di Giuseppe Mastropasqua, Presidente Tribunale di Sorveglianza di Lecce

L’associazionismo giudiziario da molti anni è in forte crisi causata da fattori endogeni ed esogeni, che sono individuati sulla base dei contributi offerti dalla sociologica in chiave storica, tecnico-scientifica, etico-filosofica; si è in presenza di una cambiamento d’epoca, che sta profondamente trasformando le istituzioni a livello anche europeo e internazionale, la società civile sul piano etico-culturale e socio-politico, i ‘corpi intermedi’ fra i quali vanno annoverati l’A.N.M. ed i Gruppi che ne fanno parte. Questa crisi è un’opportunità per l’associazionismo giudiziario, il quale è sollecitato ad individuare innovativi criteri interpretativi della realtà; inoltre, i singoli Gruppi sono chiamati a ridefinire le rispettive identità secondo dinamiche relazionali e narrative aperte all’alterità, rivitalizzando nell’oggi i principi costituzionali nazionali ed europei ed ampliando notevolmente gli spazi di democrazia interna. In questo modo è più agevole -in seno all’A.N.M.- approdare a sintesi programmatiche e ad iniziative comuni idonee ad affrontare le ‘res novae’ in modo più adeguato ed efficace.

SOMMARIO: 1. Cenni storici sull’associazionismo giudiziario. – 2. Associazionismo giudiziario ed interpretazione della realtà; 2.1 L’epoca della ‘post-verità’; 2.2 I corpi intermedi: dal collante ‘ideologico’ alla liquidità e al corto-termismo; 2.3 ‘Surfismo’, società del rischio e cultura dell’incertezza; 2.4 Frammentazione, fragilità, miti a ‘bassa intensità’; 2.5 Le dinamiche del potere: scopo, degenerazioni, leader e suo ‘cerchio magico’. – 3. Proposte minimali per il rilancio dell’associazionismo giudiziario; 3.1 L’identità relazionale e narrativa dei gruppi; 3.2 Il giudice ‘costituzionale’; 3.2.1 Autonomia e indipendenza; 3.2.2 Il giudice naturale e l’organizzazione dell’ufficio; 3.2.3 Lo status giuridico del magistrato; 3.2.4 Profili deontologici; 3.2.5 L’interazione con la società. 

1- Cenni storici sull’associazionismo giudiziario

Si è soliti affermare che l’associazionismo giudiziario nasca formalmente il 13 giugno 1909, allorquando un gruppo di 44 magistrati si riunisce a Milano e costituisce l’Associazione Generale tra i Magistrati d’Italia (A.G.M.I.) [1] sulla base di obiettivi programmatici in gran parte già contenuti nel cd. ‘Proclama di Trani’ (1904) sottoscritto da 116 magistrati del Distretto della Corte d’Appello di Trani [2].

L’A.G.M.I. persegue -fra i suoi scopi- soprattutto il riconoscimento di diverse garanzie a tutela dei magistrati come, ad esempio, l’inamovibilità dei pubblici ministeri già prevista per la magistratura giudicante, il miglioramento delle miserevoli condizioni professionali e retributive dei magistrati, il rafforzamento dei poteri del Consiglio Superiore della Magistratura [3].

Il Governo dell’epoca, mediante il Guardasigilli V. E. Orlando, manifesta una posizione molto critica sulla costituzione dell’A.G.M.I. per le seguenti tre ragioni:

  1. la peculiare funzione dei magistrati determina l’insorgenza di “dubbi gravissimi sulla possibilità che l’iniziativa produca frutti utili e degni”;
  2. la struttura gerarchica della magistratura italiana, che ha il suo vertice nella Corte di Cassazione, è incompatibile con un’Associazione i cui aderenti hanno posizione paritaria fra loro con conseguente danno per la dignità e l’autorità della cd. ‘magistratura maggiore’, che ricopre funzioni direttive; per converso, l’Associazione potrebbe essere compatibile, se rispecchiasse i diversi gradi della gerarchia e, perciò, non desse adito a conflitti tra magistratura ‘minore’ e quella ‘maggiore’;
  3. la discussione combattiva di idee e tendenze”, insita nell’A.G.M.I., le avrebbe conferito un ruolo politico che non si addice ai magistrati [4].

L’Assemblea generale degli iscritti nella riunione del 21 dicembre 1925 delibera lo scioglimento dell’A.G.M.I. per paralizzare in anticipo la pretesa del regime di trasformarla in sindacato fascista; la stessa A.G.M.I., ritenuta responsabile di aver abbracciato un indirizzo antistatale e sovversivo, è formalmente sciolta con Regio Decreto del 16 dicembre 1926 e i suoi dirigenti sono destituiti dal servizio con decorrenza dal 31 dicembre 1926.

Tuttavia, anche se la stragrande maggioranza dei magistrati aderisce con convinzione al fascismo e viene premiata mediante una veloce progressione in carriera nell’ambito di un ordine giudiziario ormai strutturato in senso fortemente gerarchico e quasi completamente asservito al regime, una buona parte di magistrati -di formazione culturale liberale- resta fedele al modello di giudice burocrate quale ‘bocca ed applicatore’ della legge e tende a rapportarsi col regime fascista in maniera silenziosamente o formalmente adesiva, testimoniando così di essere in qualche modo permeabile al contesto politico e socio-culturale del tempo; non mancano, però, diversi magistrati che dissentono dal fascismo e taluni entrano in formazioni partigiane, pagando tali scelte con la vita, la deportazione in lager, il trasferimento ‘punitivo’ ad altri uffici, il collocamento a riposo, la dispensa dal servizio [5].

Al termine del Secondo conflitto mondiale, la maggior parte della magistratura passa dal regime fascista al nuovo contesto repubblicano, democratico e costituzionale, ma tale passaggio avviene senza soluzione di continuità sul piano culturale e professionale [6].

Infatti, nella magistratura da un lato si fa fatica ad attuare i nuovi principi contenuti -nella Prima Parte della Costituzione- in norme ritenute ‘programmatiche’ e non immediatamente applicabili; dall’altro lato, in spregio al principio di divisione dei poteri, si elabora la proposta (non recepita dall’Assemblea Costituente) di attribuire alla Corte di Cassazione (‘alta magistratura’) il potere di vagliare la conformità alla Costituzione delle leggi e degli atti aventi forza di legge.

Anzi, una parte della magistratura continua a manifestare una certa diffidenza e resistenza -verso il nuovo ordinamento costituzionale- anche dopo che la Corte Costituzionale inizia ad operare (1956); ciò è da ascriversi al fatto che i magistrati sono in gran parte di formazione liberale e conseguentemente -considerandosi ‘funzionari’ deputati ad essere ‘mera bocca della legge’- si limitano ad applicare le leggi vigenti emanate anche in epoca fascista e nell’immediato dopoguerra, omettendo di investire (se non in rari casi) il Giudice delle leggi al fine di verificarne la conformità alla Costituzione [7].

Ciò posto, l’associazionismo giudiziario vede di nuovo la luce il 21 ottobre 1945 con una nuova denominazione: Associazione Nazionale Magistrati (A.N.M.) che per oltre un decennio viene diretta da magistrati di Cassazione.

L’A.G.M.I. e poi l’A.N.M. sono le uniche due associazioni unitarie di magistrati, sino a quando nel 1960 i magistrati di Cassazione danno vita all’Associazione Unione delle Corti, che nel 1961 prende il nome di Unione Magistrati Italiani (U.M.I.).

