La legge di riforma della Giustizia Penale (n. 134 del 2 settembre 2021, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 4 ottobre 2021), contenente la delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari si compone di due articoli: L’art. 1 contiene una serie di deleghe al Governo, che dovranno essere esercitate entro il termine di un anno dall’entrata in vigore della legge, per la modifica del codice di procedura penale, delle norme di attuazione del codice di procedura penale, del codice penale e della collegata legislazione speciale nonché delle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, per la revisione del regime sanzionatorio dei reati e per l’introduzione di una disciplina organica della giustizia riparativa e di una disciplina organica dell’ufficio per il processo; L’art. 2 contiene, invece, norme di immediata attuazione che intervengono sul regime della prescrizione, della durata dei giudizi di impugnazione nonché in tema di garanzie difensive e di tutela delle vittime del reato. Ebbene, entrambi gli articoli avranno o hanno già avuto, per la parte delle norme immediatamente applicabili, un forte impatto anche sul giudizio di appello a causa della introduzione di importanti modifiche legislative peraltro oggetto di forte critica da parte dell’Avvocatura, oltre che di tutti gli altri operatori giudiziari, come avviene comunque sempre in caso di norme frutto di un compromesso politico, nella specie imposto dalla patologica durata del processo penale che rappresenta una violazione del principio, costituzionale e convenzionale, della ragionevole durata del processo e della presunzione di innocenza e nel contempo, una frustrazione delle esigenze di giustizia della vittima. In ogni caso, la riduzione, nella misura del 25%, entro il 2026, dei tempi di durata dei giudizi penali è stata prevista dalla Commissione Europea tra le condizioni per l’erogazione all’Italia dei fondi Next Generation EU e quale obiettivo del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza).

E’ fuori di dubbio che vi sia necessità di una drastica riduzione dei tempi drammaticamente lunghi della durata del processo penale in Italia, dovuti principalmente, in ordine di importanza causale: a mancate tempestive, serie e coraggiose depenalizzazioni; a miopi ripetuti mancati investimenti nel settore giustizia con conseguenti plurime drammatiche carenze di risorse umane, tecniche e logistiche, le quali non hanno consentito sinora di far fronte in maniera efficiente, adeguata e tempestiva al carico notevolissimo di lavoro che investe quotidianamente gli uffici giudiziari; a mancate riforme organiche di riordino della geografia delle sedi giudiziarie, dovute anche a campanilismi e timidezza organizzativa influenzata da pressioni locali, anche se si deve dare atto che alcuni anni fa è andata in porto la soppressione delle sezioni distaccate di Tribunale, che, in sede di annuncio, anche io ritenevo impossibile a fronte degli scioperi e delle pressioni politiche che si erano immediatamente scatenati; a norme procedurali prive di snellezza, spesso inutilmente farraginose, senza effettivo vantaggio in termini di garanzie difensive, foriere di offrire il fianco anche a strumentali strategie difensive con allungamenti dei tempi processuali; a mancata completa evoluzione tecnologica della informatizzazione processuale ed a difetti organizzativi della macchina giudiziaria, con situazione peggiore in alcuni uffici e con problematiche non uniformi nei diversi distretti giudiziari.

I dati statistici, limitandoci in questo momento al secondo grado di giudizio, sono drammatici: la fase di appello in Italia dura mediamente 850 giorni e in certe corti di appello la durata media dei processi è addirittura enormemente superiore arrivando a 6 o 7 anni (pari a 2160 o 2520 giorni), a fronte di una media europea di soli 104 giorni. Conseguentemente anche il numero di prescrizioni dichiarate nel 2019 nelle corti di appello italiane è stato alto (pari al 25,8% delle definizioni, dato complessivo nazionale peraltro diversamente distribuito sul territorio, secondo i risultati della relazione finale della Commissione Lattanzi, da cui emerge altresì che l’incidenza della prescrizione è di circa il 38% durante le indagini, del 32% nel giudizio di primo grado, del 26%, appunto, nel giudizio d’appello, dello 0,8% nel giudizio di legittimità, giudizio quest’ultimo in cui la prescrizione incide del tutto marginalmente in considerazione della percentuale rilevantissima di dichiarazioni di inammissibilità del ricorso che “blocca” la declaratoria di prescrizione). Tali ritardi nella celebrazione dei processi hanno, inoltre, originato condanne dello Stato italiano da parte della Corte europea dei Diritti umani per violazione dell’art.6 CEDU, che sancisce il diritto per ogni cittadino ad avere un processo in tempi ragionevoli, e dell’art. 13 della stessa CEDU, che sancisce il diritto ad un ricorso effettivo, nonché un perverso effetto paradosso di ulteriore intasamento degli uffici giudiziari dato che si sono moltiplicati anche i ricorsi in base alla legge Pinto, con richieste di rimborsi e indennizzi da parte dello Stato che non hanno pari in Europa avendo comportato una spesa per lo Stato Italiano, negli ultimi 5 anni, di 573 milioni di euro per un totale di casi coinvolti pari a 95.412.

E’ quindi indubbio che i tempi del processo penale italiano sono insostenibili, stante la grande sofferenza arrecata a tutte le persone coinvolte, le quali subiscono un significativo pregiudizio ai loro interessi morali, sociali ed economici, nonché l’incalcolabile danno alla collettività e l’arretramento delle garanzie che devono esservi in uno Stato democratico. Tutti sono d’accordo sulla necessità che i tempi della giustizia debbano essere ridotti (anche se poi il settore penale ha indubbiamente tempi migliori di quelli della giustizia civile a causa dell’incidenza della prescrizione e dei tempi assai rapidi del giudizio di legittimità avendo la Corte Suprema utilizzato la inammissibilità del ricorso in percentuale massiccia, che raggiunge l’85% per cento, così riducendo drasticamente i tempi attraverso un procedimento snellissimo). Assai dubbio mi pare invece che si potrà raggiungere il risultato che il legislatore si è proposto senza una contemporanea riduzione dei processi in entrata.

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Quanto all’art. 1 e cioè alla parte della normativa che fissa i criteri cui dovrà attenersi la normativa delegata, segnalo, stante il tema del mio intervento che è relativo al giudizio di appello, il punto 6 lett. f) (Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti disposizioni dirette a rendere il procedimento penale più celere ed efficiente nonché a modificare il codice di procedura penale in materia di notificazioni sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: f) prevedere che, nel caso di impugnazione proposta dall’imputato o nel suo interesse, la notificazione dell’atto di citazione a giudizio nei suoi confronti sia effettuata presso il domicilio dichiarato o eletto, ai sensi della lettera a) del comma 13 del presente articolo), il punto 7 lett. a) (7. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, il decreto o i decreti legislativi recanti disposizioni dirette a rendere il procedimento penale più celere ed efficiente nonché a modificare il codice di procedura penale in materia di processo in assenza sono adottati nel rispetto dei seguenti princìpi e criteri direttivi: a) ridefinire i casi in cui l’imputato si deve ritenere presente o assente nel processo, prevedendo che il processo possa svolgersi in assenza dell’imputato solo quando esistono elementi idonei a dare certezza del fatto che egli è a conoscenza della pendenza del processo e che la sua assenza è dovuta a una sua scelta volontaria e consapevole) e h) (prevedere che il difensore dell’imputato assente possa impugnare la sentenza solo se munito di specifico mandato, rilasciato dopo la pronuncia della sentenza; prevedere che con lo specifico mandato a impugnare l’imputato dichiari o elegga il domicilio per il giudizio di impugnazione; prevedere, per il difensore dell’imputato assente, un ampliamento del termine di impugnazione), il punto 13 lettere da a) a h)  (13. Nell’esercizio della delega di cui al comma 1, i decreti legislativi recanti modifiche al codice di procedura penale in materia di appello, di ricorso per cassazione e di impugnazioni straordinarie, per le parti di seguito indicate, sono adottati nel rispetto dei seguenti principi e criteri direttivi: a) fermo restando il criterio di cui al comma 7, lettera h), dettato per il processo in assenza, prevedere che con l’atto di impugnazione, a pena di inammissibilità, sia depositata dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di impugnazione; b) abrogare gli articoli 582, comma 2, e 583 del codice di procedura penale e coordinare la disciplina del deposito degli atti di impugnazione con quella generale, prevista per il deposito di tutti gli atti del procedimento; c) prevedere l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa; d) disciplinare i rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione e l’azione civile esercitata nel processo penale, nonchè i rapporti tra la medesima improcedibilità dell’azione penale e la confisca disposta con la sentenza impugnata; adeguare conseguentemente la disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili, assicurando una regolamentazione coerente della materia; e) prevedere l’inappellabilità della sentenza di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità; f) prevedere l’inappellabilità della sentenza di non luogo a procedere nei casi di cui alla lettera c); g) prevedere la celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore richiedano di partecipare all’udienza; h) eliminare le preclusioni di cui all’articolo 599-bis, comma 2, del codice di procedura penale), ma in particolare il punto 13 lett i)  (prevedere l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato) e lett. l) (modificare l’articolo 603, comma 3-bis, del codice di procedura penale prevedendo che, nel caso di appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia limitata ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado) su cui si sono appuntati i maggiori rilievi critici degli studiosi del diritto.

