In data 23.02.2023 v’è stato, presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, un interessante convegno volto ad approfondire l’impatto e le prime applicazioni – sul procedimento e sul processo penale – del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150, attuativo della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari (GU Serie Generale n.243 del 17-10-2022 – Suppl. Ordinario n. 38).

L’incontro, concretatosi in una sessione mattutina (volta all’approfondimento degli effetti della riforma sulle indagini preliminari e sull’udienza preliminare) e in una pomeridiana (dedicata all’analisi dei nuovi connotati del dibattimento a seguito dell’entrata in vigore del menzionato decreto legislativo) ha fornito lo spunto per una riflessione in ordine all’impatto delle nuove disposizioni e alla loro reale capacità di sopperire alle criticità – da più parti paventate – del previgente sistema, il tutto nella logica dell’efficienza e della contrazione dei tempi della giustizia da tempo auspicati per l’Italia in ambito europeo.

Il dibattito è stato introdotto dal Presidente del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, dott.ssa Gabriella Maria Casella, che ha esordito evidenziando l’impatto della riforma sull’organizzazione degli uffici (es. necessità di dialogo e sottoscrizione di protocolli con l’UEPE per reperire informazioni utili all’applicazione di pene sostitutive di quelle detentive brevi o per i futuri programmi di giustizia riparativa; predisposizione di strumenti utili al nuovo processo penale telematico e alle registrazioni audiovisive dei dibattimenti).

Il Presidente ha sottolineato come ad oggi, a fronte delle importanti novità introdotte, non sia stato predisposto un adeguato impianto tecnico di supporto utile a fronteggiare le plurime innovazioni della riforma, registrandosi anzi in alcuni settori una vera e propria anomalia di sistema: si pensi, ancora una volta, all’ambito informatico o telematico, ove s’è deciso di garantire l’assistenza sistemistica – ora più che mai necessaria “in loco”- soltanto da remoto. E’ quindi fondamentale, nell’immediato futuro, approntare tutte le risorse necessarie per garantire l’adeguamento degli uffici al nuovo sistema.

Al Presidente ha fatto eco Carmine Renzulli, a capo della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, che ha evidenziato l’opportunità, nell’attuazione pratica della riforma, della più ampia collaborazione della Polizia Giudiziaria (si pensi, ad esempio, alla necessità di rendere quanto più possibile celeri le nuove elezioni di domicilio finalizzate alla notifica degli atti introduttivi del giudizio).

Il Procuratore ha condiviso lo spirito della riforma volto a potenziare l’efficienza del sistema mediante, tra l’altro, la riduzione della durata dei processi e l’implementazione delle forme di deflazione (es. aumento delle fattispecie procedibili a querela).

E’ chiaro che il percorso necessiterà di progressivo adattamento e collaborazione tra i vari uffici: si pensi – solo per fare un esempio – alla necessità di sottoscrivere nuovi protocolli con l’UEPE.

Dopo i saluti di Antonio Mirra, Sindaco di Santa Maria Capua Vetere, e di Paolo Falco (per delega di Angela Del Vecchio, Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Santa Maria Capua Vetere), è intervenuto il presidente della locale Camera Penale Francesco Saverio Petrillo, che ha espresso dubbi sulla tenuta della riforma nella misura in cui essa tende a dissuadere quanto più possibile dalla celebrazione del dibattimento (maggiore momento di espressione del diritto di difesa) prediligendo forme alternative di definizione dei procedimenti. Ulteriori preoccupazioni sono state rimarcate quanto al settore delle impugnazioni (elevato numero di conferme nei giudizi di appello e di pronunce di inammissibilità nei giudizi di legittimità).

Ha chiuso la parte introduttiva del convegno Francesco Balato, Presidente della sottosezione ANM presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere.

Il dibattito è entrato nel vivo con l’apertura della sessione mattutina, dedicata alla segretezza delle indagini e alle nuove garanzie difensive ivi previste. La sessione è stata moderata da Giuseppe Cimmarotta, in forza alla Direzione Distrettuale Antimafia presso la Procura della Repubblica di Napoli.

Rodolfo Sabelli, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cagliari, si è occupato del delicato tema della iscrizione e della retrodatazione dei subprocedimenti innanzi all’Autorità Giudiziaria.

