1.  I Lineamenti fondamentali della nuova disciplina

Come è noto, a ormai più di quarant’anni dalla introduzione del sistema di conversione delle pene detentive brevi di cui agli artt. 53 e ss. della L. 689/81, attesa soprattutto la scarsissima incidenza statistica dell’istituto[1], su impulso della Ministra Marta Cartabia, si è deciso di porre mano ad una radicale riforma del sistema delle sanzioni sostitutive di pene brevi (oggi denominate, per volontà del legislatore, “pene sostitutive di pene detentive brevi”), con la legge delega nr. 134/21 oggi in via di attuazione per il tramite di apposito schema di decreto (da ora in poi solo decreto), schema sul quale possono già operarsi alcune riflessioni.

La riforma in cantiere, riguarda infatti tanto la tipologia delle sanzioni sostitutive, che l’entità della pena detentiva da sostituire, invero notevolmente innalzata nel massimo, dagli attuali due anni a quattro anni, pena quest’ultima che, espunte dall’ordinamento semidetenzione e libertà controllata, potrà essere convertita solo in semilibertà e detenzione domiciliare, da determinarsi in durata pari a quella della pena principale inflitta (cfr. in particolare art. 53 e 57 del decreto); quanto alle pene inflitte non superiori a tre anni, esse potranno essere sostituite anche con il lavoro di pubblica utilità, istituto quest’ultimo che ha già fornito positivi riscontri applicativi, anche statisticamente significativi, sia in tema di circolazione stradale (cfr. art. 186 comma 9-bis c.d.s.) che di stupefacenti (cfr. art. 73 comma 5-bis d.P.R. n. 309/90), che di procedimento dinanzi al G.d.p. (cfr. in particolare art. 54 D. Lvo n. 274/00) e, in tempi più recenti, anche in tema di sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’art. 168-bis c.p..

Infine, quando il giudice della cognizione ritiene di poter determinare la pena detentiva nel limite di un anno, essa potrà essere sostituita anche con pena pecuniaria della specie corrispondente (ed anche in questo caso, va notato come dagli attuali mesi sei, quale tetto massimo, si sia passati ad un anno, con limite di pena raddoppiato).

La novità maggiore che concerne le pene pecuniarie “sostitutive” (così denominate al pari della semilibertà “sostitutiva”, della detenzione domiciliare “sostitutiva”, e del lavoro di pubblica utilità “sostitutivo”, per volontà del legislatore) è però costituita dal disancoramento delle stesse dai criteri di ragguaglio di cui all’art. 135 c.p., per rimanere, la pena pecuniaria sostitutiva, ancorata piuttosto alle “…complessive condizioni economiche, patrimoniali e di vita dell’imputato e del suo nucleo familiare” (cfr. art. 56-quater del decreto), in ciò recependosi le concordi indicazioni di dottrina e giurisprudenza, che avevano sottolineato come la conversione in pena pecuniaria avesse rappresentato piuttosto un privilegio per i soggetti più abbienti, ed un fattore di discriminazione per coloro che lo erano meno. Il giudice, infatti, determinerà la sanzione pecuniaria giornaliera nell’ambito di una forbice ricompresa tra 5,00 euro e 2.500,00 euro.

Da ultimo il divieto di concessione di sospensione condizionale della pena sostitutiva, di cui all’art. 61-bis del decreto, completa i lineamenti istituzionali del nuovo sistema di sanzioni sostitutive, nell’evidente intento di non vanificarne la portata rieducativa e risocializzante che è loro ontologicamente sottesa[2], e pur nella consapevolezza che, come si vedrà di quì a poco, il divieto di concessione di sospensione condizionale della pena sostitutiva, non pare destinato a risolvere tutti i problemi.

Evidenti ragioni di sintesi impongono tuttavia di limitare ai pochi cenni che precedono, lo spazio dedicato ai lineamenti istituzionali delle nuove pene sostitutive, dovendosi piuttosto e di seguito, svolgere alcune riflessioni concernenti l’impianto complessivo del decreto, riflessioni finalizzate anche alla individuazione di possibili criticità.

