di Mirella Cervadoro

Poche osservazioni, senza alcuna pretesa di esaustività, e qualche interrogativo per un tema vasto e complesso: i corpi intermedi e la loro crisi. I corpi intermedi sono ancora utili e necessari, o finanche indispensabili, alla buona salute della convivenza sociale, della democrazia e dello stesso sviluppo economico del Paese? E l’associazionismo giudiziario?

1. I corpi intermedi e la loro crisi – 2. I corpi intermedi nella società attuale e futura – 3. Crisi e futuro dell’Associazionismo giudiziario

1. I corpi intermedi, com’ è noto, sono formazioni sociali, collocate in una linea ideale tra cittadino e istituzioni,  legittimate a rivendicare diritti e interessi in nome e per conto delle rispettive comunità. Tra essi si annoverano i sindacati, le associazioni di categoria e, più in generale, tutte le organizzazioni abilitate a rappresentare presso le istituzioni le esigenze degli associati, e/o di alcune categorie in contesti determinati.

Ritenuti in passato un elemento fondamentale per la costruzione di una “democrazia” liberale e pluralista, hanno un posto di rilievo nella nostra Costituzione, che li definisce “formazioni sociali” dove si svolge la personalità dell’uomo. L’art.2 della carta costituzionale stabilisce infatti che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». Tra lo Stato impersonale e l’individuo singolo viene quindi riconosciuta ed esaltata l’esistenza di un insieme di soggetti (associazioni, cooperative, sindacati, parrocchie, circoli, partiti, ecc.) che aggregandosi liberamente in gruppi possono sviluppare la personalità di ciascuno, rispondere ai bisogni di molti e partecipare alla vita democratica del Paese.

Vi è stato un tempo in cui il termine partecipazione è stato al centro della vita culturale e sociale del Paese; la partecipazione come elemento di libertà ed esercizio di democrazia, come recitavano i versi di una famosa canzone di Giorgio Gaber. Tanti anni, però, di trascuratezza degli ideali di solidarietà e responsabilità sociale hanno lasciato il segno, e l’evidenza del disegno costituzionale, oggi, non è più così chiara.

La profonda crisi di numeri, ma soprattutto di credibilità, che ormai da tempo ha travolto partiti, sindacati, associazioni di categoria e, più in generale, tutte quelle formazioni sociali chiamate a rappresentare i bisogni e le istanze dei cittadini, impone quindi una riflessione sul ruolo e sulla funzione dei corpi sociali intermedi nella società contemporanea.

Se per decenni i diversi organismi di rappresentanza hanno contribuito alla costruzione dell’ossatura della democrazia italiana, facendo maturare la nostra società e rendendo molti italiani cittadini attivi e partecipanti, sul finire del secolo scorso si è rotto l’intreccio tra interessi e identità alla base della loro funzione di rappresentanza: i primi si sono fatti più frammentati e anche le appartenenze si sono progressivamente individualizzate. La domanda sociale è cambiata, ma soprattutto non è più il riflesso esclusivo di un’identità fissa, di uno specifico gruppo di riferimento: interessi, valori e appartenenze sono sempre più trasversali e mutevoli (così in G. Bottalico, V. Satta, Corpi intermedi. Una scommessa democratica, Milano, 2015).