La riforma presenta sicuri elementi di novità, ma anche molti aspetti di continuità (soprattutto giurisprudenziale). Ad esempio la questione del carattere costitutivo o ricognitivo dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato è stata molto discussa anche in passato. Il relatore ha in particolare focalizzato l’analisi sull’art. 360 c.p.p. evidenziando come la giurisprudenza di legittimità abbia da tempo chiarito che hanno diritto all’avviso previsto da detta disposizione non solo coloro che sono stati formalmente iscritti nel registro degli indagati ma tutti coloro eventualmente raggiunti da indizi di reità (cfr. Sez. 2, Sentenza n. 34745 del 26/04/2018 Ud., dep. 23/07/2018, Rv. 273543 – 01, per cui “l’avviso relativo all’espletamento di un accertamento tecnico non ripetibile, con la conseguente assicurazione dei diritti di assistenza difensiva, deve essere dato anche alla persona che, pur non iscritta nel registro degli indagati, risulti nello stesso momento raggiunta da indizi di reità quale autore del reato oggetto delle indagini”).

Principio, quello della valenza meramente ricognitiva dell’iscrizione, per vero già espresso dalla Corte costituzionale con le ordinanze n. 306 e 307 del 2005: nel secondo di detti provvedimenti, in particolare, la Consulta aveva specificato “che l’iscrizione nel registro ha una valenza meramente ricognitiva, e non già costitutiva dello status di persona sottoposta alle indagini, è di tutta evidenza come le garanzie difensive che la legge accorda a quest’ultima, in relazione ai singoli atti compiuti, debbano ritenersi pienamente operanti anche in assenza dell’iscrizione: con la conseguenza che il tardivo espletamento della formalità non può essere considerato fonte di pregiudizio al diritto di difesa”.

Della problematica, nel 2009, si erano occupate anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Il Consesso,  dopo aver premesso (Sez. U, Sentenza n. 40538 del 24/09/2009 Cc., dep. 20/10/2009, Rv. 244378 – 01) che “in tema di iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., il pubblico ministero, non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato, è tenuto a provvedere alla iscrizione della “notitia criminis” senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo” e che “ugualmente, una volta riscontrati, contestualmente o successivamente, elementi obiettivi di identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, è tenuto a iscriverne il nome con altrettanta tempestività”, aveva in quell’occasione espresso dubbi sulla sindacabilità, da parte del giudice, della tempestività dell’iscrizione nel registro degli indagati, essendo detta attività di spettanza del solo P.M.

La Corte, in particolare, aveva osservato come “il termine di durata delle indagini preliminari decorre dalla data in cui il pubblico ministero ha iscritto, nel registro delle notizie di reato, il nome della persona cui il reato è attribuito, senza che al G.i.p. sia consentito stabilire una diversa decorrenza, sicché gli eventuali ritardi indebiti nella iscrizione, tanto della notizia di reato che del nome della persona cui il reato è attribuito, pur se abnormi, sono privi di conseguenze agli effetti di quanto previsto dall’art. 407, comma terzo, cod. proc. pen., fermi restando gli eventuali profili di responsabilità disciplinare o penale del magistrato del P.M. che abbia ritardato l’iscrizione”.

Sul punto la riforma cd. Cartabia è intervenuta mediante l’introduzione dell’art. 335 quater c.p.p., disposizione che riconosce al giudice il potere di accertare – ed eventualmente retrodatare – l’iscrizione nel registro di cui all’art. 335 c.p.p.

Trattasi comunque di potere – quello riconosciuto dall’art. 335 quater c.p. – sottoposto a regole estremamente rigorose, tra cui: necessità di indicazione, a pena di inammissibilità, delle ragioni a sostegno della richiesta e degli atti del procedimento dai quali è desunto il ritardo; possibilità per il giudice di disporre la retrodatazione solo quando il ritardo sia inequivocabile e non giustificato; necessità di rispettare – nella proposizione della richiesta e sempre a pena di inammissibilità – il termine di venti giorni da quello in cui l’indagato ha avuto facoltà di prendere conoscenza degli atti dimostrativi del ritardo nell’iscrizione.

La richiesta genera un contraddittorio cartolare (a meno che il giudice investito della richiesta non ritenga opportuno un contraddittorio orale) ed è decisa con ordinanza.

Alfonso Furgiuele, professore di diritto processuale penale presso l’Università Federico II di Napoli, ha affrontato la questione delle registrazioni audiovisive e fonografiche nella fase delle indagini preliminari, precisando, in riferimento al riformulato art. 134 c.p.p., che l’obiettivo del nuovo metodo di documentazione degli atti è rendere – appunto mediante riproduzione audiovisiva o fonografica – più sicuro ed affidabile il risultato probatorio.

