1. Cos’è la moneta vituale?   2. Profili giuridici della moneta virtuale. 3. La giurisprudenza della Suprema Corte  4. Conclusioni

1.COS’E’ LA MONETA VIRTUALE

La moneta virtuale è sempre stata vista in contrapposizione alla moneta legale, quindi come una sorta di moneta privata: da questo punto di vista la creazione di una moneta privata è un fenomeno che è sempre esistito: la moneta privata nasce nel momento in cui un individuo decide di contrassegnare un tondello di metallo con un sigillo che garantisce il peso del pezzo e la qualità della lega e viene accettato da una comunità di persone che quella moneta possa essere usata come corrispettivo della vendita di beni, passando così dalla permuta alla vendita.

La moneta pubblica nasce poi con l’intervento dello Stato, cambia praticamente il soggetto emittente: da qui anche la cd. teoria statalista, in base alla quale solo lo Stato puo` attribuire alla moneta il potere liberatorio delle obbligazioni pecuniarie (corso legale) con l’impossibilità per il creditore di rifiutarla come mezzo di pagamento (corso forzoso).

Vengono quindi in considerazione l’art.1277 cod. civ. secondo cui “i debiti pecuniari si estinguono con moneta avente corso legale nello Stato al tempo del pagamento e per il suo valore nominale. Se la somma dovuta era determinata in una moneta che non ha più corso legale al tempo del pagamento, questo deve farsi in moneta legale ragguagliata per valore alla prima”, e l’art. 1278 cod. civ., a norma del quale “Se la somma dovuta è determinata in una moneta non avente corso legale nello Stato, il debitore ha facoltà di pagare in moneta legale, al corso del cambio nel giorno della scadenza e nel luogo stabilito per il pagamento”.

Non c’è quindi da meravigliarsi se alcuni economisti quale Keynes, che aveva proposto di creare una moneta detta Bancor per consentire agli stati europei di regolare i propri saldi attivi e passivi, siano tornati all’idea di moneta privata; e dall’idea di moneta privata a quella di moneta virtuale il passo è breve, visto che entrambi i tipi di moneta non sono emessi dallo Stato e che quest’ultima presenta un indubbio vantaggio di facilità di circolazione.

Passiamo ora in maniera specifica dalla moneta virtuale alle criptovalute, il nome dato alle stesse non è casuale: anche se si ritiene che Il vocabolo criptovaluta o criptomoneta sia l’italianizzazione del termine inglese cryptocurrency e si riferisca ad una rappresentazione digitale di valore basata sulla crittografia e che l’etimologia del vocabolo deriva dalla fusione di cryptography (“crittografia”) e currency (“valuta”), a chi ha studiato al liceo classico piace più pensare che il termine “cripto” sia derivato dal greco e quindi voglia dire “nascosto”, quindi valuta nascosta, che non si vede e che può essere usata solo conoscendo un determinato codice informatico; è, inoltre, una moneta che viene generata e scambiata solo per via telematica ed emessa da soggeti privati (Fauceglia, “La moneta privata. Le situazioni giuridiche di appartenenza e i fenomeni contrattuali”, in Contratto e Impresa 2020, 3, pag. 1253).

Certamente, la più nota delle criptovalute è il bitcoin, ideato nel 2008 da Satoshi Nakamoto (nome che in realtà pare celare uno pseudonimo), anche se già negli anni precedenti vi erano stati studi e tentativi d’introduzione della moneta elettronica (il primo a pervenire ad un’ideazione vera e propria di criptovaluta fu Wei Dai in una mailing list del 1998, e poi ancora Nick Szabo nel 2005; si parlava allora di bitgold, ma non si era riusciti a capire come evitare un doppio pagamento con la stessa moneta).

Viene definita dallo stesso Nakamoto come “Una catena di firme digitali in cui un contraente traferisce valuta al successivo firmando digitalmente un hash della transazione precedente e inserendo la chiave pubblica del proprietario successivo e aggiunge le stesse alla fine della valuta”. (protocollo Bitcoin pubblicato su The Cryptography Mailing list sul sito metzdowd.com.).