I magistrati di Cassazione (iscritti all’U.M.I.) decidono di uscire dall’A.N.M., perché questa dal Congresso Nazionale di Napoli (1957) in poi assume posizioni da quelli non condivise e fortemente contrastate; in particolare, detta fuoriuscita è determinata dal fatto che l’A.N.M.:

  1. propugna la tesi secondo cui il giudice è non simple bouche de la loi e non sacerdote separato dalla società e rinserrato nella turris eburnea del suo sapere sillogistico e tecnico-formale, bensì interprete vivo della legge secondo i principi costituzionali, aperto ed attento alle problematiche culturali e socio-politiche riguardanti il ‘servizio giustizia’;
  2. si schiera -con maggioranze progressivamente sempre più ampie- contro la concezione gerarchica e piramidale della magistratura basata sulla progressione in carriera a ‘ruoli chiusi’ e sulla distinzione tra ‘alta magistratura’ (i magistrati di Cassazione) e ‘bassa magistratura’ (tutti gli altri magistrati), sostenendo invece il sistema dell’avanzamento in carriera a ‘ruoli aperti’ fondato sulla cd. ‘anzianità senza demerito’;
  3. è contraria all’accentramento del potere giudiziario nelle mani dei magistrati cassazionisti per il fatto che costoro nel contempo dirigono l’A.N.M., hanno un peso preponderante -in virtù della legge elettorale all’epoca vigente- nel C.S.M., compongono le commissioni preposte a valutare i magistrati che aspirano ad avanzamenti di carriera.

L’U.M.I. resta in vita per oltre un decennio sino agli anni “70, allorquando i suoi iscritti rientrano gradualmente nell’A.N.M. e aderiscono in gran parte al Gruppo ‘Magistratura Indipendente’.

L’A.G.M.I. e l’A.N.M., sin dalla loro costituzione, si caratterizzano per il carattere politico dei loro rispettivi operati e per il pluralismo interno, in quanto vi si iscrivono magistrati di diverso orientamento culturale; ma soltanto dal 1957 in poi il pluralismo nell’A.N.M. si esprime mediante la progressiva formazione al suo interno di gruppi, che si differenziano per contenuti programmatici, obiettivi da raggiungere, metodi praticati.

Infatti si costituiscono: nel 1957 il Gruppo ‘Terzo Potere’ che nel 1979 concorre a formare il nuovo Gruppo ‘Unità per la Costituzione’; nel 1962 il Gruppo ‘Magistratura Indipendente’; nel 1964 il Gruppo ‘Magistratura Democratica’ che nel 2012 concorre a formare il Gruppo ‘Area’; nel 1969 il Gruppo ‘Impegno Costituzionale’ che nel 1979 concorre a formare il nuovo Gruppo ‘Unità per la Costituzione’; nel 1988 il Gruppo ‘Movimento per la Giustizia’ (già denominato ‘Verdi’) che nel 2012 concorre a formare il nuovo raggruppamento denominato ‘Area’, il quale il 21 giugno 2016 dà vita all’Associazione ‘Area Democratica per la Giustizia’; nel 2015 il Gruppo ‘Autonomia e Indipendenza’ nato da una scissione di ‘Magistratura Indipendente’; negli ultimi anni i due distinti Gruppi ‘Articolo 101’ e ‘Movimento per la Costituzione’, quest’ultimo sempre alleato con ‘Magistratura Indipendente’ in tutte le competizioni elettorali cui ha partecipato.

Le plurali sensibilità culturali (già esistenti nell’A.G.M.I.) e i diversi gruppi, che operano in seno all’A.N.M., sono i ‘veri motori’ dell’associazionismo giudiziario, in quanto danno vita all’interno della comune ‘casa associativa’ a dibattiti serrati, a confronti talvolta accesi, a sintesi programmatiche (deliberate di volta in volta all’unanimità o a maggioranza) sugli obiettivi da perseguire e sugli interventi in materia di ordinamento giudiziario, stato della giustizia, carriera e prerogative dei magistrati, proposte normative sulle diverse tematiche esaminate.

Le molteplici posizioni, assunte nel corso degli anni dall’A.N.M. e dai singoli gruppi sulle questioni affrontate, oscillano e talvolta fanno sintesi tra tensioni corporative a tutela dei magistrati, prospettive culturali ed ermeneutiche costituzionalmente centrate e orientate, apertura ad interventi politici su problematiche riguardanti la giustizia e la democrazia.

Storicamente le diverse sensibilità culturali, presenti nell’A.G.M.I. e poi nell’A.N.M., costituiscono un indubbio fattore di ricchezza per l’intera magistratura; ciò è attestato anche dall’attuale Ministra della Giustizia, la quale afferma di essere consapevole […] della fisiologica e peraltro ineliminabile pluralità delle culture della magistratura […], sicché occorre rifuggire […] dalla semplificazione che confonde il valore del pluralismo con le degenerazioni del correntismo […] [8].

Infatti, numerosi e pregevoli sono i contributi e gli stimoli culturali offerti dall’associazionismo giudiziario:

  1. tra il 1909 e il 1925 sul piano ordinamentale mediante il perseguimento di obiettivi programmatici concernenti il pieno riconoscimento del governo autonomo della magistratura, l’indipendenza della magistratura requirente dal potere esecutivo, il miglioramento delle condizioni retributive e lavorative dei magistrati;
  2. dal 1945 in poi per quanto concerne l’indipendenza, l’autonomia, l’imparzialità e la terzietà del giudice; l’introduzione del ‘sistema tabellare’ per la ripartizione degli affari giurisdizionali [9]; la progressione in carriera dei magistrati (abolizione dei ‘ruoli chiusi’ accessibili mediante appositi concorsi ed introduzione prima dei ‘ruoli aperti’ e poi del criterio dell’anzianità senza demerito); l’elezione dei membri togati del C.S.M. secondo il criterio della parità nel diritto di voto attivo e passivo senza distinzioni tra livelli professionali; la legittimità del diritto di criticare i provvedimenti giurisdizionali; l’interpretazione costituzionalmente orientata della normativa in vigore; l’apertura al dibattito pubblico su tematiche concernenti il ‘servizio giustizia’; la tutela dei diritti fondamentali della persona sul piano politico, culturale, sociale ed economico. A ciò si aggiunge il notevole contributo teorico offerto a sostegno della tesi, secondo cui le norme della Costituzione -qualora abbiano contenuti autosufficienti e completi- sono non ‘programmatiche’, bensì ‘precettive’ e perciò immediatamente applicabili dal giudice alla fattispecie concreta [10].

L’A.N.M. svolge, altresì, un ruolo molto significativo a presidio della stessa democrazia durante gli ‘anni bui’ della Repubblica segnati da stragi, atti di terrorismo eversivo dell’ordine costituzionale, attentati miranti a destabilizzare l’ordine pubblico, criminalità mafiosa e corruzione; molti magistrati pagano con la vita per il semplice fatto di aver avviato indagini e svolto attività giurisdizionale -con le ‘armi’ del diritto e del processo- nei confronti di ‘grumi’ criminali più o meno potenti ed occulti.

Accanto alle molte ‘luci’, però, non mancano diverse ‘ombre’ che, in epoca repubblicana, si allungano sulla magistratura e gettano discredito sul ‘servizio giustizia’, sugli organi del governo autonomo, sull’A.N.M. e sui gruppi che ne fanno parte, determinando un netto calo di fiducia nell’imparzialità e terzietà dei magistrati; infatti, diversi magistrati balzano alle cronache per fatti di corruzione, malaffare, collusioni con centri di potere politico od economico, degenerazioni correntizie, disdicevole malcostume sul piano deontologico.

Tuttavia, tra alti e bassi, è certo che l’A.N.M. e i gruppi contribuiscono notevolmente a costruire, implementare e rafforzare la democrazia costituzionale aperta alle istanze europee e internazionali.

