di Bruno Conca – G.D. Trib. Bergamo

SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Universalità dell’accesso alla procedura di composizione negoziata. – 3. Il requisito oggettivo di accesso: dalla “precrisi” all’insolvenza …e ritorno. – 4. L’esperto al cospetto della platea dei debitori in…negoziabile composizione. – 5. L’esperto e il concordato semplificato.

  1. Premessa

La nuova figura dell’esperto negoziatore, introdotta dal d.l. 118/2021, rappresenta il motore della composizione negoziata, multiforme percorso finalizzato al possibile risanamento dell’impresa in crisi (o “pre-crisi”), quando non già insolvente, purché con prospettive di reversibilità del dissesto.

La dichiarata e reiterata finalità della legge ad assicurare il mantenimento od il recupero della continuità aziendale sembra postulare l’operatività dell’esperto in un persistente contesto di going concern dell’impresa, la quale, peraltro, anche quando ricorre al tribunale per il conseguimento di misure protettive o di speciali autorizzazioni (art. 10) non soggiace ad uno stato di spossessamento attenuato, con la conseguenza che l’imprenditore, almeno virtualmente, rimane titolare di uno statuto di piena autonomia delle proprie scelte gestorie; nondimeno l’esperto, attraverso l’iscrizione nel registro delle imprese del proprio dissenso a specifici atti gestionali di straordinaria amministrazione, è investito di una funzione non meramente parenetica, ma tale da incidere sulle concrete possibilità dell’imprenditore di proseguire nella gestione caratteristica dell’attività aziendale. Di qui l’utilità di una riflessione trasversale sul ruolo dell’esperto e sull’atteggiarsi della sua attività in relazione ad un organismo imprenditoriale che, nella prospettiva del legislatore, dovrebbe essere munito di una residua vitalità e, soprattutto, della capacità di riemergere da un dissesto imminente o già in atto.

Affrontate dalla correlatrice le tematiche più squisitamente aziendalistiche ed inerenti lo statuto giuridico di questa nuova figura professionale, restano da esaminare gli snodi critici del suo ruolo in relazione alle molteplici “figure” del risanamento percorribile, nonché utilità e limiti del suo apporto allorquando le sorti del percorso di composizione negoziata passano attraverso la necessità di una qualche forma di tutela giurisdizionale (misure cautelari, protettive, speciali autorizzazioni). 

2. Universalità dell’accesso alla procedura di composizione negoziata.

La composizione negoziata, secondo l’indirizzo unanime degli interpreti non è una procedura concorsuale, benché non sconosca – al proprio interno – eventuali incidenti procedimentali ascrivibili al genus cautelare e/o camerale e sia finalizzata, ad ogni buon conto, ad una soluzione della crisi d’impresa in contesto concorsuale o, comunque, a valenza generale e dunque, al postutto, comunque concorsuale; di ciò si ha evidenza all’art. 11 della legge, allorquando, nell’enunciare i possibili esiti favorevoli della composizione negoziata, si indicano, in buona sostanza, tutti i possibili istituti concorsuali diversi dal fallimento e dal concordato preventivo “classico”, oltre al contratto (art. 11, lett. a) assistito dalle premialità tributarie di cui all’art. 14. D’altro canto, anche l’esito infausto della composizione negoziata conduce ad una soluzione concorsuale, vuoi nella forma di cui al concordato semplificato ex art. 18, vuoi mediante gli istituti della legge fallimentare (fallimento compreso), sebbene tale opzione sia esclusivamente nelle mani dell’imprenditore, alternativamente facoltizzato a ritornare virtualmente in bonis, ovvero senza onere od obbligo – di là delle responsabilità da aggravamento del dissesto che ne potrebbero potenzialmente derivare – di “portare i libri in tribunale”.