La prima parte delle modifiche costituisce in realtà un adeguamento ad orientamenti anche giurisprudenziali diretti a prevenire condotte dilatorie dell’imputato e di coordinamento con il processo in assenza, nel qual caso è previsto che la impugnazione del difensore sia possibile solo se munito di specifico mandato rilasciato dopo la pronuncia della sentenza, nonché a realizzare un  ampliamento dei casi di inappellabilità, in un’ottica deflattiva, delle sentenze di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena pecuniaria o con pena alternativa e delle sentenze di condanna a pena sostituita con il lavoro di pubblica utilità. Sempre in un’ottica deflattiva e di riduzione dei tempi del processo di impugnazione si inseriscono anche la previsione della celebrazione del giudizio di appello con rito camerale non partecipato, salvo che la parte appellante o, in ogni caso, l’imputato o il suo difensore richiedano di partecipare all’udienza e la eliminazione delle preclusioni di cui all’articolo 599-bis, comma 2, del codice di procedura penale e cioè in caso di concordato anche con rinuncia parziale o totale ai motivi di appello (cd patteggiamento in appello), attualmente escluso nei procedimenti per i delitti di cui all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater e nei procedimenti per i delitti di cui agli articoli 600-bis, 600-ter, primo, secondo, terzo e quinto comma, 600-quater, secondo comma, 600-quater.1, relativamente alla condotta di produzione o commercio di materiale pornografico, 600-quinquies, 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies del codice penale, nonché in quelli contro coloro che siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

La regola del rito camerale non partecipato in appello, sia pure con la previsione che l’appellante, l’imputato o il suo difensore possano espressamente chiedere di partecipare, può suscitare qualche perplessità. Nonostante il principio di pubblicità non sia espressamente incluso tra i paradigmi costituzionali del processo, il nostro attuale ordinamento, all’art. 471 cpp, prevede la pubblicità quale regola generale dell’udienza dibattimentale, tutelata a pena di nullità, salvi casi eccezionali in cui il giudice può o deve procedere a porte chiuse, a garanzia di interessi della collettività, dello Stato, o di soggetti coinvolti nel procedimento. Accanto a questa disciplina, non mancano diversi riti celebrati in camera di consiglio, senza la presenza del pubblico e variamente articolati: si va dalla forma ordinaria ex art. 127 cpp, nella quale le parti sono libere di partecipare o non all’udienza, a quella dell’art. 666 cpp, che richiede la presenza necessaria del difensore e del pubblico ministero, fino alla camera di consiglio non partecipata, prevista dall’art. 611 cpp per il giudizio di cassazione rispetto a provvedimenti non emessi in dibattimento, nella quale il contraddittorio è meramente cartolare.

Ora, ferma la legittimità di tali procedimenti, i quali perseguono innegabili esigenze di semplificazione ed economia processuale, la Corte europea vi ha riscontrato alcune criticità, arrivando a sentenze di condanna per l’Italia, le quali hanno inevitabilmente avviato un processo di adeguamento interno agli standard convenzionali. La prima di tali pronunce, la sentenza Bocellari e Rizza c. Italia del 2007, ha investito il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione reali, tenuto in camera di consiglio, rispetto al quale la Corte europea ha ritenuto violato l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione edu, poiché non era prevista dalla normativa in materia la possibilità, per il prevenuto, di richiedere lo svolgimento di un’udienza pubblica. La Corte, infatti, pur riconoscendo l’esigenza di tutelare interessi superiori, nonché il carattere tecnico del procedimento, ha sottolineato come non possa ignorarsi l’elevata posta in gioco delle procedure di prevenzione, destinate a incidere sulla situazione patrimoniale del giustiziabile: «davanti a tale posta in gioco, non si può affermare che il controllo del pubblico non sia una condizione necessaria alla garanzia del rispetto dei diritti dell’interessato». Il principio è stato confermato anche in successive pronunce, sempre relative al procedimento di prevenzione.

La medesima conclusione è stata affermata dalla sentenza Lorenzetti c. Italia del 2008, con riferimento al procedimento per la riparazione dell’ingiusta detenzione. In quell’occasione, i giudici di Strasburgo hanno escluso che il procedimento riguardasse questioni di carattere tecnico, le quali avrebbero giustificato l’assenza di pubblicità, perché – al contrario – i giudici interni sono chiamati a valutare se l’interessato, con la sua condotta, abbia contribuito alla propria detenzione intenzionalmente o per colpa grave. Trattandosi di questioni di fatto, non può essere esclusa a priori la presenza del pubblico e il suo controllo, così dovendo quanto meno consentire al ricorrente di sollecitare un’udienza pubblica.

Da ultimo, merita di essere menzionata anche la nota sentenza Grande Stevens c. Italia del 2014, relativa al procedimento di irrogazione delle sanzioni per «manipolazione del mercato». Dopo aver affermato il carattere penale delle sanzioni in questione, nel merito, la Corte europea ha ammesso che non è contrario all’art. 6 della Convenzione un procedimento amministrativo che porti all’irrogazione di sanzioni, senza rispettare tutti i crismi dell’equo processo, purché però tale decisione sia sottoposta successivamente al controllo di un organo giudiziario avente piena giurisdizione. Nel caso in questione, le sanzioni inflitte erano prima state contestate dinanzi alla corte d’appello e, in seguito, alla Corte di cassazione, superando in tal modo i precedenti deficit di garanzia processuale, a eccezione di quello relativo alla pubblicità dell’udienza. In effetti, l’appello si era svolto con un rito camerale, benché la controversia fosse inerente a fatti, e le sanzioni, al di là del loro valore economico, avessero un carattere infamante, potendo pregiudicare l’onorabilità e il credito professionale dei destinatari. Non poteva neanche darsi peso al fatto che un’udienza pubblica fosse stata tenuta in Cassazione, poiché «quest’ultima non era competente per esaminare il merito della causa, accertare i fatti e valutare gli elementi di prova». In definitiva, i giudici di Strasburgo hanno riscontrato una violazione dell’art. 6 Cedu proprio per la mancanza della garanzia della pubblicità, impiegando, anche nel contesto di un procedimento amministrativo avente, però, caratteristiche penali, i criteri della natura delle questioni trattate e della rilevanza della posta in gioco.

Le pronunce della CEDU avevano inevitabilmente smosso le acque e innescato nell’ordinamento nazionale un percorso di adattamento ai dicta europei, percorso che aveva preso il via proprio dal procedimento di prevenzione. Innanzitutto, in materia di misure di prevenzione, era intervenuta la Corte costituzionale con la sentenza n. 93 del 2010, la quale aveva fatto propria l’impostazione della Corte europea, dichiarando costituzionalmente illegittimi gli articoli che all’epoca ne disciplinavano il procedimento di applicazione, per violazione dell’art. 117, comma 1, Cost., nella parte in cui non consentivano che, su istanza degli interessati, il procedimento si svolgesse nelle forme dell’udienza pubblica davanti al tribunale e alla corte d’appello. Secondo la Consulta, l’assenza nella Costituzione di un esplicito riferimento al principio di pubblicità non ne scalfisce il valore costituzionale, poiché «la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione. La Corte costituzionale ha invece escluso la medesima conclusione, nell’ambito del procedimento di prevenzione, con riferimento al giudizio di legittimità, il quale si svolge nelle forme dell’udienza camerale non partecipata. La relativa questione di legittimità costituzionale è stata rigettata sul presupposto che il principio affermato dalla Corte di Strasburgo in materia di pubblicità fosse riferito unicamente ai giudizi di merito: infatti, secondo la Consulta, la mancata menzione del giudizio di legittimità assume «una valenza ad excludendum». Considerando la natura dei giudizi di impugnazione e, in special modo, di quello di legittimità, richiamando anche la consolidata giurisprudenza europea sul punto, si afferma come «la valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso alla sala d’udienza (…), si apprezza, difatti (…), in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative».

In seguito a tali pronunce, è intervenuto il legislatore, il quale ha provveduto a riformare la materia delle misure di prevenzione con il d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, di fatto recependo agli artt. 7 e 10 la disciplina elaborata dalle Corti. Nel 2012 un’analoga questione di legittimità costituzionale è stata sollevata relativamente al procedimento di riparazione per l’ingiusta detenzione, sulla scorta della pronuncia europea in materia, nella parte in cui non consente appunto l’udienza pubblica su istanza degli interessati. In quell’occasione, però, la Consulta aveva dichiarato inammissibile la questione per difetto di rilevanza, poiché nel giudizio a quo la parte non aveva mai richiesto la trattazione pubblica.

Nonostante non vi fosse stata una pronuncia della Corte europea, la Corte Costituzionale ha poi dichiarato incostituzionale il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza di fronte al magistrato di sorveglianza e al tribunale di sorveglianza, nella parte in cui non prevede la possibilità di un’udienza pubblica su richiesta dell’interessato. La conclusione raggiunta è la stessa delle sentenze precedenti: la Corte costituzionale ha ritenuto applicabile la giurisprudenza europea in materia di misure di prevenzione e ingiusta detenzione, sottolineando come nel caso di specie si tratti di un procedimento estremamente delicato, in cui si accerta la pericolosità sociale del soggetto, foriera di conseguenze rilevanti per la libertà personale dell’individuo. L’elevata posta in gioco e il carattere non tecnico del procedimento rendono la pubblicità, quanto meno su richiesta, una garanzia indispensabile ai fini dell’attuazione del giusto processo. Le stesse argomentazioni hanno poi, come detto, portato alla pronuncia di incostituzionalità delle norme disciplinanti il procedimento davanti al tribunale di sorveglianza, nella parte in cui appunto non prevedono la pubblicità su istanza degli interessati. Nello stesso anno, la Corte costituzionale ha dichiarato illegittime, per lo stesso motivo, anche le norme relative al procedimento di opposizione contro l’ordinanza applicativa della confisca, trattandosi di procedura incidente su un diritto «munito di garanzia convenzionale», caratterizzata da accertamenti di fatto e da un’elevata posta in gioco, il cui esito può pregiudicare anche un soggetto terzo rimasto del tutto estraneo al giudizio di cognizione. A fronte di tali caratteristiche, anche in questo caso, non è ammissibile una deroga assoluta al principio di pubblicità.