La riforma ha altresì inciso sulle modalità di documentazione dell’interrogatorio della persona in stato di detenzione, prevedendo l’obbligo – a pena di inutilizzabilità – di riproduzione audiovisiva o (nel solo in caso di indisponibilità di mezzi) fonografica.

Sono state poi introdotte disposizioni specifiche che affidano alla documentazione audiovisiva sia l’interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale ex art. 294 co. 6 bis c.p.p., sia quello dell’indagato non detenuto, sia – ancora – dell’indagato in procedimento connesso.

Quanto alle persone informate sui fatti, sia per la P.G. che per il PM l’art. 373 co. 2 quater c.p.p. prevede – in casi specifici e particolari (minori, infermi di mente e soggetti con particolari vulnerabilità) – la documentazione audiovisiva o fonografica. E’ invece prevista, ai sensi dell’art. 373 co. 2 ter c.p.p., la sola fonografia – se possibile – nei casi di reati di cui all’art. 407 co. 2 lett. a) c.p.p. e quando la persona informata sui fatti ne faccia richiesta.

L’obiettivo che il legislatore ha inteso perseguire con tali disposizioni è la tutela dell’indagato e l’offerta di solide garanzie per le fonti dichiarative non particolarmente qualificate.

Dubbia, però, la reale tenuta delle menzionate disposizioni. La maggior parte di esse, infatti, è priva di una sanzione nel caso in cui non siano rispettate le modalità di documentazione predette. Questo vuol dire che si continua a fare affidamento sulla capacità di verbalizzazione della P.G. e del P.M., senza tener conto che spesso – nella buona fede di chi redige l’atto – sono inseriti nel verbale profili da esso esulanti o comunque frutto di una percezione estremamente soggettiva del dichiarato.

Problematico in particolare il caso degli interrogatori investigativi – spesso utilizzati per sostenere l’accusa nei confronti di soggetti diversi dal dichiarante (es. interrogatorio di collaboratori di giustizia) – allorquando non vi sia stata verbalizzazione mediante videoripresa. Eppure detta videoripresa si palesa fondamentale sotto vari profili: si pensi es. ai riti alternativi, la cui scelta dipende senz’altro dalla presenza o meno di verbali di interrogatorio (e dunque dall’affidabilità della verbalizzazione) di imputati in procedimenti connessi; si pensi altresì all’art. 512 c.p.p., che impone una documentazione massimamente garantita del risultato acquisito agli atti del dibattimento; si pensi – ancora – all’art. 503 c.p.p. che nella disciplina delle contestazioni fa riferimento alle dichiarazioni precedentemente rese dalla parte esaminata.

Ulteriore problema relativo alla documentazione della dichiarazione di persona informata sui fatti è individuabile nella scelta di procedere con la videoregistrazione solo ove detta persona lo richieda: è raro che un dichiarante di bassa cultura, eventualmente intimidito dall’aver a che fare con la P.G. o con l’A.G., chieda la video o fonoregistrazione, cosi che la norma si mostra – in parte qua – davvero poco realistica.

Cetta Criscuolo, giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Torre Annunziata, ha relazionato in ordine al nuovo parametro di giudizio – previsto dal novellato art. 425 co. 3 c.p.p. quale presupposto per valutare l’emissione o meno di sentenza di non luogo a procedere – della “ragionevole previsione di condanna”.

Trattasi di modifica imposta dall’elevata percentuale di sentenze di proscioglimento rese all’esito dei dibattimenti, donde la necessità per il legislatore di riformare la disciplina posta a presidio del rinvio a giudizio rafforzando i filtri utili a valutare l’opportunità della prosecuzione dell’azione penale.

Al precedente criterio secondo cui la sentenza di non luogo a procedere andava pronunciata “ove gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio” è stato surrogato un nuovo parametro di giudizio, che impone la pronuncia di detta sentenza (di non doversi procedere) allorquando “gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna”.

Pertanto, mentre la previgente disciplina spingeva alla celebrazione del dibattimento ove “non superfluo”, innescando un momento valutativo per cui, anche in presenza di elementi contraddittori o insufficienti ma suscettibili di positiva evoluzione in sede processuale nel senso di una condanna, era auspicabile il rinvio a giudizio (in dubio pro actione), la novella impone di celebrare il processo solo ove “necessario”. Quanto assunto in fase di indagine va dunque valutato dal giudice hic et nunc, senza alcuna previsione prognostica in riferimento al dibattimento come momento di completamento e integrazione della prova, cosi che nel caso di insufficienza o contradditorietà degli elementi acquisiti si impone sentenza di non luogo a procedere (in dubio pro inactione).