In ciò, in definitiva, sta il maggior atout della composizione negoziata, rispetto al tanto contrastato sistema dell’allerta disciplinato dal codice della crisi: procedura libera nell’accesso (sebbene non priva di un potenziale stimolo indotto dall’allerta interna ex art. 15), segreta (nei limiti che si vedranno) sinché non sia lo stesso imprenditore a scegliere di ostendere il proprio stato di crisi in ragione della necessità di conseguire variabili protezioni da parte dell’autorità giudiziaria, disponibile negli esiti, sino all’eventuale inabissamento del non superato dissesto sinché l’imprenditore non sia in grado di adottare una qualche soluzione concorsuale o l’iniziativa di terzi non lo conduca al fallimento (futura liquidazione giudiziale).

Dal carattere spiccatamente amiable di tale procedura consegue la straordinaria ampiezza della sua accessibilità sotto il profilo soggettivo.

Se il dato emergente da una prima lettura e sottolineato dalla maggior parte degli interpreti è quello della sua percorribilità anche dalle imprese agricole o sottosoglia, rispetto alle quali l’istituto in esame, grazie anche ai minori costi dell’esperto e alla possibilità di autodiagnosi mediante al piattaforma digitale preconizzata dalla legge e già attuata dal Decreto dirigenziale del 28/09/2021, vorrebbe costituire una forte implementazione delle possibilità di soluzioni concorsuali alla crisi, in linea con le prescrizioni eurounitarie in materia di ristrutturazione preventiva anche della microimpresa, non può tuttavia non rilevarsi come le spire della norma si estendano non solo verso il basso, ma anche verso l’alto, ricomprendendo – almeno potenzialmente – quelle imprese di maggiori dimensioni (banche, assicurazioni, quotate, grandi gruppi) espressamente esclusi dal sistema dell’allerta e del procedimento davanti all’OCRI.

Se l’esclusione proprio di tali imprese dal sistema di anticipata e, in certa misura, forzata emersione della crisi appariva sistematicamente distonica con la proclamata necessità di un tale apparato, in concreto precluso ai fenomeni imprenditoriali di maggiori dimensioni, come tali, per un verso, maggiormente capaci di reagire alla crisi mediante strumenti di reorganization e, per l’altro, tali da necessitare un preventivo monitoraggio in ragione degli effetti sistemici di una loro insolvenza, l’inserimento delle grandi imprese nel cono applicativo della composizione negoziata sana questa contraddizione, sebbene in ragione di un evidente depotenziamento dello strumento: l’anticipata emersione della crisi è un bene in sé, ma spetta solo all’imprenditore la scelta dell’emersione, nell’an e nel quando.

In altri termini, una “autoallerta”, proprio perché su base schiettamente volontaria,  non può avere la potenziale pericolosità di un sistema fondato, mediante gli indici, su relativi automatismi e, dunque, incorporante il rischio, paventato in concreto dietro la stentorea affermazione della necessità di munirsi di un apparato di monitoraggio delle situazioni di crisi d’impresa, che il meccanismo più che prevenire il rischio di dissesto finisca per creare l’evento: rischio che il legislatore del CCII non era disponibile a correre per le imprese di maggiori dimensioni e/o di più nevralgica importanza per l’economia nazionale.

3.         Il requisito oggettivo di accesso: dalla “precrisi” all’insolvenza …e ritorno.

Se, come accennato, sul piano soggettivo la composizione negoziata è accessibile a tutte le imprese commerciali o agricole, anche sotto il profilo oggettivo il presupposto d’ingresso è non meno ampio, coprendo una condizione economico-finanziaria che va dalla probabilità della crisi all’insolvenza ragionevolmente reversibile. Se l’anticipazione dell’accesso ad una situazione non ancora qualificabile in termini di crisi risponde all’istanza eurounitaria di munirsi di un sistema di allerta precoce, verosimilmente non assicurata dalla nozione di crisi contemplata dall’art. 2 del CCII, siccome qualificata in termini di concreto rischio di perdita della continuità aziendale entro l’esercizio e, dunque, di vera e propria insolvenza prospettica, l’estensione del presupposto all’insolvenza reversibile desta maggiori perplessità.

In primo luogo essa assume un colore di déjà vu, ove si rammenti che già nel corso del 2005, modificato con il d.l. 33/2005 il presupposto di accesso al concordato preventivo nello stato di crisi in luogo dell’insolvenza, il legislatore intervenne quasi immediatamente a stabilire, in funzione d’interpretazione autentica, che ai fini dell’ammissibilità della proposta di concordato lo stato d’insolvenza equivale a crisi, al fine di scongiurare il rischio che gran parte delle domande di concordato, proposte da imprenditori in stato di schietta insolvenza, venissero dichiarate inammissibili.