In uno storico documento l’A.N.M. rimarca: […] L’associazionismo giudiziario in Italia ha una forte e radicata tradizione che risale agli inizi dello scorso secolo. Nell’ultimo secolo esso si è articolato con la formazione delle “correnti” all’interno dell’unica Associazione nazionale magistrati che da tale situazione trae indiscutibile rappresentatività e particolare autorevolezza per il fatto di esprimere il risultato del dibattito pluralistico, ricco ed articolato, dei gruppi associativi. L’associazionismo giudiziario costituisce ad un tempo: l’esercizio da parte dei magistrati delle libertà costituzionali di pensiero e associazione; lo strumento per la crescita della consapevolezza nei magistrati della specificità della funzione e della essenzialità dell’indipendenza per il suo esercizio; il contributo dei magistrati al dibattito sul ruolo della magistratura nella società e nelle istituzioni […] [11].

Questo è un patrimonio storico di idee, programmi, interventi e attività -indubbiamente rilevante sul piano quantitativo e soprattutto qualitativo- che nessuno può revocare in dubbio.

2- Associazionismo giudiziario ed interpretazione della realtà

Le molteplici ombre, addensatesi negli ultimi anni su una parte della magistratura e dell’organo di governo autonomo, sono sintomatiche di una ben più vasta crisi della democrazia sul piano istituzionale, politico, economico, culturale e sociale; oggi si assiste ad una crisi di sistema, la quale involge tutti i settori della convivenza civile e -per quel che rileva ai fini della nostra analisi- soprattutto i cc.dd. ‘corpi intermedi’ che all’interno della società sono il collante di istanze, sollecitazioni, programmi, attività, interventi, elaborazioni di carattere culturale e socio-politico.

Nel disegno, tracciato dalla Costituzione, i ‘corpi intermedi’ sono formazioni sociali, in cui ciascuna persona può realizzarsi integralmente sul piano lavorativo, etico, morale, culturale e religioso, nonché contribuire ad elaborare progetti volti alla promozione e allo sviluppo della comunità civile e delle istituzioni democratiche secondo i principi di solidarietà, uguaglianza formale e sostanziale, sussidiarietà e bene comune.

Sino alla fine del decennio 1970-1980, i ‘corpi intermedi’ sono generalmente luoghi di confronto e di dibattiti (anche animati) su molteplici questioni di interesse generale; a seguito della graduale liquefazione delle ideologie, che hanno dominato il ‘secolo breve’ [12], nel decennio 1980-1990 i ‘corpi intermedi’ iniziano a smarrire questa loro vocazione e -tranne alcune realtà circoscritte- si ripiegano progressivamente sul presente e si accasciano su iniziative di corto respiro.

L’anemia dei ‘corpi intermedi’ impedisce di avviare reali processi di discernimento della realtà circostante e di concorrere in maniera autentica allo sviluppo della comunità civile e delle istituzioni democratiche del Paese; infatti l’attuale crisi della democrazia è il risultato, fra l’altro, anche dell’afasia e dell’assopimento dei ‘corpi intermedi’ e, conseguentemente, della loro incapacità di decodificare la crisi sistemica che sta investendo il Paese ed il mondo intero.

Si è in presenza non di una ‘epoca di cambiamento’, ma di un ‘cambiamento d’epoca’ accelerato -da ultimo- dai pervasivi effetti prodotti dalla pandemia in corso: senso di incertezza sul futuro, fragilità e vulnerabilità sul piano relazionale, fisico e psicologico; crollo dell’economia; aumento dei casi di depressione, suicidi, separazioni, violenza fra mura domestiche; accentuata precarietà del lavoro; stress dei sistemi sanitari e delle stesse istituzioni democratiche; fake news divulgate spesso intenzionalmente attraverso il web, i media, le tecnologie digitali; pervasiva diffusione di populismi in ambito penale secondo lo schema ‘amico/nemico-delinquente’, socio-politico in relazione alla profonda crisi globale, socio-sanitario per quanto concerne la gestione dell’emergenza pandemica e della campagna vaccinale.

La narrazione del trauma, provocato dalla pandemia, mette certamente in discussione il ‘mito’ del progresso lineare ed inarrestabile, perché smentisce quella lettura ‘faustiana’ della storia secondo cui l’uomo -con il suo sapere tecnico-scientifico ed il suo operato- può titanicamente dominare il mondo, indirizzarlo e piegarlo secondo il suo volere.

Anche l’esperienza giuridica da tempo è sottoposta a diverse sollecitazioni ‘stressanti’ e traumatiche, in quanto si trova ad affrontare problematiche e situazioni nuove con strumenti normativi e un armamentario culturale, che si sono mostrati in gran parte obsoleti e inadeguati.

Infatti, di fronte alle sfide poste dalla pandemia mondiale in atto, il decisore politico interviene anche con atti amministrativi per limitare la libertà di spostamento dei cittadini e per disciplinare l’esercizio di diritti fondamentali della persona; attribuisce, altresì, ai capi degli uffici giudiziari il potere di organizzare -a ‘macchia di leopardo’- lo svolgimento dell’attività giurisdizionale mediante l’adozione di specifici e differenti progetti organizzativi, in cui sono individuati in maniera diversa i processi da trattare e quelli da rinviare ed i relativi tempi/modalità di definizione, dando così luogo ad una giurisdizione esercitata in maniera disomogenea e diversificata sul territorio nazionale.

Inoltre diverse nuove sfide per la giurisdizione provengono, ad esempio, dalle complesse problematiche concernenti il ‘fine vita’, le questioni ‘eticamente sensibili’, i fenomeni migratori, la tutela dei diritti e l’osservanza dei doveri connessi all’accesso e all’uso di internet e dei social networks.

In particolare la travolgente trasformazione digitale in atto determina:

  1. certamente varietà e facilità di contatti sociali e di reperimento/scambio di informazioni, ma scarsa integrazione nei gruppi, in quanto questi sono caratterizzati da legami deboli;
  2. la vita quotidiana delle persone è orientata e organizzata sulla base di algoritmi, i quali però sono inficiati da una contraddizione di fondo: da una parte, danno visibilità massima a comportamenti e valutazioni di singoli, gruppi, imprese, istituzioni; dall’altra, invece, rendono invisibili le dinamiche del loro stesso funzionamento, nonché scarsamente trasparenti le culture aziendali di riferimento;
  3. una conoscenza di notizie partecipata e diffusa in tempo reale la quale, se da un lato incentiva la collaborazione fra gli utenti dei social networks, dall’altro si basa su meccanismi di condivisione e partecipazione che spesso sono il frutto non di condotte razionali, bensì di compulsive spinte emozionali ed empatiche che portano a ‘polarizzare’ i discorsi, le valutazioni, le analisi e le opinioni;
  4. la creazione di centri di ‘intelligenza artificiale’, i quali contengono sì innumerevoli dati, ma progressivamente sostituiscono l’intelligenza collettiva e individuale e -a cascata- ridimensionano o addirittura annullano la sovranità di ciascuno e della comunità su interi campi e processi decisionali;
  5. la labilità tra epistème (conoscenza certa e vera) e doxa (opinioni e valutazioni) con grave danno per le acquisizioni di dati scientifici e di quelli storicamente certi validati ufficialmente dalle autorità competenti. Trattasi di danni, che sono causati dalla diffusione di notizie e valutazioni (non verificate da alcuno) ‘alternative’ a quelle ‘ufficiali’ -ad esempio- in ambito sanitario, storico, scientifico, politico, istituzionale, dando luogo a ‘bolle informative’ in cui da una parte le opinioni più visibili dominano le menti senza imbattersi in punti di vista diversi, conflittuali o non graditi; dall’altra, le fakes news -in forza della loro vorticosa reiterazione e diffusione- finiscono per ‘essere’ la realtà e per avere una valenza maggiore delle stesse evidenze scientifiche [13].