Per comprendere la natura del bitcoin, bisogna considerare che lo sviluppo del commercio on line ha portato ad una progressiva smaterializzazione dei pagamenti, che avvengono ormai prevalentemente tramite bonifici, carte di credito, ricariche paypal e che hanno quindi trovato il loro naturale sviluppo nella creazione di sistemi di pagamento basati esclusivamente sullo scambio di informazioni digitali: in questi sistemi di pagamento gli utenti si scambiano una catena (chain) di informazioni digitali, che rappresentano tutti gli scambi che si sono verificati fino al momento di generazione della moneta (coin) da parte dell’utente.

Non bisogna però confondere la moneta elettronica, con cui viene identificato uno strumento di pagamento che incorpora in sé una somma di moneta avente valore legale, con la valuta virtuale: in sostanza la valuta virtuale è un registro di tutti gli scambi avvenuti fra gli utenti sino ad un determinato momento; una sorta di assegno girato un numero indeterminato di volte.

Naturalmente la bontà del pagamento ultimo è correlata alla correttezza e all’autenticità di tutte le “girate” precedenti, ed è con riguardo a questo aspetto che le valute virtuali presentano l’aspetto di maggiore novità rispetto sia alla moneta classica, sia ai titoli di credito sia ai pagamenti dematerializzati: è assente un’autorità controllante centralizzata che certifichi la genuinità di ogni scambio e quindi garantisca il valore della moneta virtuale al momento del suo utilizzo.

Il sistema di certificazione della valuta virtuale è invece autonomo ed è affidato a un software che, tramite il ben noto sistema della doppia chiave pubblica-privata, certifica l’avvenuta transazione attraverso un complesso processo informatico di crittografia, da cui appunto il nome criptovaluta; in particolare, le transazioni necessitano – previa disponibilita` di un e-wallet in cui movimentare le stesse – di due “chiavi” (rappresentate da stringhe alfanumeriche): una privata, per l’invio di criptovalute, e una pubblica (identificata dall’indirizzo associato al wallet), derivata dalla prima, per la ricezione delle medesime.

L’e-wallet o portafoglo elettronico è liberamente accessibile dal titolare, in possesso delle necessarie credenziali (la duplice chiave), in qualsiasi momento, senza bisogno dell’intervento dei terzi.

La transazione così criptata – e per questo certificata in modo univoco – costituisce un nuovo “blocchetto” di informazioni (block) che viene aggiunto alla catena di informazioni che l’hanno preceduta. Viene così allungata la blockchain, la catena di blocchetti di transazioni certificate che conferiscono valore alla moneta elettronica. A questo punto la valuta virtuale è pronta per essere “girata” al prossimo utilizzatore, che a sua volta ripeterà la medesima operazione e aggiungerà un nuovo block alla chain dei pagamenti, rendendola disponibile a sua volta per l’utilizzatore successivo. Sono quindi da subito evidenti i vantaggi della criptovaluta elettronica: assenza di un controllore centrale (e quindi di un monopolio economicamente rilevante) e possibilità di certificare le informazioni indipendentemente dall’identità dell’utilizzatore. Così come sono evidenti le sue criticità: da un lato l’anonimato degli utilizzatori favorisce l’impiego della moneta per scopi illeciti, dall’altro non essendo la moneta legata ad un valore stabile (come ad es. l’oro) può subire fluttuazioni importanti, al ribasso o al rialzo, poichè il suo valore è dato essenzialmente dalla domanda di transazioni elettroniche anonime in un dato momento storico.

Ma soprattutto è un sistema che, a differenza della moneta tradizionale, è limitato dalla lunghezza della blockchain che non può essere infinita. Infatti se per la moneta tradizionale vale il principio del “possesso vale titolo” ed è quindi irrilevante la legittimità della provenienza e la legittima continuità dei passaggi del valore da un soggetto all’altro, all’esatto contrario con la blockchain il valore è dato dalla certezza dell’identità (digitale) dei precedenti utilizzatori e dalla legittimità delle iscrizioni delle transazioni precedenti nel registro digitale.