Per vero già anteriormente alla riforma del 2005/2007, la “temporanea difficoltà ad adempiere”, presupposto di accesso all’amministrazione controllata, era stato interpretato dalla giurisprudenza di legittimità e costituzionale in termini meramente prospettici o prognostici, ovvero dovendosi ritenere che esso, dal punto di vista fenomenico non si differenziasse affatto dall’insolvenza (presupposto del fallimento e del concordato preventivo ancien regime), ma se ne discostasse per la favorevole prognosi di ripristinabilità delle condizioni di equilibrio economico-finanziario.

E’ però noto che tale indeterminazione della soglia oggettiva di accesso alle procedure alternative al fallimento ha finito, da un lato, per incentivare condotte inerti ed incrementative delle conseguenze pregiudizievoli del dissesto e, dall’altro, per consentire l’accesso alle stesse da parte di soggetti non più in grado di assicurare né un’effettiva continuità, né un’adeguata recovery per i creditori, anzi conducendo frequentemente ad una consecuzione di procedure, con significativa erosione dell’attivo destinabile ai creditori per effetto dell’erompere dei costi in prededuzione.

La lezione del passato, in uno con la piena libertà dell’imprenditore di accedere o meno alla composizione negoziata, conduce a ritenere che, come già in precedenza, la moneta cattiva, per così dire, scacci la buona, ovvero che l’anticipata emersione sia in concreto frustrata dalla possibilità di comprare tempo sin oltre le soglie della conclamata insolvenza.

Lo spostamento in avanti della linea ultima di accesso alla composizione negoziata reca in sé un ulteriore rischio: la sterilizzazione o, quanto meno, il forte depotenziamento del principio di cui all’art. 375 del CCII, ovvero il dover per l’imprenditore di munirsi di assetti organizzativi adeguati per la tempestiva rilevazione della crisi e della perdita della continuità aziendale, nonché il dovere di attivarsi senza indugio per l’adozione e l’attuazione di uno degli strumenti previsti dall’ordinamento per il superamento della crisi ed il recupero della continuità aziendale. Si ricorderà che tale norma è già in vigore dal 16/03/2019.

Sebbene non si possa sottacere la possibile ricaduta di tale norma in relazione al sistema della responsabilità delle persone giuridiche (legge 231/2001), sino al d.l. 118/2021 poteva tuttavia ragionevolmente affermarsi che tale norma, sotto un profilo puramente logico, potesse ascriversi al novero delle leges imperfectae, ovvero senza sanzione. Ed invero, dato per scontato – il che non è affatto – quale debba essere l’assetto organizzativo adeguato per quella specifica impresa, si ipotizzino i due casi alternativi ed estremi: da un lato, quello dell’imprenditore, che pur munitosi dell’assetto in thesi adeguato, non adotti alcuna iniziativa volta a risolvere la propria crisi e, dall’altro, quello che, totalmente noncurante dei profili organizzativi prescritti dalla norma, nondimeno intercetti tempestivamente lo stato di crisi e vi ponga sollecitamente rimedio, prima che gli effetti della crisi medesima determinino ulteriore pregiudizio ai creditori.

E’ facile ricavarne che come il primo non trarrà alcun vantaggio dall’adozione di tale modello ideale, né potrà vedere in alcun modo le proprie responsabilità in alcun modo scriminate o attenuate, il secondo non patirà alcuna conseguenza dalla violazione dell’art. 375 CCII. Si tratta, beninteso, di esempi, per così dire, in vitro e difficilmente rinvenibili in fattispecie concrete, ma che valgono a dare il segno della tendenziale insuscettibilità di tale principio a fondare un autonomo titolo di responsabilità.