Altre situazioni, che sono all’origine di continue riflessioni e incessanti adattamenti nell’ambito dell’esperienza giuridica, sono costituite dalle reiterate frequenti riforme sia della normativa sostanziale e processuale soprattutto penale, sia della legislazione che disciplina altri settori della convivenza civile come -ad esempio- quella riguardante la tutela delle fasce più deboli della società, l’introduzione di istituti di democrazia ‘partecipativa’ o ‘inclusiva’ in un sistema parlamentare a carattere rappresentativo, la disciplina dei fenomeni migratori da Paesi extracomunitari secondo le differenti prospettive dell’assimilazione, interculturalità, multiculturalità.

Le sfide, che le ‘res novae’ portano all’esperienza giuridica, producono rilevanti effetti anche sull’associazionismo giudiziario e sulla sua stessa capacità di rinnovarsi, adattarsi, attrezzarsi sul piano culturale per offrire -ai singoli magistrati, al grande pubblico e alle istituzioni democratiche- idee e strumenti concettuali adeguati ad affrontarle con consapevolezza e responsabilità.

Tuttavia, è chiaro che l’elaborazione di un armamentario culturale nuovo -idoneo ad affrontare le numerose e dirompenti sfide di questo tempo- richiede a monte la conoscenza della realtà nel suo continuo fluire e la comprensione delle sue profonde e reali dinamiche.

Questo è un compito non facile anche per il giurista, perché la realtà si presenta come un prisma che può essere ‘conosciuto’ in profondità soltanto se lo si guardi dalle sue basi e da tutte le sue facce laterali e rifrangenti; in altre parole la realtà è poliedrica, sicché i tentativi di definirla postulano la necessità di utilizzare i criteri conoscitivi offerti da altre scienze umane nella consapevolezza, però, che oggi sembrano essersi esaurite proprio le categorie interpretative della realtà per il fatto che queste spesso si rivelano insufficienti a decodificare l’incessante e continua emersione delle res novae.

La realtà supera le idee e le categorie concettuali umane, perché essa è più grande dell’uomo, lo precede, lo eccede, ne accompagna l’esperienza e l’uomo stesso è immerso in essa; d’altronde, è assodato che le analisi, le idee e le valutazioni, qualora dovessero essere ‘ideologicamente’ fondate ed orientate, rischierebbero seriamente di ‘accecare’ l’uomo e non gli consentirebbero di conoscere funditus la realtà stessa nella sua continua evoluzione; a questo riguardo non può revocarsi in dubbio l’estrema attualità ed utilità -per l’esperienza giuridica- dell’antica massima ex facto oritur ius.

In particolare la realtà, essendo dinamica e in continuo divenire, supera l’interpretazione di essa in virtù del fatto che l’interpretazione è di per sé statica e si cristallizza nel momento stesso in cui ritaglia analisi e scolpisce concetti; inoltre, la realtà s’imbatte nell’insufficienza della sua stessa ermeneutica, perché questa è riduttiva e parziale per il fatto che è connotata dalla ‘fissità’ di principi, criteri, canoni, metodi, concetti, definizioni, locuzioni incapaci di comprendere, contenere e spiegare la realtà tutta intera nel suo poliedrico dinamismo.

Quindi, l’associazionismo giudiziario, al fine di tentare di comprendere la realtà e di incidere sul suo vorticoso ed incessante fluire, è chiamato anche a conoscere funditus il tempo presente in cui opera, ad individuarne le caratteristiche e le dinamiche evolutive, a decodificare il contesto storico in cui si svolge l’attività giurisdizionale; allo scopo è necessario ed utile avvalersi -senza alcuna pretesa di completezza ed esaustività- degli strumenti conoscitivi e dei criteri interpretativi offerti soprattutto dall’analisi sociologica in chiave storica, tecnico-scientifica, etico-filosofica.

2.1 L’epoca della ‘post-verità

Nella tragedia di Sofocle, Edipo Re, si narra che la città di Tebe fu invasa da un’epidemia causata dall’assassinio del suo re rimasto impunito; allora Edipo, per salvare la città, salì al trono, sposò la moglie del re ucciso e si mise alla ricerca del regicida.

Ma Edipo non sapeva che stava cercando se stesso, perché egli era il regicida. Infatti, fu il cieco indovino, Tiresia, ad aprirgli gli occhi: Edipo, senza saperlo, aveva ucciso suo padre, il re Laio, e poi aveva sposato sua madre, Giocasta.

La conoscenza della verità viene da un uomo cieco, perché questi vede attraverso la prospettiva del tempo che è superiore a quella dello spazio.

Non si può conoscere la realtà attuale, se non si comprende il passato; la storia costruisce il presente, l’identità di una persona, i valori condivisi in una comunità.

L’esperienza di vita personale e collettiva si compone anche del passato, perché i vissuti contribuiscono a plasmare il presente; la storia è un sistema o una sequenza di esperienze umane, che formano una catena unica, irriducibile ed indistruttibile.

Tuttavia il pensiero e la scrittura della storia non hanno saputo opporre valide ed efficaci resistenze alla forza distruttiva dell’esistenzialismo diffusosi a cavallo tra gli anni ‘60 e gli anni ‘70 del secolo scorso, allorquando la de-costruzione del passato ha determinato il progressivo sbriciolamento della prospettiva storica, che ha finito per soccombere sotto i colpi di manipolazioni e maltrattamenti.

Dal 2016 il lemma ‘post-verità’ è entrato nel circuito culturale occidentale, per descrivere quelle situazioni in cui deliberatamente oppure per errore o ignoranza -facendo leva su emozioni, credenze e pregiudizi cognitivi della psicologia umana- la realtà viene distorta e si stabilisce una sequenza ad essa parallela; si crea una realtà fittizia, in base alla quale molti formano le proprie opinioni e leggono i vissuti esperienziali propri e altrui [14].

Questa generazione di ‘verità’ fittizie finisce spesso per essere supportata da presunti ‘riscontri’ in fatti ed eventi, inoculando così dei veri e propri ‘virus’ nella cultura di una comunità e delle sue istituzioni ai vari livelli; a ciò si aggiunge il fatto che i destinatari delle false ‘verità’ credono di essere informati, ma di fatto recepiscono (spesso inconsapevolmente) narrazioni infarcite di interpretazioni personalissime elaborate da chi le ha diffuse al grande pubblico.

Forse l’attuale epoca della ‘post-verità’ è il canto del cigno di quelle stesse ideologie, che sono nate nel XIX secolo e si sono diffuse nel XX secolo.

Anche l’esperienza giuridica negli ultimi tre decenni è stata interessata dai colpi inferti da ‘costruite’ falsificazioni di verità storiche, dalla pervasiva diffusione di innumerevoli fake news, dall’artificioso stravolgimento di fatti ed eventi, dalla strumentale estrapolazione di frasi ed espressioni contenute in provvedimenti giurisdizionali.

Infatti, non sono stati pochi gli attacchi strumentalmente portati -sulla base di ‘bufale’ confezionate ad arte- contro singoli magistrati rei di aver avviato un’indagine non gradita o redatto un provvedimento non condiviso; contro uffici giudiziari esposti in prima linea nel perseguire delitti di criminalità organizzata o commessi dai cc.dd. ‘colletti bianchi’; contro la stessa A.N.M. definita ‘consorteria mafiosa’, ‘loggia massonica’, ‘anomalia della democrazia’; contro il legislatore allorquando ha approvato -ad esempio- le norme in materia di immigrazione o su questioni ‘eticamente sensibili’.