La società che svolge l’attività di intermediazione in ambito di Bitcoin, se riceve l’ordine di acquistare, riceve una somma di denaro dal cliente a titolo di anticipo e, una volta effettuato l’acquisto di bitcoin, provvede a registrare nel wallet del cliente i codici relativi ai bitcoin acquistati; se riceve l’ordine di vendere, la società preleva dal wallet del cliente i bitcoin e gli accredita la somma concordata non appena avviene il completamento effettivo della vendita.

2. PROFILI GIURIDICI DELLA MONETA VIRTUALE

Che cosa sono le monete virtuali? Vi è una definizione nella direttiva  2018/843/UE del 30 maggio 2018 (in modifica della c.d. IV direttiva antiriciclaggio), secondo cui costituiscono valute virtuali «una rappresentazione di valore digitale che non è emessa o garantita da una banca centrale o da un ente pubblico, non è necessariamente legata a una valuta legalmente istituita, non possiede lo status giuridico di valuta o moneta, ma è accettata da persone fisiche e giuridiche come mezzo di scambio e puo` essere trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente»; notiamo subito come la decrizione venga fatta prevalentemente “in negativo”, specificando che cosa non è una moneta virtuale, e l’unico aspetto delineato “in positivo” è quello che può essere usata come mezzo di scambio; il che farebbe pensare ad una vera e propria moneta.

La norma, che evidenzia in negativo i requisiti che distinguono le valute virtuali dalle valute legali, risulta però in parte contradditoria. Secondo il legislatore europeo, le valute virtuali non sono l’espressione monetaria di autorità nazionali o sovranazionali perché non emesse o garantite da un’autorità pubblica; non possiedono lo status di moneta o di valuta, anche se utilizzate come mezzo di scambio come le comuni valute tradizionali. La contraddizione risiede nel negare alla valuta virtuale lo stato giuridico di moneta, sebbene – precisa l’inciso della norma – questa sia impiegata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni o servizi. Questo potrebbe spiegarsi nel senso che il legislatore eurounitario non volesse lasciare spazio all’interprete sulla possibile equiparazione della valuta virtuale alla moneta legale, in considerazione del fatto che le legislazioni degli Stati membri non offrono una definizione di moneta.

La ratio della norma muove evidentemente nella direzione di presidiare le aree di interferenza con le monete correnti e l’economia reale senza correttamente definire il fenomeno. Il considerando n. 10 della Dir. antiriciclaggio dimostra l’assunto, in quanto afferma che “sebbene le valute virtuali possano essere spesso utilizzate come mezzo di pagamento, potrebbero essere usate anche per altri scopi e avere impiego più ampio, ad esempio come mezzo di scambio, di investimento, come prodotti di riserva di valore o essere utilizzate in casinò online. L’obiettivo della presente direttiva è coprire tutti i possibili usi delle valute virtuali”.

In favore della impostazione secondo cui le monete virtuali sono in realtà un mezzo di investimento militerebbe la circostanza che la nozione di “prodotto finanziario” appare astrattamente capace di abbracciare ogni strumento idoneo alla raccolta del risparmio, comunque denominato o rappresentato, purché rappresentativo di un impiego di capitale; dunque troverebbe applicazione la nozione di cui alla lettera u) dell’art. 1 del d.lgs. n. 58/1998 TUF, secondo cui sono: “u) “prodotti finanziari”: gli strumenti finanziari e ogni altra forma di investimento di natura finanziaria; non costituiscono prodotti finanziari i depositi bancari o postali non rappresentati da strumenti finanziari”.