Il d.l. 118/2021 pareva aver dato nuova linfa operativa a tale principio, poiché – in disparte i casi delle microimprese – difficilmente i tempi tecnici della composizione negoziata paiono consentire l’agevole e celere formulazione di una prognosi di risanabilità in assenza di un precostituito set informativo su genesi ed entità dello stato di tensione finanziaria o squilibrio economico-patrimoniale possibile solo in presenza di presidi organizzativi, contabili e gestori specificamente deputati ad intercettare tali situazioni.

Non solo. La relazione negativa dell’esperto legittimante l’accesso alla procedura di concordato semplificato postula – espressamente a seguito della modifica introdotta in sede di conversione, ma per via sistematica già arguibile dall’originaria formulazione della norma – la non imputabilità all’imprenditore della definitiva non praticabilità delle soluzioni di cui all’art. 11. Difficilmente sarebbe predicabile la non imputabilità al debitore della impraticabilità del risanamento e/o dell’esito negativo delle trattative a fronte di un pregresso marasma organizzativo e conseguentemente tardivo e pregiudicato accesso alla composizione negoziata.

Tale quadro, tuttavia, è messo in crisi da un accesso anche dell’insolvente “reversibile”, perché, quanto meno entro il sistema chiuso (ma, come s’è detto, amplissimo) della composizione negoziata, non può più essere ex se censurabile il fatto che ad essa si affacci anche l’imprenditore insolvente, con ciò pertanto svalutandosi fortemente l’utilità dell’assetto organizzativo, che finisce per risolversi – per gli imprenditore che hanno l’obbligo di munirsene – nel dovere di segnalazione da parte dell’organo di controllo e, dunque, in una previsione che inerisce lo statuto normativo dell’organo di controllo, non le scelte dell’organo gestorio.

E’ d’altronde chiaro che la reversibilità dell’insolvenza, di là di situazioni statisticamente irrilevanti o di meri auspici connessi ad un inerziale ripristino della redditività della gestione caratteristica, dipenderà da fattori essenzialmente esogeni e che prescindono dalla diligenza organizzativa dell’imprenditore; si tratterà essenzialmente di quelle ipotesi di continuità indiretta, se del caso attraverso il ben oliato meccanismo della newco, che potranno essere veicolate vuoi nell’ambito degli istituti percorribili ex art. 11 ed eventualmente autorizzate dal tribunale ai sensi dell’art. 10, vuoi con le modalità del concordato semplificato. E di qui, ulteriori criticità, sulle quali infra.

4.         L’esperto al cospetto della platea dei debitori in…negoziabile composizione.

La relazione precedente ha già dato conto delle caratteristiche tipologiche dell’esperto e, dunque, non mette conto soffermarsi sulle stesse.

Vale la pena, tuttavia, di sottolineare che, sebbene l’esperto non sia equiparabile ad un attestatore, esso offre, per un certo verso, maggiori garanzie ai creditori ed anche al tribunale, in relazione all’apporto informativo che può fornire allorquando l’autorità giudiziaria sia investita di specifiche istanze da parte dell’imprenditore. Ed invero, se l’esperto non è titolare di responsabilità penale autonoma in relazione ai doveri del suo ufficio (di là – ovviamente – di eventuali ipotesi di concorso con altri) a differenza dell’attestatore, va però considerato che la sua nomina è pubblicistica e non privatistica e che, dato non secondario, è vincolato ad un numero limitato d’incarichi, non potendone avere in corso più di due. Tali caratteristiche genetiche della figura paiono assicurare alla medesima uno statuto di effettiva terzietà superiore a quella dell’attestatore, pur se connotata da un regime proprio di responsabilità penale.

La maggior debolezza dell’istituto sembra semmai risiedere, per le ragioni sopra dette, nella straordinaria eterogeneità dei contesti in cui è chiamato ad operare: dalla microimpresa al gruppo di grandi dimensioni, da situazioni di temporanea ancorché severa illiquidità sino ad insolvenze conclamate, ove “reversibili”. E’ tale pressoché infinito ventaglio di fattispecie e patologie che, verosimilmente, renderà più difficile cristallizzare – come, di contro, si è riusciti infine a fare con riferimento all’attestatore – uno statuto operativo unitario per l’esperto, molto più che non le difficoltà conseguenti ad una certa indeterminazione del ruolo: portatore di una informazione qualificata ai terzi e, se del caso, al tribunale, senza che ciò si risolva in attestazione o certificazione; facilitatore nelle trattative senza che possa risolversi in vero e proprio negoziatore.