Quindi, per accedere alla realtà e decodificarla nella sua complessità in modo da evitarne false rappresentazioni, è necessario adottare criteri metodologici basati sui seguenti quattro movimenti:

  1. prendere le distanze: penetrare la realtà, avvertirne le sensazioni, uscirne, rifletterci sopra;
  2. riunire le prospettive: ogni realtà è poliedrica, sicché soltanto la somma delle facce e il groviglio delle prospettive possono restituirne i contenuti, la forma, il volume;
  3. innalzarsi: elevarsi e distanziarsi dalla realtà, restare indifferenti rispetto ai fatti osservati, al fine di far cadere le lenti deformanti di possibili pregiudizi e preconcetti, che sono rischi sempre in agguato;
  4. dialogare con l’alterità: l’apertura ad altri patrimoni culturali, la conoscenza di fatti ed esperienze differenti, il confronto con opinioni e valutazioni diverse sono fattori che aiutano ad approfondire la realtà storica ed a situarla in uno specifico contesto, in quanto la conoscenza di essa è possibile mediante il dialogo, la relazionalità, l’intersoggettività senza ‘gabbie ideologiche’ precostituite.

2.2 I corpi intermedi: dal collante ‘ideologico’ alla liquidità e al corto-termismo

Nel corso del XX secolo si sono affermate a livello mondiale diverse ideologie, le quali sono state espressioni di differenti ‘concezioni’ del mondo e portatrici di variegati criteri interpretativi della realtà, che sono entrati a far parte del patrimonio culturale di una moltitudine di persone e, perciò, spesso anche dei magistrati chiamati ad interpretare e applicare la legge al caso concreto; si sono avute ‘visioni’ del mondo che poggiavano su alcuni enunciati fondamentali nel senso che si radicavano su idee e principi di fondo, in base ai quali si interpretava la realtà, si valutavano fatti e situazioni, si strutturava la vita di una comunità, si definiva l’ordinamento di uno stato, si individuavano misure e strumenti per risolvere le problematiche del tempo.

In quella fase storica l’associazionismo giudiziario si è strutturato sulla base di collanti culturali, che si identificavano nei principi ispiratori delle diverse ‘concezioni’ del mondo diffuse nella società; molti magistrati si sono riconosciuti in quei gruppi, che traevano ispirazione da quei principi e costituivano i contenitori formali dell’associazionismo giudiziario.

Generalmente i diversi gruppi, tranne eccezioni, avevano alla base una comune ‘visione’ del mondo e un’idea di giurisdizione sagomata su specifici principi e ideali condivisi.

Tuttavia, nel corso del decennio 1980-1990, nella società italiana sono emersi i primi germi di un ponderoso cambiamento, che l’hanno proiettata verso una graduale revisione delle acquisizioni culturali sino ad allora maturate, verso l’elaborazione di idee e approcci innovativi, verso la diffusione di nuove etiche e prassi sotto il forte impulso determinato soprattutto dall’evaporazione di quelle ideologie che sino ad allora avevano dominato la scena mondiale sul piano politico, economico, culturale e sociale; gradualmente è scomparsa -nella coscienza civile e nei vari livelli istituzionali- quella forte spinta propulsiva a realizzare gli obiettivi ideali propugnati da quelle stesse narrazioni ideologiche sino ad allora condivise.

La liquefazione delle ‘ideologie’ ha progressivamente fatto maturare -nella coscienza di gran parte degli uomini- un diverso criterio ispiratore delle relazioni tra persone, tra persone e società, tra società e istituzioni; la liquidità è diventata la cifra dominate dei rapporti interpersonali, sociali e istituzionali.

Questo processo storico nel corso degli anni successivi si è diffuso a tal punto, che la società attuale può essere fondatamente considerata:

  • cortotermista in virtù del fatto che tende prevalentemente a ‘galleggiare’ sul contingente, a gestire le urgenze ripiegata e curvata sul presente, ad essere quasi ‘ossessionata’ dal vivere il presente, omettendo di pensare e attuare progetti lungimiranti ed intergenerazionali [15];
  • liquida’ sul piano dei principi o della weltanschauung, atteso che i comportamenti e le relazioni interpersonali, sociali, interistituzionali sono connotati dalla fretta ‘adessista’ o ‘puntinista’ dell’hic et nunc, sono caratterizzati da precarietà e instabilità, sono dominati dal ‘carpe diem’ e dalla ‘tirannia del presente’, la quale sgonfia le spinte ideali e annichilisce ogni sforzo di ‘pensare’ il futuro in una prospettiva di lungo termine [16].

In generale le aspettative personali -tranne situazioni circoscritte- sono state la molla precaria e ‘liquida’ dell’adesione alle formazioni intermedie e alle iniziative interne ed esterne da esse realizzate.

E gran parte della stessa magistratura italiana non è rimasta impermeabile a questi profondi e decisivi mutamenti verificatisi nella coscienza sociale.

Infatti, l’A.N.M. ed i gruppi che ne fanno parte -tranne settori circoscritti- hanno progressivamente perso l’originario collante di quei principi, ideali e progetti su cui si fondava l’adesione dei magistrati, sostituendolo con quello più fluido e transeunte dell’utile, del conveniente, del tornaconto del momento.

Inoltre, diverse associazioni di magistrati, pur continuando a declamare formalmente gli ideali di un tempo, si sono appiattite -tranne alcune parti- su prassi ‘adessiste’, sulla gestione ‘puntinista’ del potere, sull’utile reciproco nei rapporti interni ed esterni; una sfuggente ed informe ‘liquidità’ nelle relazioni ha preso il posto degli ideali di un tempo che sembravano granitici e solidi, determinando a cascata un’evidente incapacità di elaborare proposte culturali lungimiranti, efficaci e incisive [17].

L’interesse effimero è gradualmente diventato -tranne eccezioni di una certa rilevanza e ampiezza- il nuovo collante dello ‘stare insieme’ nelle formazioni intermedie, la molla instabile di ondivaghe adesioni ad esse, la causa principale della loro ‘miopia’ e debolezza progettuale verso l’esterno.

2.3 ‘Surfismo’, società del rischio e cultura dell’incertezza

La lettura in profondità dei fenomeni sociali e delle sue dinamiche può essere svolta con metodologie e secondo criteri analitici, che decodificano la traiettoria del progresso tecnico-scientifico e gli effetti che ne derivano sull’uomo e sull’ambiente.

Secondo una prima analisi, è in atto un profondo cambiamento epocale, che sta smantellando sistematicamente tutto l’armamentario culturale politico, economico e culturale ereditato dalla società ottocentesca, romantica e borghese [18].

Questo cambiamento d’epoca determina, nella coscienza sociale, sgomento e paure ascrivibili ad una sorta di ‘invasione’ operata da barbari che -senza cultura né storia- starebbero saccheggiando e depredando la terra.

Si tratta di un cambiamento generato da due fattori:

  • la diffusione massiccia delle innovazioni tecnologiche che comprimono lo spazio e il tempo delle persone ‘digitali’;
  • l’ingresso sullo scenario mondiale di uomini nuovi, che sono portatori di un’energia cinetica indispensabile ad implementare una vera mutazione culturale.

Da ciò derivano l’elaborazione di una diversa idea di esperienza e il mutamento/dislocazione del senso nella stessa esistenza umana; in particolare l’uomo ‘digitale’, saltellando, entra velocemente nelle singole esperienze ed altrettanto velocemente ne esce in una prospettiva di esaltazione massima del ‘movimento in sé’ quale scopo del suo stesso vivere.