Rimangono delle perplessità. Prima della riforma era pacifico che i profili di attendibilità della prova dichiarativa andavano vagliati in dibattimento. Si imponeva il rinvio a giudizio perché era fondamentale da parte del giudice del dibattimento la verifica della prova orale. Oggi, a fronte di una ricostruzione del fatto non pacifica e di dichiarazioni non convergenti, applicando il nuovo criterio della ragionevole previsione di condanna il giudice dell’udienza preliminare dovrebbe emettere sentenza di non luogo a procedere. Ma tanto preclude quella verifica dibattimentale ove trova la sua ragion d’essere il contradditorio tra le parti e ove molto spesso vengono chiariti i profili di dubbio emergenti dal fascicolo delle indagini. Il rischio della sentenza di non luogo a procedere è l’assenza di una verifica globale (quella dibattimentale) che assicuri un esame quanto più possibile pregnante e utile a comprendere quale sia la fonte più autentica. Senza un contradditorio di tal genere il rischio è anticipare forse troppo (e consapevolmente) la soglia della tutela della legalità e dell’interesse dello Stato a perseguire i reati in nome dell’efficienza.

Certo il giudice dell’udienza preliminare ha sempre più poteri istruttori che lo avvicinano al giudice del dibattimento. Alla modifica del parametro di giudizio si correla, ad esempio, quella dell’art. 421 co.1 c.p.p, operata ancora dal d. lgs. n. 150/22, per cui il giudice dell’udienza preliminare, a fronte di una imputazione formulata in maniera generica o non precisa dal PM, deve invitare quest’ultimo a riformularla a pena di nullità (sanzione, questa, prima non prevista).

Tale cambiamento è stato favorito da interventi graduali, che hanno progressivamente inciso in senso incrementale sui poteri del giudice dell’udienza preliminare: la legge Carotti, ad esempio, aveva introdotto l’art. 421 bis c.p.p., per cui quando le indagini sono incomplete il giudice dell’udienza preliminare indica al PM le ulteriori attività da espletare fissando un termine per il loro compimento e la data della nuova udienza.

Certo, se il giudice dell’udienza preliminare ha il potere/dovere di attivare poteri istruttori per ottenere un accertamento quanto più possibile completo, viene da chiedersi come possa parlarsi di una reale contrazione dei tempi del giudizio: semplicemente si sposta all’indietro il momento dell’accertamento e della verifica giudiziale. E allora il problema è capire se gli uffici GIP/GUP sono dotati di risorse sufficienti per un’operazione del genere. La questione, ancora una volta, è precostituire un apparato tale assicurare l’obiettivo appena esposto.

Giuseppe Stellato, avvocato del Foro di Santa Maria Capua Vetere, ha affrontato il tema delle nuove garanzie difensive in fase di indagine, focalizzando il discorso sull’art. 406 c.p.p. che, nella versione novellata, tipizza e restringe le cause di proroga delle indagini preliminari.

La citata disposizione, però, nulla di nuovo prevede in ordine al contraddittorio con la difesa dell’imputato, contraddittorio che (comma 3) rimane di tipo meramente cartolare senza cd. discovery degli atti. Trattasi di un pregiudizio per la difesa: vero è che va salvaguardata la segretezza del procedimento, ma detto interesse superiore non dovrebbe ritenersi leso da una eventuale discovery considerando che la proroga è solitamente richiesta a ridosso del termine di conclusione dell’indagine e a fronte di atti a volte già noti (es. pregressa applicazione di misura cautelare).

Permane, in altri termini, una menomazione delle garanzie difensive in fase di indagine, con particolare riferimento al contraddittorio procedimentale (il che è anomalo, considerando gli artt. 24 e 111 della Costituzione). Tanto genera forti perplessità, che inevitabilmente spingeranno i difensori a battersi per la celebrazione del dibattimento, unico luogo – dunque – ove il contraddittorio riceve piena tutela.

E’ forse questo il tassello mancante della riforma, con conseguente necessità di ulteriori interventi normativi tali da implementare le garanzie partecipative della difesa in fase procedimentale.