Alla molteplicità delle situazioni consegue, parimenti, una operatività assai differenziata in base alle mutevoli esigenze dell’impresa.

Possono distinguersi in primo luogo due macro-ipotesi, a seconda che si richieda o meno l’intervento del tribunale, quale che esso sia.

Nel caso composizione puramente negoziale (trattative con uno o più creditori, senza richieste di misure protettive o cautelari, né autorizzazioni al compimento di atti di straordinaria amministrazione) è ovvio che il ruolo dell’esperto si declinerà in termini essenzialmente mediatori, egli dovendo procurare quel luogo neutro entro il quale consentire le trattative con quella parte di creditori rilevanti per il raggiungimento della soluzione divisata dall’imprenditore e che egli stesso avrà semmai concorso ad individuare alla luce dei flussi informativi che l’imprenditore è tenuto a fornirgli.

Si è qui in un contesto peculiarmente virtuoso, in cui l’imprenditore ha richiesto tempestivamente l’accesso alla composizione negoziata, tanto che non teme aggressioni da parte dei creditori o azioni di depauperamento dell’azienda, né necessita per il proprio finanziamento di marchi di prededucibilità, nella consapevolezza, anzi, che il mero accesso al tribunale o l’evocazione del lemma “prededuzione” finirebbe per cambiare completamente il percorso di risanamento, vanificando quel piano che, nella condizione data, certamente non avrà mancato di fornire all’esperto.

E’ bene però sottolineare che anche nel caso di specie la tanto evocata riservatezza potrà essere tale solo fino ad un certo punto. Si ripropone qui, quanto già si ebbe modo di osservare con riguardo al procedimento davanti all’OCRI. Nel momento in cui si negozia con uno o più creditori (riscadenziamento del debito, nuove linee, forniture, ecc.), non potrà essere sottaciuto lo stato di crisi, né ogni informazione necessaria ad una valutazione consapevole da parte del terzo, diversamente l’esperto concorrendo in una violazione di quel principio di buona fede affermato dal legislatore in questa stessa sede e più in generale enunciato nel codice della crisi quale canone generale di comportamento.

Quanto sopra per sottolineare che l’assoluta riservatezza è una chimera non solo e non tanto per il rischio, più o meno scontato, di indebita propalazione d’informazioni rilevanti da parte di soggetti tenuti al segreto, quanto perché proprio una condotta doverosa impone un’informazione trasparente, della quale l’esperto non può non farsi garante.

Tale considerazione induce a ritenere che, anche in tale e più favorevole ipotesi, la possibilità di una fase prolungata (mesi) di elaborazione della soluzione e negoziazione con i creditori, non sia in concreto possibile, a pena di seriamente pregiudicare le chances di riuscita del piano perseguito.

L’ipotesi alternativa è quella dell’intervento del tribunale. Non mette conto affrontare le singole ipotesi di scrutinio da parte dell’autorità giudiziaria delle diverse possibili istanze, posto che a ciascuna è destinata una specifica sessione.

Va semmai rilevato che, nel momento in cui si richiede la protezione del tribunale, il ventaglio delle soluzioni percorribili si riduce in ragione dei conseguenti mutamenti comportamentali dei creditori; l’esperto costituisce fonte informativa privilegiata per il tribunale (in più d’un caso, anzi, dovuta: misure protettive, rinegoziazione ad equità del contratto), ancorché difficilmente il tribunale potrà acquetarsi del solo contributo allegativo dell’esperto, dal momento che, come già detto, egli non è attestatore ed, anzi, potrebbe valersi – pur in termini critici e ragionati – della dichiarazione dell’imprenditore, con valenza di autocertificazione, della propria risanabilità. Pare incongruo assicurare un contraddittorio ampio, ovvero diretto a tutte le parti potenzialmente coinvolte dalla misura richiesta (dunque, talora, anche molte), con ogni conseguenza sotto il profilo dell’appesantimento procedurale, per poi limitarsi ad una valutazione puramente cartolare, senza una revisione critica del materiale istruttorio da parte del proprio ausiliario, tenuto fra l’altro conto che il giudice – è bene ricordare – può qualificarsi peritus peritorum solo in relazione a quest’ultimo e non all’esperto, che suo ausiliario, di contro, non è.