L’art. 1, comma 2, del TUF, secondo cui “i mezzi di pagamento non sono strumenti finanziari”, osterebbe così alla equiparazione generale ed astratta delle criptovalute agli strumenti finanziari, ma non alla riconduzione a tale nozione di quelle operazioni che risultino connotate da utilizzo di capitale, assunzione di un rischio connesso al suo impiego ed aspettativa di un rendimento di natura finanziaria (in questo senso viene richiamato l’orientamento della CONSOB sotteso a più recenti delibere, evidenziate in dottrina, come la nr. 19866/2017, avente ad oggetto la sospensione dell’attività pubblicitaria per l’acquisto di pacchetti di estrazione di criptovalute; 20207/2017, divieto dell’offerta di portafogli di investimento in criptomonete; 20720/2018 e 20742/2018, ordine di porre termine alla violazione dell’art. 18 del TUF).

Sul piano normativo sono poi intervenuti il d.lgs. n. 90 del 2017 e la dir. 2018/843/UE del 30 maggio 2018, che accolgono, invero, una formale definizione della moneta elettronica come “mezzo di scambio” (art. 1, comma 2, lett. qq) del d.lgs. n. 231/2007, come modificato dall’art. 1 del d.lgs. 90/2017).

Nel testo risultante dalle modifiche apportate all’art. 1 del d.lgs. 231/2007 dal D.Lgs. 4 ottobre 2019, n. 125 viene definita (lett. qq) “valuta virtuale: la rappresentazione digitale di valore, non emessa né garantita da una banca centrale o da un’autorità pubblica, non necessariamente collegata a una valuta avente corso legale, utilizzata come mezzo di scambio per l’acquisto di beni e servizi o per finalità di investimento e trasferita, archiviata e negoziata elettronicamente” (identica è la definizione contenuta nell’art. 1, comma 2, lett f) del Decreto MEF del 13 gennaio 2022);  interesante notare che alla lettera (s) del citato decreto legislativo  vengono invece definiti, quali “mezzi di pagamento”: “il denaro contante, gli assegni bancari e postali, gli assegni circolari e gli altri assegni a essi assimilabili o equiparabili, i vaglia postali, gli ordini di accreditamento o di pagamento, le carte di credito e le altre carte di pagamento, le polizze assicurative trasferibili, le polizze di pegno e ogni altro strumento a disposizione che permetta di trasferire, movimentare o acquisire, anche per via telematica, fondi, valori o disponibilità finanziarie”.

Il decreto legislativo n.90/2017 ha introdotto nel sistema legislativo italiano il concetto di “valuta virtuale” e di “prestatore di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale” (lett. ff: sono “prestatori di servizi relativi all’utilizzo di valuta virtuale: ogni persona fisica o giuridica che fornisce a terzi, a titolo professionale, servizi funzionali all’utilizzo, allo scambio, alla conservazione di valuta virtuale e alla loro conversione da ovvero in valute aventi corso legale”); il decreto e` entrato in vigore il 14 luglio 2017 ed è la prima normativa che definisce chiaramente queste due figure; si veda anche l’art. 1, comma 2, lett. b) e c) del Decreto MEF del 13 gennaio 2022.

Come si nota, al contrario della Direttiva antiriciclaggio, la norma nazionale non stabilisce uno status monetario, ma aggiunge la (possibile) finalità di investimento correlato all’utilizzo delle valute virtuali.

A me sembra quindi chiaro l’intento del legislarore, -visto che l’inciso “per finalità di investimento” è stato introdotto dal D.Lgs. n.125/2019-, che vuole andare verso la direzione di ritenere le monete virtuali quali possibili strumenti finanziari.

I sostenitori delle teoria della valuta virtuale come moneta osservano che la Corte di Giustizia europea ha espresso favore per la tesi monetaria, quantomeno in relazione all’applicazione della Dir. 2006/112/CE (Dir. IVA) alle operazioni di cambio moneta legale/valuta virtuale, in quanto qualifica la valuta virtuale come mezzo di pagamento contrattuale.

Secondo la Corte del Lussemburgo, l’art. 135, par. 1, lett. e), Dir. IVA va interpretato nel senso che le prestazioni di servizi, che consistono nel cambio di valuta tradizionale contro unità di valuta virtuale e viceversa, costituiscono operazioni esenti dalla disposizione, posto che la disciplina va applicata solo alla cessione di beni ed anche le posizioni assunte da alcune autorità di vigilanza (in particolare inglese e francese) sembrerebbero orientarsi verso una visione monetaria del fenomeno.