La sessione pomeridiana del convegno, moderata da Marinella Graziano, giudice presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, Sezione Misure di Prevenzione, ha cercato di tratteggiare il nuovo volto del processo penale, soffermandosi sul bilanciamento tra le esigenze di deflazione sottese alla riforma e la (per certi versi conseguente) crisi della sanzione tradizionale.

Giorgio Spangher, professore emerito di diritto processuale penale presso l’Università di Roma – La Sapienza, ha inquadrato la ratio socio politica sottesa alla riforma, che punta, tra l’altro, ad una velocizzazione dei tempi del processo (opzione, questa, non proprio in linea con la posizione espressa, di recente, dalla Consulta con sent. n. 111/22, secondo cui il processo, più che “breve”, deve essere “giusto”, criteri – i due – non sempre compatibili e bilanciabili).

Non vi sono dubbi che quello emergente dalla riforma sia un processo “a trazione anteriore”, chiaramente sbilanciato sulla fase delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare (ove sono concentrate la gran parte delle decisioni rilevanti per la vita del fascicolo). Tanto ha determinato un mutamento del ruolo del giudice, originariamente (codice del 1930) giudice istruttore, poi (tradizionale impostazione del codice del 1988) giudice dell’atto, oggi (riforma Cartabia) giudice del procedimento (quasi giudice del fascicolo), che controlla, presiede e decide ogni vicenda dell’indagine (iscrizioni, proroghe, tempi dell’esercizio dell’azione penale, misure cautelari, controllo sull’imputazione prima e dopo l’iscrizione).

Il potenziamento dell’udienza preliminare è stato tale da aver determinato l’introduzione, in riferimento alle fattispecie monocratiche, di un meccanismo analogo, ossia l’udienza predibattimentale.

Ulteriore novità della riforma è stata l’introduzione di un nuovo percorso volto a ripensare l’esito del giudizio, consentendo al giudice – in caso di condanna e nei termini di legge – l’applicazione delle sanzioni sostitutive ai sensi dell’art. 545 bis c.p.p.

Luigi Giordano, sostituto procuratore generale presso la Corte di Cassazione, si è occupato della problematica dei riti alternativi e dell’incidenza della riforma rispetto ad essi.

Il rinnovato interesse per il “fattore tempo” (riduzione dei tempi dei processi e smaltimento veloce del contenzioso) ha imposto all’interprete la massima valorizzazione di detti riti, fino ad oggi deficitari nella prassi dei tribunali.

Il cambiamento, però, pare essere stato più teorico che pratico.

In tema di giudizio abbreviato condizionato, la novella dell’art. 438 co. 5 c.p.p. (il giudice dispone il giudizio abbreviato se, tenuto conto degli atti già acquisiti ed utilizzabili, l’integrazione probatoria richiesta risulta necessaria ai fini della decisione e il giudizio abbreviato realizza comunque una economia processuale, in relazione ai prevedibili tempi dell’istruzione dibattimentale) era stata già preconizzata in sede giurisprudenziale, ove detto rito era stato subordinato all’indispensabilità della prova richiesta della parte (in alcune massime la Corte di Cassazione aveva ad esempio ritenuto corretto il rigetto di una richiesta di abbreviato condizionato subordinata all’escussione di plurimi testimoni).

E’ dunque compito del giudice valorizzare lo spirito della riforma e sposare la richiesta di abbreviato condizionato ogniqualvolta la condizione sia più “economica” rispetto alla celebrazione del processo globalmente intesa.

E, peraltro, l’imputato che non impugna la condanna in abbreviato riceve un ulteriore sconto di un sesto della pena.

In merito al patteggiamento, le modifiche sono minime: si è estesa l’area della negozialità allargando il patteggiamento anche alle pene accessorie (applicazione e durata) e alla confisca facoltativa.

Quanto ai decreti penali di condanna, il problema afferisce a quelli non opposti e pertanto definitivi (quelli opposti generano dibattimenti che per gran parte si concludono con sentenze di assoluzione o declaratorie di prescrizione). Ebbene i decreti non opposti molto di rado vengono eseguiti: si assiste ad un massiccio fenomeno di inadempimento delle sanzioni pecuniarie irrogate (in Italia nel 2021 è stato recuperato solo l’1% delle pene pecuniarie irrogate e si stima che l’ammontare delle somme che lo Stato italiano dovrebbe recuperare a titolo di pena pecuniaria è addirittura superiore alla cifra complessiva erogata con il PNNR).