Da ultimo, va segnalata una recente pronuncia in cui la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale del procedimento di riesame delle misure cautelari coercitive, sollevata proprio per l’impossibilità di richiedere un’udienza pubblica. Pur ribadendo il carattere costituzionale del principio di pubblicità delle udienze, la Consulta ha evidenziato il carattere incidentale e cartolare del procedimento in esame, non finalizzato all’acquisizione della prova, ma a una decisione che, seppur limitativa della libertà personale dell’individuo, «è intrinsecamente provvisoria, essendo destinata ad essere superata dagli esiti del successivo giudizio», nel quale, peraltro, «il principio di pubblicità trova il suo naturale sbocco, satisfattivo della relativa esigenza costituzionale». In sostanza, nel procedimento di riesame, l’assenza di pubblicità è il frutto «di un ragionevole esercizio della discrezionalità che al legislatore compete in materia», tenuto conto anche delle comprensibili esigenze di speditezza e segretezza esterna degli atti di indagine che lo caratterizzano, a differenza di quanto accade nei procedimenti relativi alle misure di prevenzione e di sicurezza, che sono procedimenti autonomi recanti giudizi definitivi sul thema decidendum, rispetto al quale non potrebbe più esercitarsi il controllo del pubblico.

Ora la legge di delega sulla Riforma del cpp non è molto chiara, in quanto prevede la possibilità per l’imputato o il difensore di partecipare all’udienza di appello “a richiesta” – il che già di per sé può lasciare delle perplessità poiché si è detto che in tal modo viene delineato un diritto alla pubblicità in termini potestativi, di fronte al quale il giudice nazionale non avrebbe quel potere di valutare in concreto se sia prevalente l’interesse alla pubblicità, ma sarebbe vincolato all’istanza dell’interessato, senza alcun margine di apprezzamento – ma soprattutto non fa riferimento alla udienza pubblica, mentre pare richiamare per l’appello esclusivamente il rito camerale, in violazione del primato del diritto sovranazionale. Pare quindi opportuno un chiarimento in sede di norma delegata se non vorrà riaprire la polemica con tutti gli allungamenti temporali che la giustizia italiana non può permettersi.

Ancora maggiori perplessità suscita peraltro il punto della legge di delega laddove è prevista la inammissibilità dei motivi per mancanza di specificità quando nell’atto manchi la puntuale ed esplicita enunciazione dei rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto e di diritto espresse nel provvedimento impugnato.

In realtà la questione è stata oggetto di numerose pronunce della Corte di Cassazione ed in particolare della sentenza delle Sezioni Unite Galtellì n. 8825 del 27/10/2016 Cc.  (dep. 22/02/2017 ) Rv. 268822 – 01 (presidente Giovanni Canzio) la cui massima è testualmente riportata nella parte essenziale nella legge di delega “L’appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell’impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato”. Una seconda massima della sentenza Galtellì ha precisato poi che “In tema di impugnazioni, il sindacato del giudice di appello sull’ammissibilità dei motivi proposti non può estendersi – a differenza di quanto accade nel giudizio di legittimità e nell’appello civile – alla valutazione della manifesta infondatezza dei motivi stessi” e le successive massime della Corte di Cassazione sul tema sono state del tutto conformi, per cui  ci si è chiesti il motivo di tale recepimento in legge di un orientamento consolidato, ormai costituente il cd. diritto vivente ed in particolare se il legislatore avesse voluto in tal modo allargare i casi di inammissibilità dell’appello per difetto di specificità dei motivi o anche per altre ragioni sulla falsariga di quanto è previsto per il giudizio di cassazione, sia penale che civile.

Ne è nato un dibattito innestato dal Presidente dell’Unione delle camere penali al quale in alcune interviste ha risposto l’ex presidente della Corte di Cassazione, attuale presidente di una delle Commissioni Ministeriali che sta lavorando sulla riforma della giustizia penale precisando che nella legge di delega non vi è alcuna volontà di trasformare l’appello in un ricorso a critica vincolata, mentre il giudizio di appello è rimasto collegiale ed è rimasto un giudizio a critica libera e tale rimarrà anche in sede di decreti delegati. Tuttavia l’Unione delle Camere Penali tiene alta la guardia nel timore che poi, magari nella prassi, l’ansia di “fare presto” possa portare ad un allargamento delle pronunce di inammissibilità dell’appello di cui vi era stato già sentore nel momento in cui le Corti d’appello, una decina di anni fa, avevano incominciato ad istituire “l’ufficio spoglio” sulla falsariga” dello “spoglio” esistente in corte di cassazione, in un’ottica deflattiva.

La disposizione sulla inammissibilità dei motivi di appello per mancanza di specificità potrebbe inoltre scontrarsi anche con la recente pronuncia della CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021, la quale, pur trattando specificamente del ricorso per cassazione italiano, pare avere affrontato una questione che si riferisce più in generale alle conseguenze delle restrizioni all’accesso ad una corte di giustizia interna che devono essere sempre proporzionate.

Nel caso Succi la CEDU ha osservato che il principio di autonomia permette alla Corte di cassazione di determinare il merito delle denunce presentate e la portata della valutazione che le è richiesta sulla base del solo ricorso, il che garantisce un uso appropriato e più efficiente delle risorse disponibili e che tale approccio derivi dalla natura stessa del ricorso in Cassazione, che protegge, da un lato, l’interesse del contendente a vedere accolte le sue critiche alla decisione impugnata e, dall’altro, l’interesse generale all’annullamento di una decisione che potrebbe minare la corretta interpretazione del diritto. La Corte ammette quindi che le condizioni di ammissibilità di un ricorso in cassazione possono essere più rigorose di quelle di un appello (si veda Levages Prestations Services, sopra citata, § 45, Brualla Gómez de la Torre c. Spagna, 19 dicembre 1997, § 37, Reports of Judgments and Decisions 1997-VIII, e Kozlica c. Croazia, no. 29182/03, § 32, 2 novembre 2006; si veda anche Shamoyan c. Armenia, no. 18499/08, § 29, 7 luglio 2015). La CEDU ha ricordato anche le considerazioni fatte dal governo italiano con riguardo al grande arretrato e al notevole afflusso di ricorsi presentati all’Alta Corte ogni anno e questo aspetto è d’altronde una delle ragioni del protocollo firmato tra la Corte di Cassazione e il CNF nel 2015. Peraltro – ha osservato sempre la CEDU – anche se il carico di lavoro della Corte di cassazione come descritto dal governo è suscettibile di causare difficoltà nel funzionamento ordinario del trattamento dei ricorsi, resta il fatto che le limitazioni all’accesso alle corti di cassazione non devono essere interpretate in modo troppo formale per limitare il diritto di accesso a un tribunale in modo tale o in misura tale da incidere sulla sostanza stessa di tale diritto (cfr. Zubac, citato, § 98, e Vermeersch c. Belgio, n. 49652/10, § 79, 16 febbraio 2021, Efstratiou e altri c. Grecia, n. 53221/14, § 43, 19 novembre 2020, Trevisanato, citato, § 38). In particolare, la CEDU ha sottolineato che l’applicazione da parte della Corte di cassazione del principio qui in discussione, almeno fino alle sentenze nn. 5698 e 8077 del 2012 rivela una tendenza dell’Alta Corte a concentrarsi su aspetti formali che non sembrano rispondere allo scopo legittimo individuato, in particolare per quanto riguarda l’obbligo di trascrivere integralmente i documenti inclusi nei motivi di ricorso, e il requisito della prevedibilità della restrizione.

Alla luce delle suddette ed altre considerazioni la CEDU ha ritenuto che, nel caso Succi, c’era stata, in un caso, violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione per eccessivo formalismo, mentre in altri due casi ha escluso la violazione poiché i motivi di ricorso, che fanno riferimento ad atti o documenti del procedimento di merito, devono indicare sia le parti del testo criticato che il contendente ritiene pertinenti sia i riferimenti ai documenti originali nei fascicoli depositati, in modo da consentire al giudice di verificarne prontamente la portata e il contenuto, tenendo conto delle risorse disponibili, mentre nel caso di specie ciò non era avvenuto, così come nel caso di mancata esposizione sommaria degli aspetti rilevanti del procedimento di merito nell’ambito dei princìpi di autonomia e di sintesi degli atti processuali, compreso il ricorso.

Orbene pare che la sentenza Succi, laddove afferma che la Convenzione impone che non venga compromessa la sostanza del diritto dei ricorrenti a ricorrere ad un tribunale, possa avere una qualche influenza anche con riguardo al giudizio di appello che, ancor più di quello di cassazione, non consente una applicazione di ingiustificati formalismi, così da suggerire quanto meno una cautela nella declaratoria di inammissibilità dei motivi di appello per difetto di specificità.