La nuova idea di esperienza umana è connotata da prassi e stili frivoli, affettati, superficiali, chattati, perché è fondata sull’apparenza che imprime un nuovo senso alla vita mediante l’estasi commerciale, i vestiti, la moda, la spettacolarità, la semplificazione; si percorrono traiettorie esistenziali che corrono veloci in superficie anziché sui binari logici dello ‘scavo’ in profondità; si prediligono la superficie alla profondità, il piacere alla fatica, il surfismo a ‘pelo d’acqua’ alla pesca ‘subacquea’ in profondità.

In definitiva l’analisi e la riflessione sono sostituite dalla propensione a vivere in maniera epidermica le esperienze di vita in vorticosa sequenza.

Questa mutazione andrebbe accettata, altrimenti si rischierebbe di scivolare in un dannoso ‘scontro di civiltà’ a carattere anche intergenerazionale; pertanto, occorre reagire non costruendo una ‘Grande Muraglia’ tesa a fronteggiare e contenere la tracimazione delle res novae, bensì condividendo un nuovo stile di vita improntato all’attenzione, alla cura e alla vigilanza quotidiane da parte di ciascuna persona nella consapevolezza, tuttavia, che si può salvare non ciò che è tenuto al riparo dall’evoluzione dei tempi, bensì ciò che si lascia mutare perché diventi ciò che è in un tempo nuovo.

Questa analisi sociologica induce a riflettere sul fatto che oggi anche l’esperienza giuridica si svolge spesso in un celere susseguirsi di norme e precetti nuovi i quali -ancor prima di essere pienamente attuati e di vederne gli effetti prodotti in concreto- sono soggetti a loro volta a frettolose modifiche sollecitate magari da urgenze sopravvenute; infatti, non sono rari i casi in cui una nuova legge modifica -anche in maniera estesa e profonda- una legge approvata poco tempo prima senza che si sia avuto il tempo sufficiente per verificarne le ricadute applicative e gli effetti che in concreto avrebbe potuto produrre.

Non è raro, infatti, imbattersi in fenomeni di ‘bulimia legislativa’ che, a cascata, determinano oscillazioni giurisprudenziali e creano vaste sacche di ‘legale incertezza’ per il cittadino comune; anche l’esperienza giuridica spesso diventa epidermica, perché si sviluppa in superficie senza la possibilità di approfondire il dato positivo e conoscerne le concrete ricadute applicative.

Inoltre, l’uso massiccio delle tecnologie, soprattutto in tempo di pandemia che ha indotto a celebrare le udienze da remoto su piattaforme digitali, allenta i rapporti fra le parti del processo e il giudice, rende piuttosto evanescenti i contatti fra gli attori processuali, raffredda quel ‘calore umano’ che solitamente si respira nelle aule d’udienza nei momenti topici del processo.

Secondo una diversa prospettiva sociologica, che tende l’orecchio anche alle problematiche messe in luce dall’ambientalismo, nell’esperienza umana il rischio e l’insicurezza sono non situazioni particolari, eccezionali, circoscritte, future, incerte nell’an, bensì fattori sempre presenti nell’orizzonte della vita quotidiana di ciascuna persona; tutte le persone sono quotidianamente esposte al rischio, perché vivono immerse proprio nella ‘società del rischio’, sicché soltanto la capacità e l’intelligenza di ‘anticipare’ il rischio consente di non trasformare le emergenze sociali in panico generale e le paure collettive in catastrofi globali [19].

Il rischio, che domina la vita sociale e genera paure e bisogni di sicurezza, prefigura una nuova utopia costituita dall’esigenza di cambiare in positivo le modalità e le prassi delle decisioni strategiche protese ad anticiparlo nel presente, al fine di evitare che esso produca crisi e disastri ben maggiori; infatti, il concetto di rischio assume sempre più le problematiche della sua efficace anticipazione nel senso che occorre mettere in conto la sopravvenienza di un pericolo.

A ben riflettere, i rischi sono non delle sconfitte della modernità, ma paradossalmente delle sue vittorie, perché essi nascono dalla crescita troppo rapida, compulsiva e senza regole della moderna economia industrializzata.

Il rischio certamente mette in crisi le più granitiche certezze scientifiche, culturali, economiche e socio-politiche, ma nel contempo offre la possibilità a tutti di produrre cambiamenti e innescare energie nuove nella consapevolezza, però, che è fallace l’idea di progresso lineare e inarrestabile capace un giorno di coinvolgere e liberare tutti dalla precarietà e dal bisogno.

I rischi sono transnazionali, perché tutti gli uomini -al di là delle frontiere che separano gli stati- sono legati da culture e/o sentimenti religiosi, che comunque sottendono un destino comune.

Da ciò consegue che l’uomo ha bisogno di maturare ed acquisire la ‘cultura dell’incertezza’ (C.I.), la quale consiste nella disponibilità a parlare apertamente del modo in cui si affrontano i rischi, a negoziare fra diverse razionalità piuttosto che impegnarsi nella reciproca denuncia, a riconoscere responsabilmente le perdite che -nonostante i progressi compiuti e le precauzioni adottate- continueranno a verificarsi.

Ne consegue che il rischio nella società attuale è parte costitutiva dell’insicurezza collettiva, la quale va accettata come elemento di libertà, che è una delle forme in cui si invera la democrazia e si esplica la scelta tra diverse opzioni; e dall’esercizio delle scelte nasce il cambiamento.

In particolare, i rischi individuali e collettivi sono fattori di stress per le istituzioni, l’esperienza giuridica, l’economica e la politica; saper vivere nella società del rischio significa che tutti coloro, che operano in detti ambiti, devono essere capaci di anticiparlo e fronteggiarlo.

E si rileva che la vita umana -nella società del rischio- è determinata non dalla quantità dei rischi insorti, bensì dalla qualità ed efficacia del loro controllo; ma è evidente, purtroppo, il progressivo collasso della propensione ad istituzionalizzare detto controllo, nonché delle idee guida e dei progetti fondati sulla ‘certezza e razionalità’ delle misure adottate per fronteggiare il rischio.

Ecco perché l’esigenza di controllare i rischi ed i suoi possibili effetti dannosi è al vertice della gerarchia dei valori sociali, prendendo il posto dei principi di libertà ed uguaglianza; infatti, ad esempio, la catastrofe di Cernobyl (1986), il crollo delle Torri Gemelle (2011), i disastri ambientali e climatici sono diventati fattori di paura e di ‘nevrosi collettiva’ a causa proprio dall’inefficacia degli stessi sistemi difensivi e di controllo.

Orbene, è indubbio che detta analisi in chiave sociologica -inforcando le lenti dell’incertezza e della vulnerabilità- è di notevole ausilio per l’esperienza giuridica, allorquando questa si imbatte nelle res novae determinate dalla ‘società del rischio’; anzi, la decodifica della realtà -secondo i parametri culturali del rischio e vulnerabilità- porta l’esperienza giuridica a conoscere l’insufficienza dei propri contenuti, l’inadeguatezza e la precarietà dei propri strumenti e metodi di analisi e approfondimento.

La ‘C.I.’ smantella le certezze formali derivanti da formule legislative e/o da prassi giurisprudenziali, che pretenderebbero -in maniera quasi ‘sacrale’- di risolvere ogni problema e di sciogliere tutti i nodi critici della comunità umana; l’esperienza giuridica vive anche sul limen tra il già e il non ancora, tra acquisizioni consolidate e innovazioni dirompenti, tra passato presente e futuro, tra tutela di diritti ex lege riconosciuti ed aspettative in cerca di legittimazione e protezione.

Le stesse riforme legislative non sempre sono la panacea di tutti i mali, in quanto esse possono dare voce ad esigenze prima latenti o inespresse, le quali a loro volta reclamano ulteriori riconoscimenti e tutele che soltanto una legge di nuovo conio potrebbe assicurare; e così via.