In conclusione, il relatore ha sostenuto come è difficile che il recupero dei tempi che la riforma Cartabia ha di mira avverrà attraverso il ricorso ai riti alternativi: il dibattimento continuerà ad essere il centro della intera vicenda procedimentale (cosi che l’obiettivo di recupero dell’arretrato sarà difficile da raggiungere).

Mariano Menna, professore ordinario di diritto processuale penale presso l’Università degli Studi della Campania “Luigi Vanvitelli”, ha discusso del principio di oralità tra videoregistrazione delle prove dichiarative e rinnovazione dibattimentale.

La videoregistrazione, ad opinione del relatore, è strumento sufficiente alla salvaguardia del contraddittorio. La vecchia concezione della immediatezza era imperniata sull’identità tra il giudice che decide e la fonte di prova, con il precipuo fine di coglierne anche gli atteggiamenti non verbali (gestualità, colore del viso, particolari espressioni del volto ecc.) e decidere elaborando, oltre al dichiarato, il significato di quei comportamenti. L’elaborazione del comportamento non verbale era aspetto peculiare del libero convincimento: il giudice poteva non tener conto delle proposte valutative di parte e in maniera esclusiva poteva attribuire a detti atteggiamenti il significato ritenuto proprio.

Detta idea di immediatezza va aggiornata, essendo stata prevista – nel corso del tempo – l’utilizzazione nel processo penale di atti compiuti nel contraddittorio innanzi ad altro giudice: la regola che pare scolpita in modo assoluto nell’art. 525 c.p.p. è dunque oggi derogata in più punti. L’immediatezza è – in tale nuova versione, alla luce della possibilità di utilizzazione di atti assunti innanzi a magistrato diverso – da intendere come “immediatezza-partecipazione”, una dimensione in cui il giudice – nel rispetto della sua terzietà – non può non confrontarsi con le proposte valutative dei contendenti (soprattutto nell’analisi dei comportamenti non verbali), valorizzando nella massima misura possibile coloro che hanno partecipato al contraddittorio e adottando quasi un atteggiamento di self-restraint, limitandosi a stabilire l’incompatibilità dei significati dati dalle parti con quelli risultanti in maniera evidente dal contraddittorio stesso. Il giudice non sviluppa argomenti da solo, ma dimensiona l’incompatibilità di un argomento forgiato dalla parte rispetto a situazioni di evidenza. Il significato non verbale della prova dichiarativa va letto dalla parte e il giudice deve valutare la bontà di detta lettura.

Il problema è come può una parte argomentare sulla base di un comportamento non verbale se non consente al giudice di stabilire un rapporto diretto con quel dato. La risposta è che il semplice dato, in un processo accusatorio, non può vivere senza la traduzione in termini verbali: al giudice è sufficiente la traduzione in termini verbali, analogici, di quel dato (in sentenza il decidente porterà il dato verbale, non il rapporto empatico con quel dato). E’ dunque sufficiente anche un verbale altamente particolareggiato per consentire ad un giudice terzo di rendersi conto di un accadimento a cui non ha partecipato e rispetto al quale le parti hanno il diritto di argomentare.

Non spaventa, dunque, la mediazione (cioè non immediatezza) tra il momento acquisitivo del dato e il momento decisorio.

E se addirittura un verbale altamente particolareggiato è sufficiente a consentire la valutazione di una prova dichiarativa, a maggior ragione le parti potrebbero argomentare convenientemente (e il giudice valutare) sulla base di una videoregistrazione di detta prova.

Ci si chiede, dunque, che senso abbia – a fronte di tale ricostruzione – la necessità di “rinnovazione” del momento istruttorio prevista dal nuovo art. 495 co. 4 ter c.p.p. in caso di mutamento del giudice nel corso del dibattimento.

La disposizione prevede che, in caso di mutamento del giudice, su richiesta di parte il decidente deve procedere a rinnovare l’istruzione dibattimentale e ad acquisire nuovamente il dato probatorio, a meno che detto dato non sia stato già documentato mediante mezzi di riproduzione audiovisiva. In ogni caso, prevede la disposizione, la rinnovazione dell’esame (anche in caso di videoregistrazione) può essere disposta quando il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze. Ma quali sono dette esigenze? Il legislatore non ha fatto altro che richiamare i principi sanciti dall’art. 190 bis c.p.p., ove si prevede che la rinnovazione della prova dichiarativa è soggetta o alla presenza del tema diverso o alla necessità in relazione a particolari esigenze. Pertanto, ritornando all’art. 495 co. 4 ter, leggendo la disposizione in una logica sistematica, la rinnovazione in caso di mutamento del giudice dovrebbe riguardare solo temi nuovi e diversi da quelli già dedotti; nell’ipotesi invece di temi e dati già acquisiti, sarà sufficiente la videoregistrazione e la rinnovazione potrà essere disposta solo quando il giudice la ritenga necessaria sulla base di specifiche esigenze riguardanti i fatti secondari interni al procedimento probatorio (fatti che si sono verificati nel processo di acquisizione del dato ma che costituiscono un novum rispetto al rapporto con la fonte di prova che c’è stato innanzi al precedente giudice, es. verifica della credibilità di un teste).