Nell’ordinamento francese, l’Autorité de contrôle prudentiel et de résolution qualifica l’attività di intermediazione, ricezione di pagamenti e conversione di valute virtuali tra le prestazioni di servizi di pagamento. Infatti, affinché sia possibile svolgere regolarmente queste attività occorre essere accreditati quale prestatore di servizi di pagamento con licenza rilasciata dall’Autorità di vigilanza. Nello stesso senso dell’Autorità di vigilanza francese, senza però stabilire una disciplina applicabile, la Banca d’Inghilterra equipara la tecnologia dei pagamenti con valuta virtuale ad un nuovo sistema di pagamento con monete private a corso fiduciario. (De Luca e Passaretta, “Le valute virtuali: tra nuovi strumenti di pagamento e forme alternative d’investimento” in Le società, 5/2020, pag. 571, nel commento alla sentenza del TAR Lazio di cui oltre).

La Corte di Giustizia si è espressa attraverso la sentenza del 22 ottobre 2015, causa C-264/14, con la quale ha stabilito che, ai sensi dell’art. 2, paragrafo 1, lett. c) della Direttiva iva, costituiscono prestazioni di servizi effettuate a titolo oneroso le operazioni di cambiavalute, effettuate a fronte del pagamento di una somma corrispondente al margine costituito dalla differenza tra il prezzo al quale l’operatore è interessato ad acquistare valute e il prezzo al quale le vende ai suoi clienti. Conseguentemente le operazioni di cambiavalute oggetto del processo principale, ai sensi dell’art. 135, paragrafo 1, lett. e) della già citata Direttiva, costituiscono operazioni esenti dall’Imposta sul Valore Aggiunto.

A tal proposito, la Corte di Giustizia Europea specifica che le esenzioni previste dall’art. 135, paragrafo 1, lett. e) della Direttiva iva servono a volte a porre rimedio alle difficoltà relative alla determinazione della base imponibile e all’ammontare dell’iva detraibile che sorgono al momento dell’effettuazione di operazioni finanziarie. Dunque, le operazioni che coinvolgono valute virtuali costituiscono operazioni finanziarie perchè la valuta virtuale è accettata dalle parti della transazione quale mezzo di pagamento alternativo ai mezzi tradizionali e solo in quanto tale.

La differenza di opinioni riguardo alle criptovalute sussiste anche nella nostra  giuridsprudenza: non sono monete per il Tribunale di Firenze (19 dicembre 2018, in Contratti, 2019, n.6), lo sono per la Corte di appello di Brescia (sez.I, decr. 24 ottobre 2018 in Società, 2019 n.1, pag.26), non lo sono per il Tribunale di Verona, che aveva qualificato “strumenti finanziari” alcune valute virtuali acquistate su una piattaforma di scambio; non lo sono per il TAR Lazio del 27 gennaio 2020 n.1077 (sempre in Le Società n.5/2020, pag.566).

Particolarmente interessante è quest’ultima sentenza, nella quale il T.A.R.Lazio, nel valutare la legittimità di un provvedimento dell’Agenzia delle Entrate, che esige di indicare come da inserire nel quadro RW, tra i redditi finanziari di provenienza estera anche le valute virtuali, aderisce alla tesi che queste debbano ricondursi ai beni ai sensi dell’art. 810 cod. civ.

Il TAR rileva, infatti, come il riconoscimento della moneta elettronica (meglio però sarebbe stato parlare di moneta virtuale) come “bene giuridico” corrisponderebbe – secondo la dottrina che se ne è occupata – a quanto risulterebbe essere stato riconosciuto in altri ordinamenti (vengono portati ad esempio il sistema vigente negli USA, ove la moneta virtuale viene considerata tassabile come “proprietà”; quello canadese, dove lo scambio di moneta virtuale è trattato come una permuta; il sistema anglosassone nel quale la valuta virtuale è considerata rappresentativa di un credito).