Infine suscita qualche perplessità anche la lett. l) del punto 13 che dispone “modificare l’articolo 603, comma 3-bis, del codice di procedura penale prevedendo che, nel caso di appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia limitata ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado”.

L’attuale approdo relativo alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello a seguito di impugnazione della sentenza di proscioglimento è frutto di una lunga elaborazione giurisprudenziale che ha trovato assetto con l’introduzione del comma 3 bis aggiunto dalla L. 23 giugno 2017, n. 103 dell’art. 603 cpp (che recita: 1. Quando una parte, nell’atto di appello o nei motivi presentati a norma dell’articolo 585 comma 4, ha chiesto la riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o l’assunzione di nuove prove, il giudice, se ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. 2. Se le nuove prove sono sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nei limiti previsti dall’articolo 495 comma 1. La rinnovazione dell’istruzione dibattimentale è disposta di ufficio se il giudice la ritiene assolutamente necessaria. 3-bis. Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale).

Sino all’entrata in vigore della Legge n. 103/2017 (cd. Riforma Orlando), l’art. 603 c.p.p. prevedeva tre sole ipotesi di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, una obbligatoria e due lasciate alla discrezione del Giudice: il primo caso qualora sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il dibattimento di primo grado, gli altri due casi qualora le parti chiedano la rinnovazione nell’atto di appello ed il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti, ovvero qualora il giudice ritenga la rinnovazione assolutamente necessaria. La giurisprudenza europea, prima (ex multis, Corte EDU Dan c. Moldavia e Lorefice c. Italia), e nazionale, poi (Sezioni Unite n. 27620/2016, Dasgupta), in forza dell’art. 6  paragrafo 3 lett. d) CEDU, che sancisce il diritto dell’accusato di “esaminare o far esaminare i testimoni a carico e ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico”, avevano già aggiunto un quarto caso di rinnovazione, il quale ricorre obbligatoriamente nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondato sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive. In tale ipotesi, si era ritenuto che il Giudice di appello non potesse riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603 comma 3 c.p.p., a rinnovare l’esame dei soggetti che in primo grado avevano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenuti decisivi ai fini del giudizio assolutorio.

Siffatto approdo è stato successivamente tradotto in legge dalla succitata Riforma Orlando, che ha introdotto il nuovo comma 3 bis all’art. 603 c.p.p., ma, di fronte a tale mutato quadro normativo si era posta un’ulteriore questione, con riguardo all’ipotesi che il giudizio di primo grado si tenga nelle forme del rito abbreviato non condizionato; un’ipotesi nella quale non ha luogo alcuna istruttoria dibattimentale, ciò che aveva fatto sorgere il dubbio se fosse comunque necessario e obbligatorio disporne la rinnovazione in appello. A fronte di pronunce discordanti sul punto, sono nuovamente intervenute le Sezioni Unite (sentenza n. 18620/2017, Patalano, presidente Canzio), chiarendo che l’obbligo di rinnovazione in appello sussiste anche nel caso in cui la sentenza di assoluzione giunga all’esito di giudizio abbreviato. Le tre massime della sentenza Patalano ricostruiscono infatti i seguenti principi di diritto: 1) È affetta da vizio di motivazione, per mancato rispetto del canone di giudizio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, la sentenza di appello che, su impugnazione del pubblico ministero, affermi la responsabilità dell’imputato, in riforma di una sentenza assolutoria emessa all’esito di un giudizio abbreviato non condizionato, operando una diversa valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, senza che nel giudizio di appello si sia proceduto all’esame delle persone che abbiano reso tali dichiarazioni. (In motivazione, la S.C. ha affermato che la decisione liberatoria di primo grado travalica ogni pretesa esigenza di automatica “simmetria” tra primo e secondo grado di giudizio, imponendo in appello il ricorso al metodo di assunzione della prova caratterizzato da oralità e immediatezza, in quanto incontestabilmente più affidabile per l’apprezzamento degli apporti dichiarativi); 2) Il giudice d’appello che intenda procedere alla “reformatio in peius” di una sentenza assolutoria di primo grado, emessa all’esito di giudizio ordinario o abbreviato, non ha l’obbligo di rinnovare la prova dichiarativa decisiva qualora emerga che la lettura della prova compiuta dal primo giudice sia stata travisata per omissione, invenzione o falsificazione; 3) Il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado emessa all’esito di giudizio abbreviato, sulla base di un diverso apprezzamento dell’attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è obbligato a rinnovare l’istruzione dibattimentale, anche d’ufficio.   

Pareva chiusa la questione quando un nuovo contrasto la aveva immediatamente riaperta a seguito della successiva pronuncia difforme “Marchetta, sentenza n. 41571 del 2017, sezione seconda, che si era distaccata dagli orientamenti sin qui descritti, enunciando un ulteriore principio di diritto: “l’art. 603, comma 3, c.p.p. in applicazione dell’art. 6 CEDU deve essere interpretato nel senso che il giudice di appello per pronunciare sentenza di assoluzione in riforma della condanna del primo giudice deve previamente rinnovare la prova testimoniale della persona offesa, allorché, costituendo prova decisiva, intenda valutarne diversamente la attendibilità (…)”. A sostegno di tale nuova conclusione, la Corte ha addotto un principio di simmetria del processo penale, asseritamente vigente nel nostro ordinamento, che imporrebbe la rinnovazione in ogni caso, anche solo potenziale, di overturning di una sentenza di primo grado. Più precisamente, ad avviso della Sezione seconda, il nostro sistema processuale avrebbe disegnato la figura del Pubblico Ministero quale portatrice di una prospettiva di legalità e la pluralità dei gradi di giurisdizione quale esigenza di giustizia che tende alla “certezza” della decisione in vista del raggiungimento della verità processuale e per l’attuazione del principio di legalità. La necessità di una certezza processuale renderebbe doverosa la rinnovazione ogni volta che la certezza della decisione di primo grado sia caducata da una pronuncia in appello di segno opposto. Questa pronuncia contrastante ha suscitato una nuova rimessione alle Sezioni Unite, chiamate a rispondere ad un nuovo quesito, così fatto: “se il giudice di appello, investito della impugnazione dell’imputato avverso la sentenza di condanna con cui si deduce la erronea valutazione della prova dichiarativa, possa pervenire alla riforma della decisione impugnata, nel senso della assoluzione, senza procedere alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale mediante l’esame dei soggetti che hanno reso dichiarazioni ritenute decisive ai fini della condanna di primo grado”. E il nuovo contrasto è stato risolto dalle Sezioni Unite con la sentenza Troise nel senso che non sussiste un obbligo di rinnovazione nel caso di condanna in primo grado ed impugnazione dell’imputato: in questo caso il Giudice è libero di sovvertire la prima decisione senza disporre una nuova audizione dei testi decisivi, salvo l’obbligo di offrire una motivazione rafforzata. Contrariamente a quanto rilevato dalla pronuncia che aveva suscitato il contrasto, secondo cui il processo penale sarebbe improntato al canone della simmetria, le Sezioni Unite tornano dunque ad affermare il principio opposto, secondo cui vige invece un principio di asimmetria: L’applicazione della regola dell’immediatezza nell’assunzione di prove dichiarative decisive si impone unicamente in caso di sovvertimento della sentenza assolutoria, poiché è solo tale esito decisorio che conferma la presunzione di innocenza e rafforza il peso del ragionevole dubbio – operante solo pro reo e non per le altre parti del processo – sulla valenza delle prove dichiarative. Ed è stato altresì ritenuto che non esistono obblighi eurounitari di rinnovazione. Una ipotesi obbligatoria di rinnovazione in caso di assoluzione non si trae nemmeno dalla normativa dell’Unione Europea in favore delle vittime di reato, racchiusa nella Direttiva 2012/29/UE. Infatti, “il legislatore europeo non impone agli Stati membri un obbligo generico di escussione della vittima operante anche in difetto di una specifica istanza, ma introduce, piuttosto, l’obbligo di assicurare che la stessa sia ascoltata ove ne faccia richiesta, affidando alla discrezionalità delle autorità giudiziarie nazionali la valutazione circa la necessità di procedere ad una nuova audizione. Nel nostro ordinamento soccorre al riguardo la disposizione di cui all’art. 603, comma 3, cod. proc. pen., che consente al giudice d’appello di attivare i poteri officiosi disponendo una nuova audizione, ove lo ritenga «assolutamente necessario» in relazione al caso concreto”.

Ora, con la legge di delega, tutto pare rimesso in discussione dal punto 13 lett l) che rileggiamo “modificare l’articolo 603, comma 3 -bis , del codice di procedura penale prevedendo che, nel caso di appello contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale sia limitata ai soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado”. Resta quindi ferma la rinnovazione dell’istruttoria nel solo caso di appello contro una sentenza di proscioglimento, ma soltanto quando si sia trattato di prove assunte in udienza nel corso del giudizio di primo grado, con esclusione perciò di siffatto obbligo nel caso di giudizio abbreviato secco e di mancata assunzione delle prove in udienza nel giudizio di primo grado.

Ci si può anche chiedere quanto possa servire questa restrizione in senso deflattivo a fronte delle questioni che susciterà di fronte a quella che era ritenuta una conquista affermata dal diritto vivente.