Anche la prassi giurisprudenziale spesso si imbatte in problematiche veramente nuove, che possono essere affrontate -stante l’assenza di una disciplina normativa ad hoc– soltanto mediante il ricorso ai fluidi criteri generali dell’analogia legis o dell’analogia iuris; ma l’applicazione di questi criteri spesso produce ulteriori incertezze/problematiche interpretative ovvero oscillazioni giurisprudenziali, che restituiscono l’immagine di un’esperienza giuridica dinamicamente protesa sempre alla ricerca di nuove strade, di più efficaci strumenti di tutela, di innovativi approcci sul piano sostanziale e/o processuale.

Infine, le stesse riforme dell’ordinamento giudiziario, pur concorrendo a risolvere le criticità venute alla luce negli ultimi anni, potrebbero determinare l’insorgenza di ulteriori problematiche prima inesistenti oppure invisibili, latenti o scarsamente considerate.

Ed è chiaro che l’associazionismo giudiziario, soltanto se elabori adeguati e lungimiranti contributi di riflessione e proposte, può concorrere ad ‘attrezzare’ culturalmente i magistrati, perché sappiano sapientemente affrontare le res novae nella consapevolezza che il diritto e la sua applicazione non sono il frutto di sillogismi formali ed astratti, bensì sono strettamente agganciati all’esperienza umana e sono centrati sui principi costituzionali nazionali ed europei.

2.4 Frammentazione, fragilità, miti a ‘bassa intensità’

Secondo alcuni studiosi, la società attuale si presenta ‘a coriandoli nel senso che è connotata dalla coesistenza di culture, prassi, principi morali ed etici frammentati, plurali, diversificati e talvolta in opposizione fra loro; ciò porta spesso sia a legittimare una divaricazione tra etica privata ed etica pubblica, sia ad obliterare il puntello della coesione sociale costituito dai principi costituzionali, dal valore della democrazia rappresentativa e dal riconoscimento delle sue Istituzioni [20].

In questa scia prospettica, si afferma che le società contemporanee non possono essere la somma delle differenze religiose, spirituali, morali, etiche, culturali che le attraversano e vi sono responsabilmente presenti, ma devono favorire il dialogo e il confronto fra le diversità al fine di sviluppare un sapere etico e politico di sintesi e di accomodamento fra le stesse nella cornice dei principi fondamentali condivisi, che costituiscono la comune tavola valoriale [21].

Per un altro studioso, la società è perennemente dominata dal conflitto tra il bene e il male ovvero tra irraggiungibili mete spirituali e bassezze della coscienza umana, enunciazione di adamantine virtù morali e polverose difficoltà quotidiane, saldezza granitica di principi etici affermati e naturali fragilità umane, chiarezza degli obiettivi elaborati e tortuosità delle strade per raggiungerli; e il male si annida, attecchisce, germoglia, si insinua e cresce proprio negli ‘interstizi’ della grigia vulnerabilità, congenita debolezza, quotidiana precarietà dell’uomo [22].

Secondo una diversa chiave di lettura, l’epoca attuale -definita ‘post-moderna’- sembra non avere narrazioni globali, complessive, caratterizzate da grandi progetti capaci di fornire unità e identità storica ad un gruppo sociale; anche oggi si elaborano narrazioni, ma queste sono ‘de-sacralizzate’ nel senso che sono prive di quell’aura di assolutezza capace di leggere i fenomeni sociali ed i comportamenti umani [23].

Invero, nei secoli scorsi sono fioriti, si sono diffusi ed accettati ‘miti ad alta intensità’ che -rievocando una dimensione quasi ‘sacra’ separata dalle ordinarie vicende umane- hanno avuto la funzione di chiarire le principali problematiche della vita ed hanno espresso grandi personalità considerate esseri ‘superiori’ (dei, eroi, angeli, demoni) e presentate di volta in volta come protagonisti della scena dotati di caratteristiche positive o negative, da imitare o rifiutare.

Tuttavia nel corso degli ultimi decenni ai ‘miti ad alta densità’ sono subentrati ‘miti a bassa intensità’, i quali non hanno nulla a che fare con il sacro e l’eterno, sono ambientati nella routine quotidiana della vita, non sono portatori di particolari valori e ideali, si limitano a registrare e descrivere storie ed eventi; essi sono denominati ‘miti’, perché continuano ad occuparsi dei problemi fondamentali dell’esistenza umana (l’universo, le civiltà, la vita, la morte, i disastri ambientali, le violenze, le epidemie).

Trattasi di miti caratterizzati da toni apocalittici, i quali sono determinati dall’assenza totale di risposte o da risposte parziali e inadeguate alle suddette problematiche della vita umana, sicché si prefigurano catastrofi imminenti e inarrestabili per il pianeta e il genere umano [24].

Infatti, si prospetta un pianeta ‘ridotto in cenere’ a causa di disastri ambientali e di politiche suicide miranti al conseguimento del profitto senza limiti; in ambito socio-politico non emergono narrazioni epiche, eroi, riti, leaders in cui la comunità possa riconoscersi; le generazioni passate non trasmettono lezioni di saggezza a quelle future; i capi di stato diventano sempre meno modelli da imitare.

Ne consegue che oggi i leaders -con maggiore facilità rispetto a ieri- possono convivere con le proprie possibili gravi mancanze sul piano morale, etico e civico, in quanto essi nell’attuale contesto storico tendono a raccontare la parte ‘malata’ di se stessi, al fine di ‘accendere’ strumentalmente nella coscienza collettiva sentimenti di vicinanza alle proprie ‘debolezze’ e di manipolare il consenso sociale, giustificando così le proprie gravi incoerenze ed omissioni etiche e determinando -a cascata- una maggiore apertura degli altri alla comprensione dei propri ‘errori’ (cd. ‘cultura terapeutica’).

E’ chiaro, però, che oggi l’abbassamento del livello etico-morale e la riduzione dello spessore civico dei leaders minano la credibilità delle istituzioni, favoriscono la disaffezione della comunità sociale al bene comune, fanno serpeggiare la sfiducia, mettono in pericolo la stessa democrazia, sicché appare necessario ritrovare orientamenti capaci di generare senso e significato, riscoprire e rivitalizzare i valori essenziali condivisi, coltivare la speranza in un futuro radicato su un patrimonio di idee e progetti capaci di dare risposta ai problemi fondamentali dell’esistenza umana.

Ora, se si dovessero utilizzare le ‘lenti’ interpretative della frammentazione etico-morale, della fragilità delle persone, della narrazione dei ‘miti a bassa intensità’, molto probabilmente si potrebbero individuare meglio le cause delle problematiche e del conseguente calo verticale di fiducia, che da diverso tempo stanno attanagliando la magistratura.

Invero, nonostante siano trascorsi quasi tre/quarti di secolo dall’entrata in vigore della Costituzione italiana ed oltre quarant’anni dall’elezione del primo Parlamento europeo, nella società italiana e fra gli stessi magistrati spesso si fa fatica a ritrovare la coesione sulla mediazione -nell’attuale contesto storico- dei principi fondamentali che formano la comune tavola assiologica e dovrebbero ispirare le condotte etiche dei singoli; quasi tutti sono soliti richiamarsi ai principi enunciati nella Costituzione italiana e in diversi atti fondamentali dell’Unione europea, ma molto differente è la loro attuazione nell’hic et nunc, allorquando ci si imbatte nelle molteplici problematiche sociali e giuridiche.