Si aggiunge che l’impiego della valuta virtuale dovrebbe essere accostato alla categoria degli strumenti finanziari. Tale qualificazione punta a valorizzare la componente di “riserva di valore”, che, almeno in parte, può caratterizzare le criptomonete e che consente di attribuire a queste ultime una finalità d’investimento; per riserva di valore intendendosi la capacità dell’oggetto (la valuta) da una parte di conservare il suo valore nel tempo, e dall’altra, proprio in forza di questo motivo, di essere tenuta per un uso futuro senza il pericolo di “deteriorarsi”; secondo il TAR Lazio, quindi, <<la nozione di cui alla lett. “qq” sopra riportata, non si limita a qualificare la moneta elettronica quale “mezzo di scambio”, ma contempla espressamente la possibilità che tramite il suo impiego si compiano operazioni di “acquisto beni e servizi” oppure “finalità di investimento”, recependo quella caratteristica duttile delle “rappresentazioni digitali di valori” già avvertita in dottrina – come si è visto prima – che consente a queste ultime di veicolare più tipologie di operazioni e scambi>>.

Tale impostazione si porrebbe anche a protezione dei consumatori e dell’integrità dei mercati: in questo senso, la già richiamata sentenza del Tribunale Civile di Verona, (n. 195 del 24 gennaio 2017, in Banca, borsa, tit.cred., II, 2017, 476 ss., con nota critica di M.Passaretta, “Bitcoin: il leading case italiano”), che ha ritenuto applicabile alle fattispecie in esame il Codice del Consumo ed il regolamento CONSOB n. 18592 del 26 giugno 2013, qualificando “strumenti finanziari” alcune valute virtuali acquistate su una piattaforma di scambio.

Il Tribunale sposa quindi la tesi dottrinaria secondo la quale caratteri distintivi dell’investimento di tipo finanziario sono: a) un impiego di capitali, riconducibile generalmente al danaro o, più in generale, a un capitale proprio che può corrispondere anche a una valuta virtuale; b) una aspettativa di rendimento; c) un rischio proprio dell’attività prescelta, direttamente correlato all’impiego di capitali.

Caratteri questi che ben potrebbero identificarsi nelle valute virtuali, in quanto il soggetto interessato all’investimento per ottenerlo: a) ha erogato una somma di danaro, b) con l’aspettativa di ottenere un rendimento, non necessariamente corrispondente all’apporto patrimoniale maggiorato rispetto a quello investito e c) ha assunto su di sé un rischio connesso al capitale investito.

Ne consegue che la valuta virtuale, quando assume la funzione, e cioè la causa concreta, di strumento d’investimento e, quindi, di prodotto finanziario, va disciplinata con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. T.U.F.), le quali garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell’investimento.

Si tenga presente che l’art.1, comma1, lett.t), T.U.F. definisce “offerta al pubblico” “ogni comunicazione rivolta a persone, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo, che presenti sufficienti informazioni sulle condizioni dell’offerta e dei prodotti finanziari offerti così da mettere un investitore in grado di decidere di acquistare o di sottoscrivere tali prodotti finanziari, incluso il collocamento tramite soggetti abilitati”; e che l’art. 1, comma 2, T.U.F., prevede che “per strumento finanziario si intende qualsiasi strumento riportato nella Sezione C dell’Allegato I. Gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”.

Veniamo ora all’aspetto più propriamente penalistico, partendo dalla considerazione che l’art.1, comma 2, lett.qq), D.Lgs.n.231/2007 ricalca la definizione offerta dalla Banca d’Italia nella sua Comunicazione del 30 gennaio 2015 avente ad oggetto proprio le valute virtuali, quando la UIF (Unità di Informazione Finanziaria) ne segnalava l’indice di anomalia, allo scopo di prevenire l’utilizzo del sistema economico-finanziario a fini di riciclaggio e finanziamento del terrorismo. Già in tale occasione, l’Unità di Informazione Finanziaria invitava i destinatari del D.Lgs. 231/2007 a individuare le operatività connesse con valute virtuali, rilevandone gli eventuali elementi di sospetto.