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Passando all’art. 2 della legge di delega e cioè alle disposizioni di immediata applicazione, vi sono alcuni interventi di settore che non hanno particolare interesse per il giudizio di appello e che peraltro non modificano in modo rilevante il processo penale. Mi riferisco alla identificazione di particolari categorie di indagati (modifica dell’art. 66, comma 2, cod. proc. pen per il caso in cui si proceda nei confronti di un apolide, di una persona della quale è ignota la cittadinanza ecc. e dell’art. 349, comma 2, cod. proc. pen. con riguardo ai dati fotosegnaletici dell’apolide), alle integrazioni in tema di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere (modifica degli artt. 90-ter, comma 1 bis, cod. proc. pen., 659, comma 1-bis, cod. proc. pen., 362, comma 1- ter cod. proc. pen., 370, comma 2- bis cod. proc. pen. e 64-bis, comma 1, disp. att. cod. proc. pen., per una migliore tutela della vittima,  con l’aggiunta all’elenco dei reati già previsti dell’omicidio e l’estensione delle previsioni a tutela della persona anche alle ipotesi tentate, nonché dell’obbligo di subordinare la concessione della sospensione condizionale della pena alla partecipazione a specifici percorsi di recupero presso enti o associazioni che si occupano di prevenzione, assistenza psicologica e recupero di soggetti condannati e della previsione dell’arresto obbligatorio in flagranza per il delitto di violazione dei provvedimenti di allontanamento dalla casa familiare e del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, di cui all’art. 387- bis cod. pen.) e alle comunicazioni al difensore (con l’integrazione dell’art. 123 cod. proc. pen. mediante l’inserimento del comma 2-bis, in base al quale «le impugnazioni, le dichiarazioni, compresa quella relativa alla nomina del difensore, e le richieste, di cui ai commi 1 e 2, sono contestualmente comunicate anche al difensore nominato»).

La modifica di rilevante importanza, anche con riguardo all’impatto sul giudizio di appello, riguarda invece, in primo luogo, gli interventi correttivi sulla disciplina della prescrizione del reato.

Il legislatore della Riforma del cpp è partito dalla legge n. 3 del 2019 (c.d. Riforma Bonafede) con cui era stato profondamente modificato il regime della sospensione del corso della prescrizione prevedendo che questo, oltre che per le cause espressamente previste dall’art. 159, comma primo, cod. pen., rimanesse sospeso dalla pronuncia della sentenza di primo grado (sia essa di condanna o di assoluzione) o del decreto penale di condanna sino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna (art. 159, comma secondo, cod. pen.). Tale norma è stata oggetto di numerose critiche, soprattutto in considerazione del rischio che, non essendo stata accompagnata da una contestuale riforma del processo che ne assicurasse una ragionevole durata, dal blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado derivasse un ulteriore aggravamento della patologica eccessiva durata del giudizio di impugnazione con conseguente permanenza a tempo indeterminato della qualità di “imputato” in una sorta di “ergastolo processuale”.

Una delle proposte formulate dalla Commissione Lattanzi per correggere tale criticità era quella di introdurre, in luogo della sospensione “illimitata e incondizionata” della prescrizione, una sospensione circoscritta alla sola ipotesi di condanna in primo grado, a carattere condizionato e di durata limitata, corrispondente alla durata non irragionevole dei giudizi di impugnazione stabilita dalla legge Pinto. Una seconda proposta prevedeva, invece, una scelta sul modello di altri ordinamenti giuridici, come quello statunitense, basata sulla coesistenza di due istituti: la prescrizione del reato, la cui decorrenza cessa con l’esercizio dell’azione penale, e l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del processo (determinati in misura prossima a quelli previsti dalla legge Pinto, ovvero quattro anni per il giudizio di primo grado, tre anni per il giudizio di appello e due anni per il giudizio di cassazione). Secondo quanto si legge nella relazione finale presentata dalla Commissione, alla base di tale soluzione vi era la considerazione che il termine per la prescrizione del reato è correlato al c.d. tempo dell’oblio necessario, secondo la dogmatica tradizionale, per cancellare la memoria del reato e far venire meno l’interesse sociale alla punizione del suo autore e proprio in considerazione di tale premessa logica, secondo la soluzione in esame, il termine di prescrizione del reato cessa definitivamente di correre con l’esercizio dell’azione penale, ma, al contempo, spostandosi sul diverso fronte del processo, si salvaguarda il diritto dell’imputato alla sua ragionevole durata attraverso la previsione del maccanismo di improcedibilità sopra descritto. Nella relazione si considerava, infine, una terza soluzione, non accolta, che, pur mantenendo fermo il blocco del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado, prevedeva il medesimo meccanismo della improcedibilità per superamento dei termini di fase dei soli giudizi di impugnazione (determinati in tre anni per il giudizio di appello e in due anni per quello di cassazione).

Alla fine la Riforma ha adottato la terza soluzione contenuta nella relazione della Commissione Lattanzi. Vengono, dunque, individuati due distinti segmenti temporali: il primo segmento, relativo alla prescrizione del reato, inizia a decorrere con la consumazione del reato – secondo le disciplina, rimasta immutata, prevista dall’art. 158 cod. pen. – e cessa con la sentenza di primo grado; il secondo segmento attiene, invece, alla ragionevole durata del giudizio di impugnazione (appello e ricorso per cassazione) nel corso del quale il superamento dei termini di fase previsti dal legislatore determina l’improcedibilità dell’azione penale.

Per quanto attiene al primo segmento, l’art. 2, comma 1, della legge n. 134 del 2021 interviene sulla disciplina sia della sospensione che dell’interruzione del corso della prescrizione. Quanto alla sospensione della prescrizione, l’art. 2, comma 1, lett. a), ha abrogato il secondo e quarto comma dell’art. 159 cod. pen. (introdotto dalla legge n. 3 del 2019 a decorrere dal 1° gennaio 2020, che prevedeva, che “Il corso della prescrizione rimane altresì sospeso dalla pronuncia della sentenza di primo grado o del decreto di condanna fino alla data di esecutività della sentenza che definisce il giudizio o dell’irrevocabilità del decreto di condanna”) ed ha contestualmente introdotto l’art. 161- bis cod. pen. in forza del quale la pronuncia della sentenza di primo grado – sia essa di condanna o di assoluzione – comporta, non la sospensione, ma la definitiva cessazione del corso della prescrizione.

Con la Riforma cambia quindi completamente il “paradigma” della materia atteso che la prescrizione non potrà più essere dichiarata nel giudizio di impugnazione nel corso della quale potrà invece essere dichiarata l’improcedibilità dell’azione penale. Attraverso l’art. 161-bis cod. pen., il legislatore, perciò, ha quindi introdotto un terzo istituto che, accanto alla sospensione ed alla interruzione, influisce sul corso della prescrizione, bloccandolo definitivamente. Coerentemente con tale impostazione, il secondo comma dell’art. 161-bis cod. pen. prevede che, se la sentenza di primo grado viene annullata con regressione del procedimento al primo grado o ad una fase anteriore, la prescrizione riprende il suo corso dalla data della sentenza di annullamento.

L’art. 2, comma 1, lett. a), della legge n. 134 del 2021 abroga, inoltre, anche il quarto comma dell’art. 159 cod. pen. in base al quale la durata della sospensione della prescrizione del reato in caso di sospensione del procedimento per assenza dell’imputato ai sensi dell’art. 420-quater cod. proc. pen., non può superare i termini previsti dal secondo comma dell’art. 161 cod. pen. L’abrogazione della norma è poi strettamente correlata alla prevista riforma del processo in assenza, oggetto di delega governativa, caratterizzata dal superamento del modello sospensivo del procedimento e dall’introduzione di una specifica disciplina, anche agli effetti del computo dei termini di prescrizione del reato. Ai sensi dell’art. 1, comma 7, lett. e), della legge in commento, il Governo è, infatti, delegato ad adottare uno o più decreti legislativi recanti disposizioni dirette a rendere il procedimento penale più celere ed efficiente nonché a modificare il codice di procedura penale in materia di processo in assenza secondo i seguenti principi e criteri direttivi: a)prevedere che, quando non sono soddisfatte le condizioni per procedere in assenza dell’imputato, il giudice pronunci sentenza inappellabile di non doversi procedere; b)prevedere che, fino alla scadenza del doppio dei termini stabiliti dall’articolo 157 del codice penale, si continui ogni più idonea ricerca della persona nei cui confronti è stata pronunciata la sentenza di non doversi procedere, al fine di renderla edotta della sentenza, del fatto che il procedimento penale sarà riaperto e dell’obbligo di eleggere o dichiarare un domicilio ai fini delle notificazioni; c)prevedere la possibilità che, durante le ricerche, si assumano, su richiesta di parte, le prove non rinviabili, osservando le forme previste per il dibattimento; d)prevedere che, una volta rintracciata la persona ricercata, ne sia data tempestiva notizia all’autorità giudiziaria e che questa revochi la sentenza di non doversi procedere e fissi nuova udienza per la prosecuzione del procedimento, con notificazione all’imputato con le forme di cui alla lettera b); e)prevedere che, nel giudizio di primo grado, non si tenga conto, ai fini della prescrizione del reato, del periodo di tempo intercorrente tra la definizione del procedimento con sentenza di non doversi procedere e il momento in cui la persona nei cui confronti la sentenza è pronunciata è stata rintracciata, salva, in ogni caso, l’estinzione del reato nel caso in cui sia superato il doppio dei termini stabiliti dall’articolo 157 cod. pen.; f)prevedere opportune deroghe per il caso di imputato nei confronti del quale è stata emessa ordinanza di custodia cautelare in assenza dei presupposti della dichiarazione di latitanza. L’intervento riformatore mira, dunque, ad introdurre una specifica disciplina che si muove lungo due direttrici, entrambe oggetto di delega governativa: i) la modifica del processo in assenza, che non comporta più la sospensione del procedimento, bensì l’emissione di una sentenza di non doversi procedere; ii) l’allungamento dei termini di prescrizione del reato. L’immediata abrogazione del quarto comma dell’art. 159 cod. pen. va, dunque, letta nella prospettiva della futura riforma del processo in assenza oggetto di delega governativa.

