alla distruzione delle garanzie, al ridimensionamento dei diritti, alla concentrazione del potere, alla criminalizzazione del dissenso.
Si aboliscono reati come l’abuso d’ufficio, si imbavaglia la stampa, si attacca l’autonomia dei giudici, si soffoca il Parlamento. Si rafforza l’esecutivo a scapito delle garanzie, si smantellano i pilastri della lotta alle mafie, si ignora la sofferenza delle carceri e delle periferie.
Non siamo davanti a una semplice stagione di riforme. Siamo di fronte a una torsione autoritaria, mascherata da efficienza, a un mutamento profondo della cultura istituzionale, che va fermato prima che diventi irreversibile.
Ecco perché questo mio intervento non è solo una denuncia, ma un appello. Il vero pericolo che stiamo correndo è la perdita del senso profondo della giustizia nella nostra democrazia costituzionale. Siamo passati da un’idea di riforma come strumento di miglioramento, a una pratica di governo che usa le riforme per concentrare potere, eliminare controlli, delegittimare magistratura e Parlamento. E che, nel frattempo, lascia indietro chi avrebbe più bisogno dello Stato: i minori, i detenuti, le periferie, le vittime, i territori oppressi dalle mafie.
Non vogliamo uno Stato che punisce chi è fragile e protegge chi è forte, perché crediamo nella giustizia come diritto, non come privilegio, e perché non ci rassegniamo all’idea che una finta idea di sicurezza, fondata sul pregiudizio, sulla marginalizzazione e sull’esclusione della fragilità debba valere più della libertà, o che l’obbedienza debba contare più della coscienza.
Perché – come diceva Giovanni Falcone – “bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo, l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba.”
Grazie.
Vincenza Rando