Pensiamo anche a vittime di vicende di natura estorsiva, legate alla diffusione di malware (art. 635 bis cod. pen.), che consentono l’intrusione informatica e il sequestro di dati (art. 615 ter cod .pen.) sbloccati a fronte di un riscatto in bitcoin (art. 629 cod. pen.), difficilmente rintracciabile.

Vista la natura appunto “nascosta” è chiaro infatti che le criptovalute possono essere usate per la commissione del reato di riciclaggio (art. 648 bis cod.pen.: “Fuori dei casi di concorso nel reato, chiunque sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo; ovvero compie in relazione ad essi altre operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa…”).

3. LA GIURISPRUDENZA DELLA SUPREMA CORTE

Tre sentenze della Seconda sezione della Corte di Cassazione, in particolare, si sono occupate di monete virtuali: la n.  44378 del 26/10/2022 (non massimata) la n. 27023 del 07/07/2022, Miele,  Rv. 283681–02  e la n. 26807 del 17/09/2020, De Rosa, Rv. 279590.

In quest’ultima, il caso era il seguente: Il Tribunale del riesame aveva confermato il decreto di sequestro preventivo di una somma di denaro e di beni ulteriori come cellulari, dispositivi elettronici e carte abilitanti al prelievo di denaro, a carico di un soggetto indagato, oltre che di riciclaggio e di indebito utilzzo di carte di credito e pagamento, del reato di cui all’art. 166, comma 1, lett. c), dlgs. n. 58/1998, che punisce con la multa fino a 10.000 euro chi, senza esserne abilitato offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento.

Il ricorrente eccepiva la violazione dell’art. 1 comma 2 e dell’art. 166 comma 1 lett. C) D. Igs. 58/98 (TUF), in quanto l’attività di cambiavalute virtuale era stata definita dal D.Lgs. 90/17, delineando per i cambiavalute uno stato proprio e sottraendoli quindi al perimetro applicativo della normativa in materia di strumenti finanziari in quanto le valute virtuali non erano considerate prodotti da investimento, ma mezzi di pagamento (l’art. 1 comma 2 TUE prevede che “gli strumenti di pagamento non sono strumenti finanziari”); tale scelta era perfettamente coerente con l’ordinamento comunitario e, in particolare, con l’orientamento espresso dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza pregiudiziale del 22 ottobre 2016 avente ad oggetto proprio le operazioni di cambio della valuta virtuale bitcoin contro valuta tradizionale, nella quale era stato chiarito che i bitcoin non avevano altre finalità oltre a quella di mezzo di pagamento; a fronte di tali dati era un fuor d’opera quanto affermato dal Tribunale, secondo cui i bitcoin costituiscono uno strumento finanziario, anche se lo stesso Tribunale sembrava perfettamente consapevole della assoluta incongruità della valutazione giuridica offerta, laddove compiva un generico ed impreciso riferimento ad “atti comunitari e provvedimenti Consob” e sovvertiva la gerarchia delle fonti del nostro ordinamento, ritenendo una decisione della Corte di Giustizia UE ed un decreto legislativo minusvalenti rispetto ad un parere della Banca Centrale Europea o ad un parere della Consob o ancora ad una direttiva comunitaria priva di effetto per i cittadini perché non ancora recepita dall’ordinamento interno.

La Corte ha sostenuto l’infondatezza del motivo di ricorso, in quanto la vendita di bitcoin veniva reclamizzata come una vera e propria proposta di investimento, tanto che sul sito ove veniva pubblicizzata si davano informazioni idonee a mettere i risparmiatori in grado di valutare se aderire o meno all’iniziativa, affermando che “chi ha scommesso in bitcoin in due anni ha guadagnato più del 97%”; trattasi pertanto di attività soggetta agli adempimenti di cui agli artt. 91 e seguenti TUF (“La CONSOB esercita i poteri previsti dalla presente parte avendo riguardo alla tutela degli investitori nonché all’efficienza e alla trasparenza del mercato del controllo societario e del mercato dei capitali”),  la cui omissione integra la sussistenza del reato di cui all’art. 166 comma 1 lett.c) TUF (che punisce chiunque offre fuori sede, ovvero promuove o colloca mediante tecniche di comunicazione a distanza, prodotti finanziari o strumenti finanziari o servizi o attività di investimento).