Quello che stiamo vivendo, dall’inizio di questo nuovo millennio, è il passaggio di un’epoca, la fine di un mondo che conosciamo e al quale ci eravamo abituati, e che fa parte della nostra cultura, della nostra identità, del nostro sentire comune. Il sentire comune sembra oggi fortemente affievolito se non addirittura scomparso, sopraffatto da un individualismo sfrenato dove il «tutti contro tutti» diventa la regola, e «nessuno è più compagno di strada ma antagonista di ciascuno». Questo “soggettivismo” ha minato le basi della modernità, l’ha resa fragile, e la mancanza di ogni punto di riferimento ha lasciato spazio a quella che il sociologo e filosofo polacco Zygmunt Bauman definisce come la “società liquida”. Si perde così la certezza del diritto, la magistratura è sentita come nemica e le uniche soluzioni per l’individuo, senza punti di riferimento, sono l’apparire come valore e il consumismo bulimico senza scopo. Da qui la crisi dello Stato, delle ideologie, dei partiti, di quella comunità di valori che, come diceva Umberto Eco, permetteva al singolo di sentirsi parte di qualcosa, e ne interpretava i bisogni. Lo stesso Eco, in una delle sue famose “bustine” (v.”Bustina di Minerva” nel n.22 della rivista l’Espresso del 4 giugno 2015) ci ricorda che la crisi dei partiti ha provocato un vuoto, trasformandoli in «taxi sui quali salgono un capopopolo o un capobastone che controllano i voti, scegliendoli con disinvoltura a seconda delle opportunità che consentono, e questo rende persino comprensibili e non più scandalosi i voltagabbana». Nella società liquida, insegna Bauman, prevale poi la paura del futuro. Davanti alla prospettiva di un domani che non sembra apparire migliore del presente, si tende a prediligere e a reinventarsi un passato migliore. Una volta, ricorda il filosofo, una grande e non scrivente maggioranza dell’umanità leggeva ciò che gli altri scrivevano; oggi questa divisione del lavoro è stata abolita grazie a Facebook, Twitter e i loro simili. «È bastata un’operazione facile: abbassare significativamente l’asticella del livello della scrittura e della pubblicazione», con uno scambio: in cambio di questa libertà di comunicazione, l’esercizio della scrittura è slegato al dovere della lettura. «L’uomo che scrive, oggi, non ha tempo per leggere, e tantomeno avverte la necessità di leggere». Su Facebook tutti possono scrivere di tutto e di tutti, sentendosi protagonisti, magari anche diffondendo “bufale” pur di attribuirsi credibilità e fare colpo sulla marea dei navigatori virtuali.

Alcuni esperti nel settore della comunicazione affermano che con l’avvento del digitale gli intermediari tradizionali sono stati travolti da una crisi che ha aperto l’era della disintermediazione.

A riguardo vale la pena di rileggere il bel dialogo intessuto tra l’allora direttore di Repubblica, Ezio Mauro, e il sociologo Bauman (in Babel, Bari, 2015). Un confronto serrato e appassionato tra due acuti osservatori che si interrogano sulla crisi, detonata sul piano economico e finanziario e poi deflagrata a livello politico, istituzionale e dunque culturale. Con l’avvento di Internet si è prodotta la più sconvolgente dilatazione spaziale e al contempo un’inedita compressione temporale, con inevitabili ripercussioni anche sul modo in cui gli individui comunicano. In questo tempo acrono (o “tempo puntinista” come lo ha definito Bauman) – si domanda Ezio Mauro – può mai formarsi un’opinione pubblica? “Qui e ora, l’impressione prende il posto dell’opinione. Diventa cioè qualcosa di percepito, ma non elaborato perché non c’è tempo, non organizzato perché non c’è modo. […] Il giudizio diventa una sensazione. Immediata, magari. Ma non impegnativa, non durevole, non costitutiva di un’identità culturale, di una posizione a cui far riferimento. Il giudizio è un processo, la sensazione è un attimo”.  Avevamo paura di essere da soli, poi Facebook ha eliminato la solitudine. Ecco perché secondo Bauman siamo “solitari interconnessi”. In realtà il “qui e ora” è precipitato in un vortice ancor più indecifrabile del “non più” e “non ancora”, spiega Mauro. Anche il linguaggio ha perso coerenza ed è incapace di dare senso al mondo. E il risultato è una Babele di lingue che si sovrappongono, di notizie che si autosostituiscono ancor prima di produrre un’idea.

2. L’anno 2020 è stato scosso da una “rivoluzione” del tutto inaspettata; la pandemia ha tracciato un solco tra un ‘prima’ e un ‘dopo’, uno spartiacque a dir poco drammatico tra un mondo che pensavamo di poter controllare e un mondo dal profilo incerto e oscuro. Nel volgere di poche settimane, gran parte delle nostre certezze si sono frantumate e si è generata una condizione di diffusa insicurezza. La crisi mondiale scatenata dal Covid-19 ha imposto l’esigenza di cambiare il modo di vivere in comune, come nel secolo scorso era accaduto soltanto a seguito di guerre, di rivoluzioni o dell’instaurazione di dittature e totalitarismi. Nel 2022, non ancora usciti dalla pandemia, la guerra in Ucraina, stato membro del Consiglio d’Europa, ci pone nuovi interrogativi sul mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, sull’assetto mondiale e sul futuro stesso dell’umanità.