Giovanni Caparco, giudice del dibattimento presso il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, ha affrontato il tema delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi alla luce dell’art. 545 bis c.p.p., di recente introduzione.

Lo scopo della riforma è il superamento della concezione “carcero centrica” nell’esecuzione delle pene detentive brevi posto che, anche alla luce degli altri ordinamenti europei, è dato noto quello per cui l’esecuzione carceraria di pene detentive di breve durata comporta costi individuali e sociali sicuramente maggiori rispetto ai risultati poi ottenuti in tema di rieducazione e contenimento del pericolo di recidiva. Dette pene, proprio per la ridotta estensione cronologica, non sono in altri termini idonee ad assicurare un serio e prolungato programma di rieducazione del condannato.

Si è dunque inteso operare sulle sanzioni sostitutive di cui alla legge n. 689/1981, con l’intento di conferire maggiore effettività alla pena irrogata dal giudice della cognizione, fino a poco tempo fa rigido simulacro destinato ad infrangersi contro rigidi meccanismi applicativi che ne impedivano la piena operatività. L’idea è stata quella di spostare il baricentro di dette pene dall’esecuzione alla cognizione, conferendo maggiore efficienza al processo penale nel suo complesso ed evitando il fenomeno, diffuso in passato, dei cd. liberi sospesi (soggetti condannati irrevocabilmente in attesa della deliberazione del magistrato di sorveglianza in ordine alla richiesta di ammissione a pene alternative a distanza di molti anni dalla sospensione dell’ordine di esecuzione).

La riforma ha inciso su detti aspetti in primo luogo sotto un profilo terminologico. Il nuovo art. 545 bis si esprime in termini di “pene sostitutive” e non di “sanzioni sostitutive”, a significare che quelle indicate dall’art. 53 L. n. 689/1981 sono vere e proprie pene e non surrogati o adattamenti della pena principale (dato, questo, che emerge plasticamente anche dalla formulazione del nuovo art. 20 bis c.p., che evidenzia come trattasi di vere e proprie pene, disciplinate dalla parte generale del codice penale e suscettibili di essere applicate al ricorrere di determinate condizioni ad un novero abbastanza ampio di reati).

E’ stato poi innalzato il limite di pena sostituibile (da due a quattro anni), con conseguente venir meno della sovrapposizione tra l’area della pena sospendibile e quella della pena sostituibile (il che in passato aveva contribuito alla crisi di marginalità delle pene sostitutive). Dette pene sostitutive, prima condizionalmente sospendibili, oggi non lo sono più nella nuova prospettiva della riforma.

Quanto alla tipologia, sono state espunte la semidetenzione e la libertà condizionale, cosi che dette sanzioni sono oggi la semilibertà, la detenzione domiciliare, il lavoro di pubblica utilità e la pena pecuniaria sostitutiva, tra loro strutturate in modo piramidale e applicabili in ragione del quantum di pena irrogata.

Quanto al momento dell’esercizio da parte del giudice del potere/dovere di applicazione della pena sostitutiva, detto esercizio troverà spazio subito dopo la lettura del dispositivo, allorquando la pena è determinata entro i quattro anni, non ricorrono margini per la sospensione condizionale e l’imputato non si trova nelle condizioni ostative di cui all’art. 59 legge n. 689/1981.

Fondamentale, nell’applicazione della pena sostitutiva, il consenso dell’imputato, che potrà essere espresso personalmente o a mezzo di procuratore speciale (il giudice può prescindere da detto consenso solo in caso di applicazione di pena pecuniaria sostitutiva).