2. Brevi spunti di riflessione circa alcuni peculiari aspetti normativi delle pene sostitutive.

Non risulterà superfluo, in esordio, ricordare che la “ratio” sottesa al complessivo sistema delle pene sostitutive, così come traspare in modo palese anche dalla legge delega, è quello della deflazione carceraria, anche finalizzata a prevenire, specie per le pene di durata medio-breve, gli effetti desocializzanti del carcere.

In tale ottica, tuttavia, il pur condivisibile intento della riforma di implementare il ricorso alle pene sostitutive, avrebbe dovuto anche maggiormente confrontarsi con il limite, oltre il quale la deflazione della restrizione inframuraria espone al rischio di pregiudicare il concorrente valore della rieducazione del condannato, che pure si intende perseguire.

Il concetto risulterà più chiaro, se si considera, in primis, il nuovo testo dell’art. 66 del decreto, rispetto all’art. 66 della L. 689/81 attualmente vigente.

Ed invero, mentre nel testo in vigore si legge che: “… quando è violata anche solo una delle prescrizioni inerenti alla semidentenzione o alla libertà controllata, la restante parte della pena si converte nella pena sostituita”, nel nuovo articolo 66 del decreto, si prevede un regime di gran lunga più flessibile, dal momento che la eventuale revoca della misura potrà avere luogo nei soli casi di mancata esecuzione della misura, ovvero di violazione “grave e reiterata” delle prescrizioni, e, come se non bastasse, lungi dal far rivivere la revoca “ipso iure” la primigenia pena detentiva, come pure sarebbe stato logico attendersi, la restante parte di pena, può ancora essere convertita in altra pena sostitutiva più grave.

Ora, a parte la ovvia considerazione che, se ad essere revocata dovesse essere la più restrittiva delle pene sostitutive, ovvero la detenzione domiciliare, non si vede come essa possa essere convertita in altra sanzione sostitutiva più grave, rimanendo all’evidenza percorribile la sola strada del carcere, ciò che rileva è che tale disciplina, con l’abbandono di ogni profilo di rigore, pone in discussione anche l’effetto risocializzante e rieducativo della sanzione stessa, per restituire piuttosto al condannato, l’immagine di un sistema penale troppo incline a compromessi.

Se poi a ciò si aggiunge, che il divieto di seconda concessione, pur presente nella Relazione Lattanzi, è stato da essa espunto e risulta ormai anch’esso abbandonato nell’ottica del decreto, le perplessità ne risultano incrementate.

Si consideri poi, che nell’assetto conferito alla materia dalla Commissione Lattanzi, nel lodevole proposito di implementare anche il ricorso ai riti alternativi, la concessione delle pene sostitutive si riconnetteva pure a questi ultimi[3]; resta allora pure il dubbio che il legislatore attuale abbia perso la ennesima occasione per rivitalizzare, allo stesso tempo, anche i riti c.d. “premiali”, oltre alla disciplina delle pene sostitutive.

Infine, e come peraltro si accennava in precedenza al par. n.1, mette conto far rilevare che il solo divieto di sospendere le sanzioni sostitutive, ad una più approfondita valutazione, non appare da solo in grado di risolvere i problemi di erosione di queste ultime da parte della sospensione condizionale della pena.

Di fatto invero, l’obiettivo di implementare il ricorso alle pene sostitutive, potrebbe rimanere frustrato grandemente, nella misura in cui il condannato ritenga più appetibile la concessione della sospensione condizionale, in tutti quei casi in cui il limite di pena sia contenibile nei due anni, in tal modo non residuando “tout court” campo applicativo, per le altre pene sostitutive.