Pochi dubbi che la crisi del COVID-19 abbia inferto, poi, un duro colpo agli stessi diritti fondamentali in Europa. La necessitata e rapida adozione delle decisioni di emergenza COVID da parte dei governi ha portato a misure talvolta non sempre tempestive, idonee o congruenti; e un’informazione da parte dei mass media, non rare volte impegnata più alla ricerca di ascolti che alla chiarezza delle notizie, ha reso ancora più insicuro il rapporto Stato cittadino, e minato il rapporto fiduciario. Quest’erosione di fiducia può avere gravi ripercussioni non solo sulla salute delle persone, ma anche su quella delle nostre democrazie. E la democrazia rappresentativa, oggi, ha certamente un problema di entropia (C.Crouch, Postdemocrazia, Bari, 2018).

Diventa quindi oggi di fondamentale importanza ripensare il ruolo e il futuro dei corpi intermedi: sono solo il segno di una storia passata oppure possono essere ancora indispensabili per la costruzione del bene comune?

Hanno cercato delle risposte, in un lavoro collegiale (F. Bassanini, T. Treu e G. Vittadini, “Una società di persone? I corpi intermedi nella democrazia di oggi e di domani”, Milano, 2021), alcuni autorevoli esponenti della vita politica e culturale del nostro Paese, i quali hanno esaminato l’articolata e vasta cartina delle comunità intermedie, per sondarne identità, ruolo e prospettive all’interno delle più vaste trasformazioni del contesto globale e globalizzato caratterizzato da frammentazione, precarizzazione e atomizzazione nonché dalla pervasività della tecnologia che tutto investe, col suo corollario di abbattimento delle barriere di disintermediazione a discapito delle tradizionali forme di aggregazione e di intermediazione. Nel libro si evidenzia il paradosso espresso dalle democrazie contemporanee, dove la consolidata egemonia dell’ideale democratico si accompagna alla sfiducia sempre più ampia nei confronti della democrazia praticata e alla perdita di senso di appartenenza, che nasce da un sistema politico frammentato e sostanzialmente fragile. Viene in conclusione auspicato che il rilancio e la rilegittimazione di tale sistema passi anche per il rilancio dei corpi intermedi, avendo la storia politica dimostrato come sia alla lunga poco efficace il rapporto diretto leader carismatico – cittadino. Viceversa è emersa l’esigenza di una partecipazione consapevole, meditata, non emotiva e impegnata da parte dei cittadini stessi. Un tipo di partecipazione che richiede però approfondimento e confronto, nell’alveo delle comunità intermedie, alle quali si aderisca sulla base di valori e interessi condivisi, prima nella loro elaborazione collettiva e messi in pratica, poi, nelle politiche.

Secondo Michele Tronconi (Perché insieme. Natura umana e corpi intermedi, Milano, 2021), i corpi intermedi possono rivelarsi oggi un utile antidoto all’entropia della democrazia rappresentativa. E l’Autore si pone un interessante quesito: “potremmo cominciare a considerare i corpi intermedi delle istituzioni”? Tecnicamente un’istituzione è riducibile a una procedura “convenuta” per raggiungere un obiettivo condiviso; partendo da tale premessa afferma Tronconi che le associazioni – quando sanno essere autorevoli, e per essere autorevoli bisogna essere coerenti nel tempo – sono istituzioni.