Un tema pressocchè analogo è stato trattato da Sez.2, n. 44378 del 26/10/2022 (non massimata); altra sentenza che si è occupata dei bitcoin è Sez.2, n. 27023 del 07/07/2022, Miele,  Rv. 283681 – 02 secondo cui  “integra il delitto di autoriciclaggio la condotta di chi, in qualità di autore del delitto presupposto di truffa, impieghi le somme accreditategli dalla vittima trasferendole, con disposizione “on line”, su un conto intestato alla piattaforma di scambio di “bitcoin” per il successivo acquisto di tale valuta, così realizzando l’investimento di profitti illeciti in operazioni finanziarie a fini speculativi, idonee a ostacolare la tracciabilità dell’origine delittuosa del denaro”; nella motivazione della sentenza si afferma che  le valute virtuali possono essere utilizzate per scopi diversi dal pagamento e comprendere prodotti di riserva di valore a fini di risparmio ed investimento, precisando che la configurazione del sistema di acquisto di bitcoin si presta ad agevolare condotte illecite, in quanto è possibile garantire un alto grado di anonimato (sistema cd. permissionless), senza previsione di alcun controllo sull’ingresso di nuovi “nodi” e sulla provenienza del denaro convertito (si è anche sottolineato come sia ormai noto il vasto numero di criptovalute utilizzate nel darkweb, proprio per le loro peculiari caratteristiche, e che alcune di esse, attraverso l’uso di tecniche crittografiche avanzate, garantiscono un elevato livello di privacy sia in relazione alla persona dell’utente sia in relazione all’oggetto delle compravendite).

La sentenza osserva inoltre che la normativa di carattere preventivo di cui ai decreti legislativi sopra citati si affianca alla disciplina penalistica di contrasto a riciclaggio e autoriciclaggio di cui agli artt. 648-bis e 648-ter.1 cod. pen., senza tuttavia che tale nuovo meccanismo di controllo consenta di evitare i suddeti reati; al contrario, accertata la re-immissione del profitto delle truffe nel circuito dell’economia legale, risultano estremamente difficili le attività di ricostruzione dell’identità del soggetto al quale riferire le singole transazioni in criptovaluta.

4. CONCLUSIONI

In conclusione, quindi, è sbagliato attribuire al bitcoin o a qualsiasi criptovaluta la natura di moneta virtuale o di strumento finanziario, in quanto quello che conta è l’uso che se ne fa; può ritenersi quindi il bitcoin un prodotto finanziario qualora acquistato con finalità d’investimento: la valuta virtuale, quando assume la funzione, e cioè la causa concreta, di strumento d’investimento e, quindi, di prodotto finanziario, va disciplinato con le norme in tema di intermediazione finanziaria (art. 94 ss. T.U.F.), le quali garantiscono attraverso una disciplina unitaria di diritto speciale la tutela dell’investimento; ne consegue che chi eroghi detti servizi è tenuto ad un innalzamento degli obblighi informativi verso il consumatore, al fine di consentire allo stesso di conoscere i contenuti dell’operazione economico-contrattuale e di maturare una scelta negoziale meditata; ragion per cui l’esercizio senza autorizzazione della relativa autorità potrebbe comportare la violazione di disposizioni normative, penalmente sanzionate, che riservano l’esercizio ai soli soggetti legittimati (artt. 130, 131 t.u.b. per l’attività bancaria e l’attività di raccolta del risparmio; art. 131-ter TUB per la prestazione di servizi di pagamento; art. 166 TUF, per la prestazione di servizi di investimento); tant’è che vi è uno studio della Consob, riportato nel Sole 24 ore del 3 gennaio 2020, relativo alla creazione di un quadro organico che permetta di investire nel mondo delle criptovalute, indirizzato quindi sulle offerte pubbliche e sugli operatori abilitati.

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