All’inconveniente si sarebbe potuto ovviare non solo vietando la concessione della sospensione quando venga irrogata una pena sostitutiva come è stato fatto, ma anche elaborando in modo più stringente e dettagliato i presupposti per la concessione della sospensione condizionale, quando essa concorra astrattamente con una sanzione sostitutiva, ovvero ed ancora ampliando ulteriormente la discrezionalità del giudice in punto di scelta tra la sospensione e una diversa pena sostitutiva.

3. Ulteriori possibili profili di criticità del nuovo sistema delle pene sostitutive.

Non può essere altresì sottaciuto che, nella proposta della Commissione Lattanzi, era presente, tra le pene sostitutive, anche l’affidamento in prova poi escluso dalla legge delega e, dunque, non entrato nel novero delle dette pene, come contemplate anche dal decreto che in questa sede si commenta.

Numerose sono le ragioni teoriche poste a base di tale esclusione.

Secondo taluni, esse poggiano certamente su quella impostazione dottrinale in base alla quale, la applicazione di tale misura all’esito del giudizio di cognizione, avrebbe potuto disincentivare la sospensione del procedimento con messa alla prova di cui all’art. 168-bis c.p., allungando in ogni caso i tempi del processo (questa posizione è stata, ad esempio espressa da G. GATTA).

Per talaltri (ad es.: E. DOLCINI e F. FIORENTIN) il ricorso all’affidamento in prova su larga scala, avrebbe rischiato di assumere i connotati di una sospensione della pena dissimulata, e dunque avrebbe svuotato di contenuto detta misura, viepiù a fronte di pene considerevolmente incrementate e divenute da brevi in senso stretto, piuttosto di medio ammontare.

Senza volere in questa sede prendere posizione in alcun modo, giova però segnalare che, qualunque tesi si sposi, la esclusione dell’affidamento in prova dal novero delle pene sostitutive, potrebbe dar luogo a vistose incoerenze del sistema, laddove si ipotizzi che, il condannato in sede di cognizione a pena detentiva nel limite di 4 anni (e in special modo a pena ricompresa tra tre e quattro anni), si potrebbe vedere applicare, quali pene sostitutive, la semilibertà, se non addirittura la detenzione domiciliare dal giudice della cognizione, pur potendosi ipotizzare il possesso da parte sua, dei requisiti per ottenere dal Tribunale di Sorveglianza la concessione dell’affidamento in prova.

E l’aporia è evidente, perché tale condannato dovrebbe augurarsi che il giudice della cognizione non gli applichi nessuna delle due pene sostitutive più restrittive, per poter sperare di beneficiare, in sede di esecuzione, della più ampia misura dell’affidamento.

Le considerazioni che precedono, peraltro, consentono di introdurre anche ulteriori perplessità, circa il rapporto tra pene sostitutive e misure alternative, le quali, nel sistema delineato dal legislatore e sopra descritto, possono funzionalmente sovrapporsi.

La dottrina si è chiesta (ad es.: V. F. PALAZZO), tra l’altro, e solo per accennare ad alcune più vistose aporie del sistema, in che misura la mancata applicazione in sede di cognizione della semilibertà e della detenzione domiciliare, per ragioni legate alla idoneità rieducativa ed al rischio di reiterazione, potrebbe pregiudicare la concessione della omologa misura in sede di esecuzione; ed ancora, la stessa dottrina si interroga parimenti su che senso avrebbe concedere ad un condannato ritenuto non meritevole di semilibertà o detenzione domiciliare dal giudice della cognizione, addirittura l’affidamento in prova in sede di esecuzione.

Le verità è che, se la riforma riduce sensibilmente il novero di quei condannati, nella prassi denominati “liberi sospesi”, ovvero di quei casi in cui soggetti non ancora entrati nel circuito inframurario possano richiedere ed ottenere, da liberi, per il tramite del meccanismo di cui all’art. 656 comma 5 c.p.p., la concessione in via preventiva di misure alternative, la discussa categoria in questione, si sarebbe potuta eliminare del tutto, meglio coordinando tra loro pene sostitutive e misure alternative.