Certamente può concludersi, a riguardo, che mai come ora le formazioni della società civile sono certamente necessarie, e direi quasi indispensabili, alla buona salute della convivenza sociale, della democrazia e dello stesso sviluppo economico del Paese. Nella società contemporanea, i tempi della lettura e della meditazione sono limitati per la prima e quasi mancanti per la seconda,  le informazioni in campo politico e sociale arrivano con la stessa velocità e metodologia dei messaggi anche subliminali dei prodotti commerciali, e i mutamenti tecnologici e sociali sono sempre più rapidi, mentre i più fragili sono spesso lasciati soli, e le diseguaglianze aumentano; in un tale contesto, e ancor più in un futuro sempre più tecnologico, i corpi intermedi, quali luoghi di aggregazione, di confronto e di comunicazione, potrebbero assolvere non solo al loro compito rappresentativo, ma anche e ancor di più a quello così ben delineato (e non raramente ignorato) dalla nostra carta costituzionale, ovvero al compito di crescita della personalità individuale e quindi anche di educazione sociale.

3. L’associazionismo giudiziario ha apportato un contributo determinante per la costituzionalizzazione della figura del giudice; tuttavia non poteva non risentire della crisi che ha attraversato tutti i corpi intermedi.  A tale crisi non è poi indifferente il nuovo ordinamento giudiziario del 2006, che ha dato impulso al c.d. “carrierismo”; a riguardo, è stato osservato, come le aspirazioni di carriera sono legittime in un ordinamento burocratico che non conosce l’autogoverno dei funzionari amministrativi e non è un caso che la gerarchia costituisca un principio fondante degli apparati burocratici, ma diventano un problema quando si combinano con il principio dell’autogoverno e l’associazionismo (E.Scoditti, Magistratura e associazionismo: in mezzo al guado, in Questione Giustizia, 2020). A ciò aggiungasi che dal 1992, ovvero dalla stagione di “Mani Pulite”, sino ad oggi, pochi temi sono stati così divisivi nel Paese, tra le forze politiche e tra queste e la magistratura, come i progetti e gli interventi in materia di giustizia.

Non si vogliono qui ripercorrere le ragioni della crisi dell’associazionismo giudiziario (per le quali si rimanda a studi più approfonditi, tra cui G.Mastropasqua, I magistrati tra identità dei gruppi e sintesi programmatica, in questa rivista, 2022; G.Mastropasqua, L’associazionismo giudiziario: crisi e prospettive, Ars Iuris, 2020); qualche riflessione sull’associazionismo e sul suo futuro è comunque d’obbligo.

L’associazionismo, e quindi lo “stare insieme”, per i magistrati, ha la sua ragione nell’esigenza connaturata alla particolarità della funzione, che impone una riflessione culturale sul ruolo, un’analisi delle normative da cui e su cui parte il proprio lavoro, una visione del sistema di poteri e di contrappesi in cui si muove la propria attività. Riflessione, analisi e prospettiva che non può essere di singoli, ma che si nutre di esperienze, idee e persone diverse e che, come tale, inevitabilmente diviene collettiva in un gruppo o associazione. Gruppo o associazione che garantisce la varietà e la ricchezza dei contributi e il peso politico di non essere soli e, quindi, di poter far sì che idee e proposte possano avere valore (C.Castelli, Elogio dell’associazionismo giudiziario, in Questione Giustizia, 2019).

Del resto, l’associazionismo nella magistratura non è solo un fenomeno italiano, ma si manifesta in molti ordinamenti democratici (sempre con questa peculiarità di assommare caratteri sindacali con caratteri politico culturali) e nella creazione di organismi internazionali che raggruppano diverse associazioni nazionali. Il diritto dei magistrati di dare vita a proprie associazioni viene pienamente affermato anche all’interno del Consiglio d’Europa. L’art. 12 della Magna Carta dei giudici europei, adottata dal Consiglio consultivo dei giudici europei (CCJE) il 17 novembre 2010, ha stabilito che “I giudici hanno diritto di aderire ad associazioni di magistrati, nazionali o internazionali, con il compito di difendere la missione della magistratura nella società” (Il CCJE è stato costituito nel 2000, è composto da giudici di tutti gli Stati aderenti al Consiglio d’Europa ed elabora pareri per il Comitato dei Ministri che può adottare eventuali raccomandazioni agli Stati membri). L’associazionismo dei magistrati è stato, poi, incoraggiato nei Paesi che non conoscevano libere associazioni, come quelli dell’Est Europa, ed è sempre stato favorito come momento di crescita professionale dall’Onu sin dal 1985 (punti 8 e 9 dei «Principi fondamentali sull’indipendenza della magistratura» adottati dal Congresso Onu di Milano, 26 agosto – 6 settembre 1985, e confermati dall’Assemblea generale il 29 novembre e il 13 dicembre 1985).