La seconda distinzione è in ragione del tipo di percorso di risanamento, dovendosi distinguere qui tra ipotesi di continuità diretta pura ed ipotesi di risanamento per il tramite dell’apporto esterno, sia esso mediante acquisto del compendio, quanto in forza di operazioni straordinarie, quali l’aumento di capitale o la conversione del capitale di credito in capitale di rischio. In questo caso, a cambiare è la regola di giudizio dell’esperto in relazione alla “concreta risanabilità”. Se in caso di continuità diretta la valutazione è schiettamente aziendalistica e la risanabilità sta o cade nella misura in cui si ritengano credibili e prognosticamente percorribili piani di risanamento pluriennali, fondati sull’attesa dei flussi, nel secondo caso essa è più fondata su valutazioni giuridiche che economiche. Può dirsi concretamente risanabile un’impresa che preveda labialmente da parte dell’organo gestorio l’aumento di capitale senza una delibera condizionata dell’assemblea o un debt equity swap senza il formale impegno da parte degli obbligazionisti? Per certo pare arduo che il tribunale, investito d’istanze che cristallizzino il patrimonio, blocchino iniziative di autotutela dei creditori, incrementino il passivo con poste prededucibili si accontenti della narrazione di tali soluzioni senza la documentazione del vincolo da parte del terzo, variamente contributore alla soluzione di risanamento.

La terza summa divisio è fra impresa in crisi ed impresa insolvente reversibile. E’ chiaro che in quest’ultimo caso, di là di ipotesi statisticamente irrilevanti (si pensi però, recentemente, a imprese collocate in distretti tessili e in condizioni oramai prossime al dissesto, in grado però di innovare il processo e produrre mascherine), la prognosi non può essere ancorata che alla certezza dell’apporto esterno, tipicamente attraverso l’acquisto dell’azienda; anche in tal caso alla valutazione da parte dell’esperto presiedono più criteri da due diligence legale che strettamente aziendalistici.

Di là di ciò, va ricordato che della gestione dell’impresa in pendenza di trattative, si occupa l’art. 9, stabilendo due regole operative diverse per la gestione dell’impresa in crisi e di quella insolvente.

Con riguardo alla prima, l’impresa è gestita in modo da non recare pregiudizio alla sostenibilità economico-finanziaria dell’attività.

Con riguardo alla seconda, sempre condizionatamente al fatto che “risultino” esservi concrete prospettive di risanamento, l’impresa è invece gestita nel prevalente interesse dei creditori.

Può dirsi che in entrambe le ipotesi, comprensibilmente, la gestione deve svolgersi secondo criteri conservativi, ma nel secondo essa si risolve in una sorta di esercizio provvisorio. Anche sotto questo profilo, è chiaro che nel caso di specie, la chance sostanzialmente contemplata dal legislatore è quella dell’apporto di un terzo e/o della celere riallocazione dell’azienda, essendo impensabile un risanamento endogeno secondo criteri strettamente conservativi ed esclusivamente prudenziali.

E’ proprio nel monitoraggio della gestione che, infine, si ravvisa il proprium del ruolo dell’esperto, diversamente spiegato, solitamente, in termini di continuità o metonimia: informatore ma non attestatore, certificatore o revisore; facilitatore ma non negoziatore in senso tecnico.

Con riguardo non solo al compimento di atti di straordinaria amministrazione, ma anche all’esecuzione di pagamenti, l’imprenditore ha un onere di preventiva informazione nei confronti dell’esperto, il quale può dissentire per iscritto in caso di ritenuta dannosità dell’atto rispetto alle ragioni dei creditori, alle trattative o alle prospettive di risanamento.