Orbene, la prima questione che pone nell’immediatezza la Riforma, quanto al segmento della prescrizione del reato, è quella del diritto intertemporale, poiché, a differenza dell’istituto dell’improcedibilità, non prevede una specifica disciplina transitoria relativa alle modifiche in tema di prescrizione del reato. In linea generale, l’art. 2, comma 3, prevede che le disposizioni in materia di improcedibilità si applicano solo nei procedimenti di impugnazione che hanno ad oggetto reati commessi a partire dal 1° gennaio 2020, ovvero, dalla data di entrata in vigore della legge n. 3 del 2019 che aveva, appunto, previsto la sospensione della prescrizione dalla pronuncia della sentenza di primo grado o dell’emissione del decreto penale di condanna per tutta la durata del giudizio di impugnazione. In assenza di un’analoga disposizione relativa alle norme in tema di prescrizione potrebbe discutersi sul loro regime temporale di applicabilità, ma parrebbe, sulla base del principio per cui la prescrizione costituisce istituto di natura sostanziale che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena (v. in particolare, la sentenza n. 278 del 2020 con cui la Corte costituzionale ha posto l’accento sul duplice profilo, sostanziale e processuale, della “dimensione diacronica della punibilità” che, da un lato, concerne «la definizione “tabellare” del tempo di prescrizione dei reati», e, dall’altro, è, comunque, influenzata dalle vicende e da singoli atti del processo e può risentire indirettamente delle vicende e di singoli atti di quest’ultimo, previsti dal legislatore come cause di sospensione o di interruzione del decorso del tempo di prescrizione dei reati) individuarsi il dies a quo di applicabilità dell’istituto della cessazione del corso della prescrizione, introdotto all’art. 161-bis, primo periodo, cod. pen., considerandone il rapporto di continuità normativa con l’omologa causa di sospensione legata alla sola pronuncia della sentenza di primo grado, prevista dall’art. 159, comma secondo, cod. pen. (disposizione introdotta dalla legge n. 3 del 2019 a far data dal 1° gennaio 2020). A fronte, infatti, dell’impropria dizione normativa quale causa di sospensione del corso della prescrizione – in realtà destinato a non riprendere più nell’ulteriore prosieguo del procedimento – entrambi gli istituti contemplano, infatti, una causa di blocco tendenzialmente definitivo (salva l’ipotesi dell’annullamento con rinvio) del decorso del tempo rilevante ai fini della prescrizione del reato. Partendo, dunque, da tale premessa ermeneutica e dalla identità strutturale dei due istituti, parrebbe dunque, coerente ritenere che l’istituto della cessazione del corso della prescrizione, previsto dall’art. 161-bis cod. pen., debba trovare applicazione, non dalla data di entrata in vigore della legge in Riforma, bensì, al pari della omologa causa di sospensione, in relazione ai reati commessi dal 1° gennaio 2020. 

Passando all’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata del giudizio di impugnazione, con l’introduzione dell’art. 344-bis cod. proc. pen. il legislatore della riforma ha individuato un secondo segmento temporale che ha inizio con il deposito della sentenza di primo grado e, precisamente, il novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544 cod. proc. pen.- come eventualmente prorogato ai sensi dell’art. 154 disp. att. cod. proc. pen. – e cessa con il maturare del termine di definizione del giudizio di impugnazione (due anni per il giudizio di appello e un anno per il giudizio di cassazione). Tale segmento temporale è costruito in termini simmetrici ai limiti temporali di ragionevole durata del processo previsti dalla c.d. legge Pinto (art. 2, comma 2-bis, legge 24 marzo 2001, n. 89). La norma disegna un meccanismo estintivo legato al superamento dei tempi di definizione del giudizio di impugnazione: si prevede, infatti, ai primi due commi, che la mancata definizione del giudizio di impugnazione entro i termini di legge comporta l’improcedibilità dell’azione penale. In tale secondo segmento temporale, dunque, il decorso del tempo incide, non sul reato (in relazione al quale opera la cessazione del corso della prescrizione), bensì sul potere dello Stato di esercitare o proseguire l’azione penale. Al pari della prescrizione, anche l’improcedibilità per superamento dei termini di durata del giudizio di impugnazione è rinunciabile dall’imputato (il quale può chiedere la prosecuzione del processo) e non opera con riferimento ai reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo, anche come effetto dell’applicazione di circostanze aggravanti.

Come si è visto le disposizioni di cui al comma 2 dell’art 2 si applicano ai soli procedimenti di impugnazione che hanno a oggetto reati commessi a far data dal 1° gennaio 2020. Per i procedimenti di cui al comma 3 nei quali, alla data di entrata in vigore della legge di Riforma, siano già pervenuti al giudice dell’appello o alla Corte di cassazione gli atti trasmessi ai sensi dell’articolo 590 del codice di procedura penale, i termini di cui ai commi 1 e 2 dell’articolo 344 -bis del codice di procedura penale decorrono dalla data di entrata in vigore della presente legge. Nei procedimenti di cui al comma 3 nei quali l’impugnazione è proposta entro la data del 31 dicembre 2024, i termini previsti dai commi 1 e 2 dell’articolo 344 -bis del codice di procedura penale sono, rispettivamente, di tre anni per il giudizio di appello e di un anno e sei mesi per il giudizio di cassazione. Gli stessi termini si applicano nei giudizi conseguenti ad annullamento con rinvio pronunciato prima del 31 dicembre 2024. In caso di pluralità di impugnazioni, si fa riferimento all’atto di impugnazione proposto per primo.

L’art. 344-bis, il comma 3 prevede, quale dies a quo del termine di durata del giudizio di impugnazione, il novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’art. 544 cod. proc. pen., comprensivo di eventuali proroghe ai sensi dell’art. 154 disp. att. cod. proc. pen. Nel tentativo di comprendere la ratio sottesa alla individuazione del periodo di novanta giorni, maturato il quale comincia a decorrere il termine di durata del giudizio di impugnazione, si può ritenere che in esso il legislatore abbia voluto ricomprendere sia il termine (di massimo quarantacinque giorni) per l’impugnazione del provvedimento, che il tempo necessario alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato per l’espletamento di tutti gli adempimenti previsti dagli artt. 164, 165 e 165-bis disp. att. cod. proc. pen. e la trasmissione degli atti al giudice dell’impugnazione (art. 590 cod. proc. pen.). La norma non prevede la possibilità di proroghe di tale periodo di novanta giorni, cosicché deve ritenersi che, una volta maturato, inizi, comunque, a decorrere il termine di durata del giudizio di impugnazione, ancorché, ad esempio, la cancelleria non abbia provveduto agli adempimenti di legge. Tale termine di novanta giorni decorre dalla scadenza del termine previsto per la redazione della sentenza (comprese le proroghe disposte ai sensi dell’art. 154, comma 4-bis, disp. att. cod. proc. pen.4 ) che, come chiarito dalle Sezioni Unite, non è soggetto alla sospensione nel periodo feriale prevista dall’art. 1 della legge 7 ottobre 1969, n. 742 (Sez. U, n. 7478 del 19/06/1996, Giacomini, Rv. 205335) e ciò anche dopo le modifiche introdotte dal d.l. n. 132 del 2014. Seguendo il pregresso orientamento delle sezioni unite dovrebbe ritenersi che, anche ai fini del computo dei novanta giorni di cui all’art. 344-bis cod. proc. pen., occorre fare riferimento esclusivamente alla scadenza del termine legale o legittimamente autodeterminato dal giudice, rimanendo, dunque, irrilevanti sia il deposito anticipato della sentenza che l’eventuale ritardo (salvo, in tal caso, una rilevanza disciplinare della condotta). Inoltre, qualora il deposito della sentenza avvenga in periodo feriale, deve ritenersi che, mentre si applica la sospensione per il termine assegnato alle parti per l’impugnazione della sentenza (Sez. 5, n. 18328 del 24/02/2017, Clivio, Rv. 13 269619), ciò non ha alcuna influenza, in assenza di una diversa previsione di legge, sul computo del periodo di novanta giorni nell’ambito del quale andrà, dunque, considerato anche l’eventuale periodo in cui opera la sospensione feriale dei termini. Infine, anche ai fini della valutazione relativa alla tempestiva definizione del giudizio di appello o di cassazione entro il termine, rispettivamente, di due anni o di un anno, deve aversi riguardo alla data di deliberazione della sentenza che conclude la fase e non a quella di deposito della motivazione (si richiama, al riguardo, la giurisprudenza in tema di prescrizione del reato e, in particolare, Sez. 2 , n. 46261 del 18/09/2019, Cammi, Rv. 277593 – 02, nonché Sez. 3, n. 18046 del 09/02/2011, Morra, Rv. 250328 che, ai fini dell’interruzione della prescrizione, ha attribuito rilevanza al momento della lettura del dispositivo).