Per quanto riguarda il problema più attuale e spinoso dell’associazionismo giudiziario, ovvero quello delle c.d. correnti,  occorre rammentare che la ragione ideale di fondo alla base della nascita delle stesse a cavallo degli anni sessanta del secolo scorso, e dell’evoluzione del ruolo dell’Associazione nazionale magistrati, è stata la volontà di dare compiuta attuazione al modello costituzionale, molto avanzato in termini di riconoscimento della indipendenza esterna e interna della magistratura, ma palesemente in contrasto con le resistenze e i ritardi frapposti alla sua attuazione. La dialettica fra le correnti ha poi attraversato diverse fasi. La fase iniziale, che si è estesa per gran parte degli anni sessanta, può qualificarsi come “unitaria”, in quanto, al di là delle differenziazioni, era diretta a una convergenza sulla realizzazione dell’obiettivo di attuazione della Costituzione; tutte le correnti hanno poi necessariamente seguito l’evoluzione della storia politica della società italiana, in particolare nell’arco degli ultimi quarant’anni. E tuttavia tutte, ognuna secondo la sua visuale, hanno concorso a difendere l’indipendenza della magistratura e contribuito ad approfondire i temi della questione giustizia. Giova qui evidenziare ciò che di sovente dimentichiamo, ovvero che quanto oggi ci pare scontato, e naturale, non lo era una o due generazioni fa, e non è detto che lo sia ancora tra una o due generazioni a venire. A favore dell’associazionismo giudiziario non può infine non essere pur brevemente ricordato uno dei passaggi in cui l’Associazione nazionale magistrati è stata protagonista, e che oggi consentono all’Italia di avere una delle magistrature più indipendenti al mondo, ovvero la mozione approvata all’unanimità al Congresso di Gardone dell’A.N.M del 1965. E ciò a dispetto delle vivaci discussioni e delle innegabili differenze culturali. Ancora oggi la mozione finale di quel congresso è ricordata come uno dei punti più alti della vita dell’A.N.M e delle sue correnti, dopo il quale nulla sarebbe stato più come prima (v. M.Cervadoro, Le Correnti in ANM: rami secchi da tagliare?, in Giudice donna,n.2/2020 ).

I tempi cambiano; e l’associazionismo giudiziario si trova oggi ad affrontare uno dei suoi momenti più critici, e non solo per questioni contingenti, ma anche per l’allontanamento dall’associazione di alcuni, soprattutto tra i più giovani, magistrati; tale circostanza, che non dipende solo dai tempi sempre più stringenti del lavoro giudiziario, bensì anche da disillusione e sfiducia, impone quindi un attento ripensamento sulle stesse modalità di fare associazione.

Compito non facile, ma non impossibile, quello del rinnovamento, con uno sguardo al futuro e senza dimenticare il bagaglio culturale del passato. Conquistare la fiducia dei giovani dovrà necessariamente essere il primo compito dell’associazionismo giudiziario. Il secondo, non certamente meno importante del primo, la riaffermazione nel comune sentire del principio costituzionale di cui all’art.107 per cui “i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni”. Il terzo, ma non ultimo come importanza, porre al centro dell’attenzione le difficoltà del mestiere di magistrato, in tutte le sue declinazioni, dall’azione del pubblico ministero alla decisione del giudice, e creare momenti di aggregazione che possano anche alleviare il peso politico della solitudine nell’esercizio delle funzioni.  

E per assolvere al meglio il compito istituzionale che l’associazionismo giudiziario ha in riferimento alla crescita della personalità individuale, anche attraverso la comunicazione di idee ed esperienze, uno spazio rilevante potrebbero avere le riviste giuridiche, dell’associazione nazionale e dei vari gruppi, che – in quanto espressione di un ampio pluralismo – possono divenire luogo ideale di aggregazione e confronto, e avere la funzione di sostegno alla formazione etica e culturale, nel suo senso più ampio, del magistrato.

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