L’imprenditore non è per ciò stesso impedito dal compiere l’atto (non essendo egli spossessato), ma l’esperto può iscrivere il proprio dissenso nel registro delle imprese ed egli è tenuto a farlo nel caso vi sia pregiudizio per le ragioni dei creditori.

Una prima questione è data dalla selezione delle informazioni rilevanti. Mentre con riguardo all’atto di straordinaria amministrazione non vi è nessuna ulteriore specificazione e la natura conservativa della gestione dell’impresa conduce ad individuare la norma selettiva dell’ordinaria dalla straordinaria nell’art. 167 l. fall., con riguardo ai pagamenti, la norma verbatim parrebbe far carico all’imprenditore d’informare l’esperto solamente “dell’esecuzione di pagamenti che non sono coerenti rispetto alle trattative o alle prospettive di risanamento”; pare tuttavia scontato che si tratti di una previsione ellittica che presuppone un’informativa da parte dell’imprenditore del proprio piano finanziario di periodo e, dunque, di tutti i pagamenti, laddove il dissenso dell’esperto sarà in relazione a quelli incongrui rispetto alle trattative in corso o alle prospettive di risanamento. Ciò è in linea con la previsione di un monitoraggio in relazione ad una gestione conservativa, né pare ragionevole, da un lato, rimettere al debitore la selezione dell’informazione sui flussi e sulla loro inerenza alla condizione dell’impresa e al perseguimento del piano e, dall’altro, la plausibilità di una sua comunicazione di pagamenti che egli stesso qualifichi come incongrui rispetto al contesto dato.

E’ poi interessante sottolineare che l’iscrizione del dissenso ben può operare anche nella fase riservata della composizione negoziata, valendo a determinare de facto la fine del percorso ed il probabile avvio, pur in assenza di ulteriori iniziative obbligatorie da parte dell’organo di controllo o tanto meno di comunicazioni al P.M., dell’impresa nella direzione di soluzioni liquidatorie, quando non del vero e proprio fallimento. Si tratta di un potere rilevantissimo, sul cui effettivo esercizio, avuto riguardo ai “controstimoli” conseguenti alle potenziali responsabilità e ad un meccanismo remuneratorio alquanto orientato a success fee, non possono farsi agevoli previsioni.

5.         L’esperto e il concordato semplificato.

Già s’è fatto cenno che ove la relazione negativa dell’esperto si concluda, riferendo dell’esito negativo delle trattative e della insussistenza di concrete possibilità di risanamento per causa non imputabile al debitore, è data facoltà a quest’ultimo, entro sessanta giorni dal deposito di detta relazione, di proporre domanda di concordato semplificato.

Secondo una prima interpretazione, tale istituto avrebbe una portata dirompente, elusiva del concordato liquidatorio classico (pure non formalmente abrogato), poiché tale da consentire l’accesso ad un concordato privo di una vera e propria fase di ammissione, senza il voto dei creditori e non vincolato ad una percentuale di soddisfacimento.

La previsione della non imputabilità al debitore del naufragio del risanamento dovrebbe sgomberare il campo da tale paventato rischio.

Un debitore non in grado, ab origine, di articolare una qualsiasi soluzione di risanamento non dovrebbe essere messo nelle condizioni di aprire trattative, né potrebbe dirsi estraneo all’impraticabilità di soluzioni della sua crisi.

Nondimeno, s’è già detto che l’estensione della composizione negoziata all’imprenditore insolvente, attenua di molto la, per così dire, virtù dell’istituto, legittimando prassi attendiste e l’articolazione di proposte di soluzione della crisi in situazione di già conclamato dissesto. Unico ancoraggio, allora, alla plausibilità del redressement è la valutazione rigorosa della certezza dell’apporto esterno e/o della proposta di acquisto dell’azienda da parte del terzo.

In tali termini, può ritenersi valido, seppur indebolito dal diritto di accesso al debitore insolvente, l’assunto secondo cui il concordato semplificato è in definitiva uno strumento in mano al debitore di dissuasione da condotte lecite ma spiccatamente opportunistiche dei creditori, i quali, ove indisponibili alla soluzione prospettata dall’imprenditore e validata, dapprima, come concretamente praticabile dall’esperto, si vedrebbero poi de facto imposta una soluzione liquidatoria ancorata ad un cram down attenuato, perché non fondato sul miglior soddisfacimento dei creditori, ma solamente sull’assenza di pregiudizio rispetto al fallimento.