Per ragioni di equilibri di forza all’interno del compromesso politico che ha consentito al Governo di ottenere il voto di fiducia non è stato introdotto l’accorgimento della possibilità di reformatio in peius da parte dei giudici della impugnazione, cosa ora non consentita e che determina la totale assenza di rischio di peggioramento della sentenza impugnata per il soggetto condannato, che, quindi, non è affatto disincentivato a proporre impugnazione anche nei casi in cui non vi sono motivi fondati di censura, sapendo anzi che, mal che vada, la sentenza viene confermata tal quale e se invece va bene, si può sperare di raggiungere la improcedibilità; al pari, pur essendo stato semplificato il sistema delle notifiche, non è stata aggiunta la automaticità della notifica all’imputato presso il difensore.

Quando il giudizio di impugnazione è particolarmente complesso, in ragione del numero delle parti o delle imputazioni o del numero o della complessità delle questioni di fatto o di diritto da trattare, i termini di cui ai commi 1 e 2 sono prorogati, con ordinanza motivata del giudice che procede, per un periodo non superiore a un anno nel giudizio di appello e a sei mesi nel giudizio di cassazione. Ulteriori proroghe possono essere disposte, per le ragioni e per la durata indicate nel periodo precedente, quando si procede per i delitti commessi per finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni o nel massimo a dieci anni, per i delitti di cui agli articoli 270, terzo comma, 306, secondo comma, 416 -bis , 416 -ter , 609 -bis , nelle ipotesi aggravate di cui all’articolo 609 -ter , 609 -quater e 609- octies del codice penale, nonché per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416 -bis .1, primo comma, del codice penale e per il delitto di cui all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Nondimeno, quando si procede per i delitti aggravati ai sensi dell’articolo 416 -bis, primo comma, del codice penale, i periodi di proroga non possono superare complessivamente tre anni nel giudizio di appello e un anno e sei mesi nel giudizio di cassazione. Contro l’ordinanza che dispone la proroga del termine previsto dal comma 1, l’imputato e il suo difensore possono proporre ricorso per cassazione, a pena di inammissibilità, entro cinque giorni dalla lettura dell’ordinanza o, in mancanza, dalla sua notificazione. Il ricorso non ha effetto sospensivo. La Corte di cassazione decide entro trenta giorni dalla ricezione degli atti osservando le forme previste dall’articolo 611. Quando la Corte di cassazione rigetta o dichiara inammissibile il ricorso, la questione non può essere riproposta con l’impugnazione della sentenza.

I termini di cui ai commi 1 e 2 sono poi sospesi, con effetto per tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo, nei casi previsti dall’articolo 159, primo comma, del codice penale e, nel giudizio di appello, anche per il tempo occorrente per la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale. Accanto alla possibilità della proroga del termine entro il quale il giudizio di impugnazione deve chiudersi, l’art. 344-bis, comma 6, cod. proc. pen. ha previsto anche la possibilità della sospensione, richiamando espressamente il disposto dell’art. 159, cod. pen. che disciplina la sospensione della prescrizione. Si tratta di uno dei più evidenti fattori che consentono di apprezzare l’intima connessione esistente tra l’istituto sostanziale della prescrizione e quello processuale della improcedibilità dell’azione, resa evidente dal fatto che il regime della sospensione è integralmente mutuato dall’art. 159 cod. pen. L’unica aggiunta è costituita dalla previsione della rinnovazione dell’istruttoria in appello quale causa di sospensione del termine, trattandosi di una regola non contenuta nell’art. 159 cod. pen. La durata della sospensione conseguente alla rinnovazione è stata espressamente delimitata, essendosi stabilito che la sospensione tra un’udienza e l’altra non può eccedere il limite di sessanta giorni. Altra ipotesi di sospensione è legata alla necessità di svolgere nuove ricerche per procedere alla notifica della vocatio in iudicium relativa alla fase dell’impugnazione, nel qual caso la sospensione si estende espressamente nei confronti di tutti gli imputati nei cui confronti si sta procedendo.

La declaratoria di improcedibilità non ha luogo quando l’imputato chiede la prosecuzione del processo. Inoltre, fermo restando quanto previsto dall’articolo 624, le disposizioni sulla sospensione si applicano anche nel giudizio conseguente all’annullamento della sentenza con rinvio al giudice competente per l’appello. In questo caso, il termine di durata massima del processo decorre dal novantesimo giorno successivo alla scadenza del termine previsto dall’articolo 617.

Con riguardo alla prosecuzione dell’azione civile a seguito dell’improcedibilità del giudizio penale, l’art.2, lett.b), della l. n. 134 del 2021 ha apportato una modifica, particolarmente significativa, alla disciplina contenuta dall’art. 578 cod. proc. pen., al fine di armonizzarne la previsione rispetto alla nuova ipotesi di improcedibilità introdotta all’art. 344-bis cod. proc. pen. Dopo il primo comma, è stato infatti introdotto il nuovo comma 1-bis in base al quale «quando nei confronti dell’imputato è stata pronunciata condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati dal reato, a favore della parte civile, il giudice di appello e la Corte di cassazione, nel dichiarare improcedibile l’azione penale per il superamento dei termini di cui ai commi 1 e 2 dell’art. 344-bis, rinviano per la prosecuzione al giudice civile competente per valore in grado di appello, che decide valutando le prove acquisite nel processo penale». Invero, tale previsione non sembra essere adeguatamente coordinata con quella contenuta all’art. 1, comma 13, lett. d), l. n. 134 del 2001, lì dove si affida alla legislazione delegata il compito di «disciplinare i rapporti tra l’improcedibilità dell’azione penale per superamento dei termini di durata massima del giudizio di impugnazione e l’azione civile esercitata nel processo penale (…omissis…); adeguare conseguentemente la disciplina delle impugnazioni per i soli interessi civili, assicurando una regolamentazione coerente della materia». A ben vedere, la previsione – immediatamente efficace – dettata dal nuovo art. 578, comma 1-bis, cod. proc. pen. risulterebbe già di per sé sufficiente a disciplinare i rapporti tra giudizio penale ed azione civile, sicché al legislatore delegato resterebbero ben pochi spazi per modulare tale disciplina. La scelta compiuta sembra essere chiaramente quella di escludere che il processo penale possa continuare, sia pur con riferimento alla sola azione civile di danno, una volta maturata l’improcedibilità per superamento dei termini. La scelta, nella prospettiva complessiva della riforma, risulta essere del tutto logica, posto che l’improcedibilità dettata dall’art. 344-bis cod. proc. pen. non si limita ad inibire la pronuncia di una sentenza di condanna, ma impedisce la possibilità stessa che il processo prosegua. Ne consegue che risulterebbe anomala una prosecuzione del processo penale, ai soli fini della decisione sull’azione risarcitoria, mentre lo stesso processo deve necessariamente cessare per effetto del superamento dei limiti con riguardo alla regiudicanda principale. Si tratta di un’ulteriore conferma del fatto che l’improcedibilità dell’azione penale si atteggia, in concreto, come una casa impeditiva della prosecuzione del giudizio e, quindi, va direttamente ad incidere non tanto sull’azione, bensì sul processo causandone la necessaria cessazione con riguardo a tutti i suoi possibili aspetti e contenuti. Venuto meno il giudizio penale, l’unica tutela riconosciuta alla parte civile è rappresentata dalla prosecuzione dell’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile che deciderà valutando “le prove acquisite nel processo penale”. Si tratta di una disposizione chiaramente improntata all’esigenza di non disperdere l’attività processuale svolta, consentendo al giudice civile di avvalersi delle prove formatesi nel giudizio penale, sia di primo grado, sia in grado di appello, nel caso di rinnovazione dell’istruttoria. È innegabile, tuttavia, che la posizione della parte civile, per effetto della riforma, risulta considerevolmente svantaggiata rispetto al regime previgente che, peraltro, aveva recentemente trovato validazione costituzionale per effetto della pronuncia resa da Corte cost., sent. n. 182 del 2021. Nel nuovo assetto normativo, invece, la parte civile non potrà veder soddisfatta la propria pretesa direttamente nel giudizio penale divenuto “improcedibile”, dovendo trasferire l’azione dinanzi al giudice civile, sia pur nella medesima fase di appello e con salvezza delle prove acquisite. Ovviamente, ciò comporterà una serie di problematiche – in parte già note – concernenti, in primo luogo, il parametro di giudizio che verrà applicato in sede civile con riguardo alle prove penali. Altro aspetto problematico è costituito dal raffronto tra i due commi attualmente contenuti dall’art. 578 cod. proc. pen. Il primo comma, infatti, non è stato modificato, sicché si continua a stabilire che, in caso di prescrizione, il giudice di appello e la Corte di Cassazione decidono ai soli effetti civili. Tale norma, tuttavia, sarebbe – quanto meno con riguardo alla causa estintiva della prescrizione – sostanzialmente inapplicabile, posto che, secondo il nuovo regime, la prescrizione non potrebbe mai verificarsi nel corso dei giudizi di impugnazione. Sarebbe stato più lineare, pertanto, modificare anche l’art. 578, comma 1, cod. proc. pen., espungendo il riferimento alla prescrizione ed affidando al solo comma 1-bis il compito di stabilire le sorti dell’azione civile nel caso di sopravvenuta improcedibilità. Occorre segnalare che, fin dai primissimi commenti concernenti la novella, è stato segnalato il rischio di incostituzionalità dell’art. 578, comma 1-bis, cod. proc. pen., evidenziandosi come, anche nel nuovo regime, non vi sarebbe alcun motivo ostativo ad affidare al giudice penale il compito di pronunciarsi sulle sole questioni civili, sia in considerazione dell’autonomia delle due azioni, sia perché la prosecuzione dell’azione risarcitoria davanti al giudice civile determina un pregiudizio per la parte civile, comportando la protrazione dei tempi processuali. Si tratta di osservazioni di cui, tuttavia, dovrebbe essere valutata l’idoneità a far dubitare della legittimità costituzionale del novellato art. 578 cod. proc. pen. A ben vedere, infatti, la modulazione dei rapporti tra azione penale ed azione civile, nella misura in cui si garantisce comunque al danneggiato un’adeguata tutela, ben potrebbe rientrare nella discrezionalità del Legislatore.

