La Corte di Appello di Napoli, I Sezione Lavoro,  ha nuovamente investito la Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della disciplina sanzionatoria applicabile nel caso di un licenziamento collettivo , intimato nel 2016, nei confronti di una lavoratrice assunta dopo il 7 marzo 2015, ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di scelta , per il contrasto degli art. 10 e 3, 1° co del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23 con gli artt. 3, 4, 10, 24, 35, 38, 41, 76, 111 e 117 Cost.

La lavoratrice conveniva  in giudizio la società datrice al fine di richiedere la reintegra nel posto di lavoro e comunque il risarcimento del danno, previo accertamento della invalidità del licenziamento intimatole a conclusione di una procedura di licenziamento collettivo avviata ex art. 4 e  24 comma 1 della legge 23 luglio 1991 n. 223 per  “riduzione del personale”  . La ricorrente veniva ,infatti, individuata quale lavoratrice in esubero a conclusione di una valutazione comparativa limitata al solo cantiere nel quale era impiegata che non aveva coinvolto nella prescritta comparazione la generalità dei lavoratori che prestavano attività lavorativa in mansioni omogenee nel complesso aziendale.

La Corte di Appello, con sentenza parziale , dichiarava l’illegittimità del licenziamento intimato per violazione dei criteri di scelta , non essendo state esaminate le posizioni dei lavoratori addetti a mansioni omogenee  nell’ambito dell’intero complesso aziendale.

Per il giudizio concernente invece il regime sanzionatorio applicabile per la accertata violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, primo comma della legge 23 luglio 1991 n. 223 , si è sospesa la decisione per il sospetto di incostituzionalità delle norme applicabili ratione temporis al caso di specie  .

Il Collegio deve , infatti, esaminare la conseguenza sanzionatoria di un licenziamento collettivo intimato nel 2016 nei confronti di una lavoratrice, assunta dopo il 7 marzo 2015, ritenuto illegittimo per violazione dei criteri di scelta, rispetto al quale trova inequivoca applicazione il regime indennitario stabilito dall’art. 3, comma 1 del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23, richiamato dall’art. 10 del medesimo decreto, nella versione ante novella del d.l. 12 luglio 2018 n. 87. Il regime sanzionatorio previsto è quello meramente indennitario che non distingue la causa dell’ invalidità del recesso intimato a conclusione della procedura di licenziamento collettivo. Il secondo alinea dell’art. 10 del d.lgs 23/15, applicabile ratione temporis, stabilisce, infatti, un regime uniforme atteso che: “in caso di violazione delle procedure richiamate all’articolo 4, comma 12, o dei criteri di scelta di cui all’articolo 5, comma 1, della legge n. 223 del 1991, si applica il regime di cui all’articolo 3, comma 1.”L’art. 3, comma 1 del d.lgs 23/15 – nel testo vigente alla data del licenziamento ed applicabile alla lavoratrice ricorrente ma non a tutti i lavoratori  sottoposti alla medesima procedura comparativa- prevede  un’ unica misura afflittiva anelastica che stabilisce, senza alcuna modulazione, ferma la risoluzione del rapporto, una condanna del datore di lavoro al solo pagamento di una indennità non assoggettata a contribuzione previdenziale   “(..) in misura comunque non inferiore a quattro e non  superiore a ventiquattro mensilità” (limiti in seguito ampliati rispettivamente in 6 e 36 dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla legge  9 agosto 2018, n. 96).

Il regime sanzionatorio che la Corte è, pertanto, tenuta in concreto ad applicare si discosta in modo rilevante dalla “sanzione tipo” prevista dall’art. 5, terzo comma della legge 23 luglio 1991 n. 223 che stabilisce in termini generali che “in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dal comma 1, si applica il regime di cui al quarto comma del medesimo art. 18”.

Per la Corte, dunque, la disciplina applicabile è manifestamente disomogenea sia rispetto a quella ripristinatoria, stabilita per il medesimo tipo di invalidità del recesso, per la generalità dei lavoratori, in caso di licenziamento collettivo e che trova applicazione residuale a rapporti di lavoro costituiti ante marzo 2015, ed è, al contempo, significativamente inferiore rispetto a quella applicabile ai rapporti costituiti dopo il marzo 2015, ma risolti dopo la novella del 2018 (d.l. n. 87/2018 convertito in Legge n. 96/2018), che ha esteso fino a 36 mensilità l’indennizzo di cui all’art. 3, 1° co del d.lgs 23/15.

Il diversificato regime di tutela, frutto del richiamo dell’art. 10 del d.lgs 23/15 al modello indennitario forfettizzato vincolato ad un tetto massimo stabilito dall’art. 3, 1° co.,  che deve essere applicato al caso in esame  è ciò che ha destato il dubbio della Corte incentrato su tre aspetti :  incostituzionalità per eccesso di delega, per violazione dei parametri della stessa e per la irragionevolezza del sistema sanzionatorio applicabile al caso concreto.

Più precisamente, come si evince dalla lettura dell’ordinanza si sono prospettate le seguenti censure :  

1) violazione dell’art. 10 del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23, sia unitariamente inteso che nel combinato disposto con l’art. 3, 1° co. del d.lgs 23/15, con riferimento agli articoli 3, 10, 35, 76, 117, 1° co Cost., nella parte in cui ha introdotto in assenza di una specifica attribuzione normativa e comunque in violazione dei principi e dei criteri direttivi della legge delega, una disciplina sanzionatoria per la violazione dei criteri di scelta dei lavoratori in esubero nell’ambito di un licenziamento collettivo, statuendo in contrasto con l’art. 24 della Carta Sociale Europea;

2) violazione dell’art. 3, 1° co. del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23, con riferimento agli articoli 3, 4, 24, 35, 111 Cost. nella parte in cui, irragionevolmente, dispone per la stessa violazione dei criteri di scelta, avvenuta contestualmente in una medesima procedura di licenziamento collettivo tra omogenei rapporti di lavoro per i soli lavoratori assunti a tempo indeterminato successivamente al 7 marzo 2015, diversamente da quelli assunti precedentemente, una sanzione inefficace rispetto al danno subito a seguito della illegittima perdita del posto di lavoro, priva di efficacia deterrente e inidonea ad assicurare un ristoro personalizzato ed effettivo del danno;

3) illegittimità dell’art.  3, 1° co. del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23,  con riferimento agli articoli 3, 4, 24, 35, 38, 41, 111 Cost. nella parte in cui, ingiustificatamente , in presenza di una violazione di parametri selettivi oggettivi e solidaristici , introduce una sanzione inefficace che non consente una  idonea responsabilizzazione del soggetto inadempiente attraverso una personalizzazione del danno cagionato.

La Corte d’Appello , dopo ampio percorso argomentativo , ha ,  in conclusione, evidenziato l’impossibilità di superare , in via interpretativa , l’evidente divario di tutela nell’ipotesi alternativa prospettata ed ha sollecitato la Corte costituzionale di indicare, per la violazione dei criteri di scelta, un provvedimento interpretativo di accoglimento di tipo caducatorio dell’art. 3, 1° co. del d.lgs 4 marzo 2015 n. 23 dell’inciso “e non superiore a 24” (oggi 36) in presenza di una violazione dei criteri di scelta di cui all’art. 5, 3° co. della legge 23 luglio 1991 n. 223.

Conseguentemente, ai sensi dell’art. 23 comma 2 della legge 11 marzo 1953 n. 87,  è stata disposta  la trasmissione degli atti di causa alla Cancelleria della Corte Costituzionale.

ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLA CORTE COSTITUZIONALE

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