Come proposto da altra autorevole dottrina, infatti (si tratta di A. GARGANI), sarebbe stato necessario un intervento volto a far coincidere le misure applicabili in stato di libertà, con le sanzioni sostitutive applicabili dal giudice della cognizione, tanto più che, per i liberi-sospesi, vige lo stesso limite dei quattro anni (art. 656, comma 5 c.p.p.), previsto dalla normativa in commento per l’applicazione delle pene sostitutive. Esclusa così la applicazione delle misure alternative al condannato in stato di libertà, lo spazio riservato a queste ultime, sarebbe andato a coincidere “ipso iure” con tutti (e solo!) quei casi in cui il condannato benefici di misure alternative unicamente dopo l’espiazione in carcere di una parte della pena detentiva.

Infine, non può tralasciarsi di ricordare che, nel giudizio di appello, in ossequio al principio devolutivo, per ormai consolidata giurisprudenza di legittimità [4], La Corte non ha il potere di applicare di ufficio le sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi, se nell’atto di appello non risulta formulata alcuna specifica e motivata richiesta in tal senso, giocando altresì un ruolo fondamentale, unitamente al principio devolutivo, anche quello della specificità dei motivi, oggi ormai cristallizzato nel testo in vigore dell’art. 581 c.p.p..

Ed invero -proseguono le Sezioni Unite- l’ambito dei poteri di intervento officiosi del giudice di appello, sono tassativamente ed inesorabilmente segnati dai limiti (e/o dalle eccezioni al principio devolutivo, se si vuole), espressamente considerati dall’art. 597, ult. comma c.p.p..

Ne consegue che, se lo scopo perseguito dalla riforma era e resta la implementazione del ricorso alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, segnando in tal modo una netta cesura rispetto al passato, sarebbe stato necessario prevedere una norma apposita, che eventualmente ampliasse le eccezioni al principio devolutivo dell’appello di cui all’art. 597 ult. comma c.p.p. e che rendesse possibile anche per il giudice di secondo grado, la conversione officiosa delle pene detentive brevi, soprattutto ove questa non fosse stata già disposta in primo grado, non vincolando il secondo giudice del merito, alla richiesta di parte da formularsi precipuamente nei motivi di gravame.


[1] Si vedano i dati numerici di cui alla “Relazione finale e proposte di emendamenti al d.d.l. AC 2435”, redatta dalla Commissione Lattanzi, istituita nel marzo 2021, con il compito di elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di Legge A.C. 2435, recante delega al governo per l’efficienza del processo penale  e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le Corti di Appello. Secondo tali dati, al 15 aprile 2021, mentre in semidetenzione si trovavano soltanto due persone, ve ne erano solo 104 in libertà controllata, a fronte di ben 64.000 misure riferibili alla esecuzione penale esterna, con una incidenza statistica, se i numeri non ingannano, di circa lo 0,2%.

[2] Sino ad ora, infatti, la granitica giurisprudenza di legittimità, aveva ritenuto che le pene sostitutive, lungi dal risultare semplice modalità esecutiva della pena sostituita, rappresentassero pene autonome, e, in quanto tali, sospendibili, poiché appartenenti ad un parallelo sistema sanzionatorio; in tal senso di vedano, ad es., oltre a Sez. Unite 19/1/2017 n. 12872, anche Cass. 13/10/2004 n. 43589 e Cass. Sez. Unite 25/10/1995 n. 11397.

[3] La previsione su scala generale della possibilità di applicare le nuove pene sostitutive, da parte del giudice di cognizione nella sentenza di condanna, era riservata, nella proposta della Commissione Lattanzi, solo ad alcune categorie di reato, mentre la sua applicazione generalizzata- in base all’art. 9-bis co.1 lett. e- era riservata ai soli casi definiti con sentenza di patteggiamento.

[4] Il riferimento è a Cass. SS. UU. n. 12872 del 19/1/2017-dep.17/3/2017, Pres. Canzio, est. Lapalorcia.

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