Da questo punto di vista il concordato semplificato finirebbe per assumere quasi una valenza moralizzatrice nei confronti di atteggiamenti defatigatori ed abusivamente ostativi – non infrequenti – da parte dei creditori.

La tesi va però declinata non senza dimenticare che dietro la medesima fattispecie si nascondono due situazioni di fatto completamente diverse.

Nella prima ipotesi abbiamo un imprenditore in grado di prospettare una plausibile via di risanamento mediante continuità diretta e/o operazioni straordinarie, poi non voluta da una parte qualificante dei creditori ed il quale, nonostante tutto, nel termine di sessanta giorni, è in grado di prospettare una soluzione completamente diversa, di natura liquidatoria, eventualmente comprensiva della cessione dei complessi aziendali o di specifici rami. Si tratta, verosimilmente, di un imprenditore giunto tempestivamente alla composizione negoziata, con un assetto organizzativo ed informativo efficace (diversamente non sarebbe possibile “shiftare” fra ipotesi antitetiche in un tempo ridottissimo) e la cui azienda è dotata di una residua, significativa vitalità.

Nella seconda ipotesi, invece, abbiamo un imprenditore che già prospetta una certa forma di continuità indiretta, sotto forma di cessione dei complessi e che, fallite le trattative con i creditori, ripropone jussu judicis la medesima soluzione, sostanzialmente in odio a quel medesimo ceto creditorio o, comunque, ad una parte rilevante dello stesso.

E’ evidente come questo secondo caso sia ontologicamente diverso dal primo, sia sotto il profilo della situazione di partenza (poiché si tratterebbe della riproposizione del medesimo piano), sia sotto quello della volontà dei creditori, non già precedentemente compulsata su di una diversa proposta, ma sulla stessa. E’, forse, in relazione proprio a questa ipotesi che appare non priva di pregio quella tesi dottrinale, autorevolmente sostenuta, secondo cui il concordato semplificato neppur sarebbe sussumibile nell’ambito del genus concordato.

Di là delle questioni sistematiche e del margine di discrezionalità spettante al legislatore in relazione a soluzioni sia pur così marcatamente debtor oriented, va semmai rimarcato che il combinato disposto dell’accessibilità alla composizione negoziata da parte dell’imprenditore insolvente con la possibilità di proposizione e, poi, riproposizione della medesima soluzione di cessione dei complessi aziendali, nonostante l’indisponibilità dei creditori, pare costituire il possibile terreno d’elezione per l’abuso dello strumento da parte di quelle imprese non già tardivamente affacciatesi a tentativi di soluzione concorsuale della crisi, ma strutturalmente insolventi ed indirizzate ad una illecita concorrenza, quale è quella di chi preordina la propria azione già a non pagare contributi, erario, ecc., che mediante l’apporto relativamente modesto di terzi “domestici” vedano lo strumento per liberarsi dalle responsabilità e perpetuare sotto altra veste societaria la medesima attività.

La vigilanza e la selezione ostile di tali ipotesi, tutt’altro che infrequente, da parte degli esperti nonché la successiva, attenta verifica da parte dei tribunali determineranno, ad avviso di chi scrive, il successo o meno di questa disciplina, la cui precondizione è scongiurare gli abusi da parte di chi, attraverso un’attività d’impresa già strutturalmente preordinata al dissesto, finisce non solo per pregiudicare gli interessi generali (erariali, previdenziali, ecc.), ma anche per competere slealmente con l’impresa “sana”, divenendo così concausa di rischi sistemici per quest’ultima e, per tale via, piegando la normativa concorsuale a scopi opposti a quelli a tutela dei quali è stata introdotta.

Articolo tratto dalla relazione tenuta al corso organizzato dalla Scuola Superiore della Magistratura PP22001, dal titolo “La composizione negoziata e il concordato semplificato” e destinato alla pubblicazione nel relativo Quaderno

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