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E’ opportuno, per concludere l’argomento, segnalare che sul nuovo istituto della improcedibilità del giudizio di impugnazione già si addensano forti nubi di incostituzionalità. pur parendo evidente che l’art. 2 della Riforma realizza una ideale saldatura tra la disciplina della prescrizione “sostanziale” e quella della c.d. “prescrizione processuale” individuandone un medesimo ambito di operatività con riferimento ai soli giudizi in cui, per effetto della riforma e, soprattutto, dell’introduzione dell’art. 161-bis cod. pen., la prescrizione non può più essere dichiarata nel giudizio di impugnazione, in dottrina si è, tuttavia, discusso sulla possibilità di estendere l’ambito di applicabilità della norma anche ai reati commessi prima del 1° gennaio 2020, ancorando le soluzioni ipotizzabili alla natura sostanziale o processuale dell’istituto. Si è, infatti, sostenuto che, pur qualificato come “causa di improcedibilità”, l’istituto in esame presenta una natura mista, processuale e sostanziale, incidendo, al pari della prescrizione, sulla punibilità dell’imputato. Seguendo tale impostazione ermeneutica, dunque, alla c.d. “prescrizione processuale” introdotta dall’art. 344-bis cod. proc. pen. dovrebbero applicarsi le garanzie costituzionali relative ad entrambi i piani, e, con riferimento a quello sostanziale, il principio della retroattività della disposizione più favorevole. Va, peraltro, segnalato che anche con riferimento alla querela, la pronuncia delle Sezioni Unite Salatino ha aderito alla tesi ermeneutica che ne sostiene la natura mista, sostanziale e processuale (Sez. U, n. 40150 del 21/6/2018, Salatino, in motivazione; conf. Sez. 2, n. 21700 del 17/4/2019, Sibio, Rv. n. 276651; Sez. 2, n. 225 del 8/11/2018, dep. 2019, Mohammad Razzaq, Rv. n. 274734). In particolare, il Supremo Consesso ha affermato che, sebbene dalla collocazione codicistica dell’istituto emerga con evidenza la sua vocazione essenzialmente processuale, quale condizioni di procedibilità, la querela presenta anche dei tratti di carattere sostanziale, in considerazione della sua attitudine a condizionare la concreta punibilità del reato. Va, tuttavia, segnalato che a sostegno della natura processuale dell’istituto depongono vari indici di carattere letterale e logico-sistematico. Innanzitutto vanno considerate sia la sua collocazione topografica nell’ambito delle condizioni di procedibilità dell’azione che le modalità operative del maccanismo estintivo previsto dalla disposizione in cui il superamento della forbice temporale predefinita dal legislatore, salvo eventuali proroghe, incide, non sull’esistenza del reato, ma sulla possibilità di proseguire l’azione penale in quanto estinta. Rileva, inoltre, anche la stessa ratio ispiratrice della disposizione in esame in quanto volta a garantire all’imputato, una volta bloccata l’operatività della prescrizione del reato con la sentenza di primo grado, la ragionevole durata del processo attraverso la specifica individuazione dei termini entro i quali deve concludersi ciascuna fase di impugnazione. Al diverso inquadramento dogmatico dell’istituto, come causa di estinzione dell’azione penale e non del reato, conseguirebbe, pertanto l’irretroattività della disciplina secondo il diverso principio “tempus regit actum”. Ove si ritenesse di propendere per la natura sostanziale, o, comunque, mista, dell’istituto, si potrebbe, tuttavia, prospettare una possibile illegittimità costituzionale della norma per il suo attrito con l’art. 3 Cost. con riferimento al profilo della violazione del principio della retroattività della legge più favorevole. Come visto, è, infatti, lo stesso legislatore che, attraverso la disciplina transitoria in questione, ha escluso espressamente la retroattività, anche in melius, dell’art. 344- bis cod. proc. pen. ai reati commessi in data antecedente il 1° gennaio 2020. La disciplina pare, comunque, rispondere alla evidente esigenza di introdurre un correttivo che, alla cessazione del corso della prescrizione con la sentenza di primo grado, assicuri, comunque, una ragionevole durata del successivo giudizio di impugnazione. Il meccanismo estintivo introdotto all’art. 344-bis cod. proc. pen. risponde, in altri termini, ad una finalità compensativa e riequilibratice correlata alla non operatività dell’istituto della prescrizione nei giudizi di impugnazione relativi a reati commessi dal 1° gennaio 2020, istituto di cui, invece, possono beneficiare tutti gli imputati di reati commessi in data antecedente secondo la disciplina già modificata dalla legge n. 103 del 2017 (c.d. riforma Orlando). Potrebbe, dunque, ritenersi che, proprio in ragione di tale finalità dell’istituto in esame, la sua delimitazione temporale risponda ad un criterio di ragionevolezza che la pone al riparo da possibili frizioni con i principi costituzionali e convenzionali. Tale conclusione sarebbe, infatti, coerente con il percorso tracciato dalla giurisprudenza costituzionale che, riconducendo il principio di retroattività della legge più favorevole nell’ambito del principio di uguaglianza, ammette la possibilità che il legislatore introduca deroghe o limiti purché questi rispondano ad un criterio di ragionevolezza. Infatti, come rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 238 del 2020, secondo la costante la giurisprudenza costituzionale, il principio della retroattività della lex mitior in materia penale non è riconducibile alla sfera di tutela dell’art. 25, secondo comma, Cost. (sentenza n. 63 del 2019) – «la cui ratio immediata è […] quella di tutelare la libertà di autodeterminazione individuale, garantendo al singolo di non essere sorpreso dall’inflizione di una sanzione penale. Con la sentenza in esame la Corte costituzionale ha ritenuto non fondata la q.l.c. dell’art. 318-octies del d, lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), sollevata, in riferimento all’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede che la causa estintiva contemplata nell’art. 318-septies cod. ambiente, non si applichi ai procedimenti in relazione ai quali sia già stata esercitata l’azione penale alla data della sua entrata in vigore. La Corte costituzionale ha ritenuto infatti che, mentre, l’irretroattività in peius della legge penale costituisce un «valore assoluto e inderogabile», la regola della retroattività in mitius della legge penale medesima «è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli» (sentenza n. 236 del 2011). Con riferimento, infine, al criterio di valutazione della legittimità costituzionale delle deroghe al principio di retroattività della legge più favorevole, la Corte costituzionale ha ribadito che tale principio può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo, con la conseguenza che la scelta di derogare alla retroattività «deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» (sentenza n. 393 del 2006).

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Premesso che la ragionevole durata del processo costituisce un principio di civiltà giuridica che sta a cuore di qualsiasi operatore del diritto, occorrerà verificare alla prova dei fatti se il “rimedio” individuato, su cui è stata posta la fiducia al fine di arrivare in tempi brevi al risultato prefissato, sarà in grado di garantire almeno un discreto miglioramento rispetto alla situazione preesistente, senza invece creare altri e più gravi squilibri in conseguenza degli aggiustamenti predisposti ed approvati, ma soprattutto, con particolare riguardo al giudizio di appello, della presenza di un abnorme arretrato già pendente in appello che non potrà essere azzerato attraverso la improcedibilità e la cui definizione impedirà in concreto che le Corti d’appello si possano fare carico dei processi sopravvenuti sottoposti al regime della improcedibilità. Ciò si verifica per tutte le riforme, tuttavia non pare che la riduzione del numero dei procedimenti attraverso la loro improcedibilità sia una “buona soluzione” per la giustizia e per le vittime. C’è poi anche l’incognita, già affacciata prima ancora della approvazione della Riforma, che l’istituto della prescrizione “processuale”, il quale introduce termini di durata massima per i giudizi di appello e di cassazione, ideato al posto della prescrizione “sostanziale” operante in primo grado come causa estintiva del reato, possa essere in contrasto con gli artt.3 e 112 della Costituzione.

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[1] Relazione tenuta venerdì 17 dicembre 2021 ore 15:30 – 18:00 – Aula Magna della Corte d’Appello di Cagliari, al primo degli INCONTRI SULLA RIFORMA DELLA GIUSTIZIA PENALE organizzati dall’Ordine degli avvocati di Cagliari

[2] Già presidente della Corte d’Appello di Cagliari, attualmente Presidente del Consiglio della Camera Arbitrale di Cagliari – Oristano

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