Le regole poste a presidio dell’esercizio del potere del giudice di applicare le pene sostitutive sono previste dall’art. 58 legge 589/1981, afferenti sia all’an (parametrato ai criteri di dosimetria della pena ex art. 133 c.p.) sia al quomodo della sostituzione sia alla fisionomia che alla singola pena sostitutiva sarà data nel caso concreto. Importante, in tal senso, il contributo dell’UEPE che potrà essere eventualmente interpellata (con necessità di rispondere entro 60 giorni) dal giudice, dopo la lettura del dispositivo, in ordine allo statuto della pena sostitutiva da irrogare nel caso concreto. Fondamentale, in tal senso, la sottoscrizione di protocolli e l’avvio di prassi operative volte a creare una uniformità nell’applicazione di dette sanzioni.

Hanno chiuso il dibattito gli interventi di Roberto D’Auria e Rossella Marro.

Roberto D’Auria, membro togato del Consiglio Superiore della Magistratura, ha auspicato un sempre maggiore impegno del CSM nella risoluzione delle plurime problematiche collaterali rispetto alle novità introdotte dalla riforma, sottolineando comunque la centralità della politica nella predisposizione degli strumenti idonei a far fronte alle nuove e sempre maggiori competenze attribuite ai giudici (es. riempimento dei vuoti d’organico). Detti strumenti dovranno essere prima di tutto tecnologici (onde affrontare ad esempio il nuovo processo penale telematico), di assistenza sistemistica, di personale tecnico: fondamentale, in tal senso, la presenza di tavoli tecnici tra il CSM ed il Ministero della Giustizia che possano garantire un dialogo costante.

Il Consiglio dovrà essere celere nel vagliare le plurime deliberazioni dei capi degli uffici che daranno attuazione pratica alla riforma con riorganizzazioni tabellari (si pensi es. all’udienza predibattimentale) e dovrà essere attento – nelle valutazioni di professionalità e nei procedimenti disciplinari – a garantire la serenità di giudizio del magistrato a fronte delle importanti innovazioni introdotte.

Rossella Marro, Presidente nazionale di Unità per la Costituzione, ha osservato – a fronte di un impianto della riforma definito condivisibile – come l’attuazione della novella dipenda dalla capacità degli operatori del diritto di adeguarsi al cambio di mentalità correlato al nuovo sistema, senza dubbio improntato ad una maggiore agilità e flessibilità dei procedimenti.

Il cambiamento della regola di giudizio, improntato ora alla ragionevole previsione di condanna, accomuna giudici e pubblici ministeri: emerge forte l’intenzione del legislatore di attrarre sempre più il pubblico ministero all’interno dell’ordine giudiziario, posto che detto soggetto è destinatario dello stesso metro di giudizio imposto al giudice e dunque primo garante del rispetto del principio di legalità nel procedimento penale.

Tanto rende difficile immaginare una separazione delle carriere posta, appunto, l’idea del legislatore di rendere quanto più possibile omogenee le figure giudicanti e inquirenti, assoggettate – come detto – alla stessa procedura valutativa in ordine all’esercizio dell’azione penale.

Ulteriore aspetto di forte innovazione afferisce alle pene sostitutive. Il potenziamento di detti strumenti in fase di cognizione può disorientare: il giudice decide sul fatto. Seguire l’andamento della pena anche nella fase esecutiva impone, ancora una volta, un cambio di mentalità nel senso della necessità di sviluppare un nuovo angolo visuale sconosciuto, fino ad oggi, al giudice della cognizione, con conseguente auspicabilità di un sempre maggiore confronto con l’UEPE (che, ovviamente, dovrà essere potenziata con mezzi e personale in modo da garantire l’effettività della riforma) e con la magistratura di sorveglianza.

Fondamentale sfruttare l’occasione offerta dal potenziamento delle pene sostitutive. Dette pene non servono soltanto a fronteggiare il sovraffollamento delle carceri, ma hanno la funzione di rendere effettiva la sanzione. A detta effettività contribuirà, ancora una volta, la predisposizione di mezzi, strumenti e personale tali da contenere e sviluppare il forte impatto della novella sul sistema attuale.

In ultimo, si deve prestare attenzione a rincorrere l’obiettivo di una giustizia veloce, perché tale velocità può generare un sistema frettoloso e di conseguenza, in alcuni casi, inficiare un processo che deve essere prima di tutto giusto. Fondamentale, in tale ottica, non riversare sul sistema magistratura plurime istanze che ben potrebbero essere evase valorizzando enti e soggetti diversi (o il cui intervento è antecedente a quello del magistrato), che potrebbero garantire un filtro rispetto alle richieste rivolte ai giudici e snellire il coacervo di sollecitazioni che costantemente impegnano il sistema giustizia.

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