Anche all’interno dell’associazionismo giudiziario e degli organi del governo autonomo sono presenti differenti sensibilità culturali che -pur richiamandosi ai medesimi principi costituzionali del ‘giudice naturale’, della funzione, del ruolo e dell’indipendenza, autonomia e terzietà del giudice nell’attuale contesto storico- li declinano in maniera abbastanza differente nel momento in cui vanno a definire ruoli, funzioni e scopi della giurisdizione, dell’associazionismo e degli organi del governo autonomo, oscillando tra una concezione piuttosto ‘politica ed estroversa’, una visione centrata sulla coerente e piena attuazione dei valori costituzionali, un’idea tendenzialmente corporativa e burocratica.

Inoltre diversi scandali, verificatisi anche negli ultimi tempi, denotano una palese divaricazione tra l’essere e il dover essere, tra condotte assunte in privato e in pubblico, tra comportamenti privati e declamazioni pubbliche.

Un esempio valga per tutti.

L’A.N.M. in un deliberato del 21 marzo 2013, a proposito del conferimento di qualsiasi incarico da parte del C.S.M., afferma: […] Le scelte del governo autonomo siano fondate rigorosamente sulla applicazione dei parametri di legge, senza cedere a ragioni che non siano quelle della valutazione oggettiva dei titoli e delle qualità possedute dai candidati, senza che entrino in gioco ingerenze esterne o interne alla magistratura o logiche territoriali o di appartenenza … La trattazione delle pratiche di commissione avvenga tendenzialmente secondo la data di vacanza … (occorre) mettere al bando comportamenti di “autopromozione” o di promozione dell’amico … chi svolge funzioni di autogoverno (non deve) tollerare comportamenti che mirano impropriamente ad influire sulle scelte consiliari […].

Ma in diverse occasioni le condotte sono andate in altre direzioni.

Anzi, proprio il desiderio di essere nominati ad incarichi di vario tipo spesso è l’humus su cui alligna il carrierismo, costituisce la dimensione ‘fragile’ dell’uomo su cui attecchisce la divaricazione tra etica privata ed etica pubblica, esprime quella ‘debolezza’ etica in cui si radicano aspettative da soddisfare magari ad ogni costo.

Infine la sostituzione dei ‘miti ad alta intensità’ con altri a ‘bassa intensità’ ha portato a ritenere ‘quasi naturale’ ovvero ad accettare condotte moralmente disdicevoli, eticamente riprovevoli, giuridicamente illecite; infatti non sono pochi i casi in cui persone, che occupano un ruolo pubblico di rilievo, si sono rese sì protagoniste di gravi mancanze di natura morale, etica e civica, ma poi le hanno raccontate al grande pubblico, giustificandole come ‘errori personali’ inseriti, però, in un sistema molto più grande al fine di conseguire la vicinanza e la comprensione da parte della collettività.

Questa pervasiva ‘cultura terapeutica’ non soltanto obnubila la personale capacità di discernimento e abbassa il livello di cultura civica nella comunità sociale, ma anche favorisce la diffusione di una sub-cultura individualista e utilitarista, offusca la coscienza delle persone e le allontana dalle strade che portano a perseguire il bene comune, mettendo in crisi le stesse istituzioni democratiche.

2.5 Le dinamiche del potere: scopo, degenerazioni, leader e suo ‘cerchio magico’

Secondo una diversa prospettiva, che interpreta i fenomeni sociali soprattutto con le lenti della filosofia morale, il potere ha come scopo (telos) la realizzazione nella comunità umana del bene (agathon) ovvero della felicità (eudaimonia) o pienezza dell’uomo secondo uno specifico progetto [25]; tale scopo può essere raggiunto a condizione che i cittadini ed i detentori del potere vivano secondo virtù e, nel contempo, ricerchino e attuino il miglior assetto ordinamentale possibile in un dato contesto storico.

Sulla base di questo assunto, si puntualizza che l’esercizio virtuoso del potere può perseguire il bene comune soltanto se esso sia inclusivo (principio partecipativo), dinamico (creare le condizioni perché ciascun uomo possa realizzarsi come persona), necessario (soddisfacimento delle esigenze fondamentali delle persone) e concreto (legame con la vita quotidiana e con i bisogni delle persone).

Per converso, l’esercizio del potere diventa perverso o addirittura ‘demoniaco’ nel momento in cui non soltanto oblitera la tensione verso il bene comune, ma si concretizza in comportamenti ambigui, incerti, confusi, incoerenti, indeterminati, vaghi, avvolti da una mezza luce ‘crepuscolare’; trattasi di comportamenti che rendono labili e indefiniti i confini tra il potere ‘buono’ e quello ‘malvagio’ nel senso che producono -a seconda delle circostanze- una costante mutevolezza di contenuti sul piano della comunicazione interna ed esterna, nonché in riferimento ai concetti essenziali di ordine, bene comune, giustizia, onestà, fiducia [26].

Chi esercita il potere svolge un servizio in favore della collettività, mettendo totalmente in gioco la propria persona nelle sue tre dimensioni costitutive (fisica, cognitiva, emotiva) e vivendo quattro tipi di relazioni fondamentali: con se stesso, con gli altri, con il mondo circostante, con la divinità (se credente) ovvero con le sue opzioni spirituali e morali fondamentali. Inoltre, l’esercizio del potere solitamente non corrompe e non stravolge chi lo esercita, bensì più semplicemente ne rivela e ne rende manifesti -nel corso del tempo- il carattere, il temperamento, l’educazione, la cultura, le doti, i limiti, in definitiva la sua personalità, influenzando in un certo qual modo chi lo esercita e lasciando comunque traccia di sé positiva o negativa [27].

L’esercizio del potere è esposto soprattutto alle seguenti tre degenerazioni:

  • autoreferenzialità che si verifica nel caso in cui chi detiene il potere si chiude al confronto con gli altri, fa riferimento soltanto alla propria struttura cognitiva emotiva e valutativa, è poco propenso a relazionarsi con la diversità, sviluppa narcisismo superbia demagogia solipsismo e vanità, smarrisce il senso della concretezza e della responsabilità;
  • sete di potere, allorquando si concepisce il potere come fine a se stesso e si resta aggrappato ad esso sino a quando è possibile, cercando di conservare e rafforzare la propria posizione di partenza;
  • brama di profitto nel caso in cui attraverso il potere si soddisfano interessi personali o del proprio gruppo/cordata secondo la logica mercantile del do ut des [28].

Da ciò deriva che il detentore del potere deve essere umile, avere il senso della misura, non considerarsi un mito, conservare la ‘libertà’ da esso nel senso che deve esercitarlo con maturo e profondo distacco, in quanto è consapevole che comunque trattasi di attività umana, la quale non comprende l’intera sfera della propria persona ed è soggetta al rischio di degenerazioni; inoltre, deve maturare la capacità di discernere il bene dal male, il vero dal falso, il giusto dall’ingiusto, coinvolgendo anche i destinatari del suo operato in questa attività di discernimento e verifica [29].

E’ altresì fondamentale che il detentore del potere sappia circondarsi di collaboratori umanamente validi, professionalmente competenti, eticamente rigorosi, perché deve partire dal presupposto che egli non possiede tutte le capacità per governare e gestire le situazioni; i collaboratori sono la proiezione del leader, perché dallo stile di quelli si comprendono le capacità, la statura, lo spessore etico di questi [30].

Infatti il leader, qualora scelga collaboratori (cd. ‘cerchio magico’) di bassa statura umana tecnica ed etica, difficilmente riesce a creare un clima di cooperazione fiducia e intesa, si rivela quasi sempre incapace di servire il bene comune, mira in genere ad accrescere la propria posizione ed a soddisfare gli interessi propri e quelli della sua cordata, manifestando di volta in volta le proprie ‘patologie’ morali, caratteriali e relazionali come -ad esempio- autoritarismo, narcisismo, corruzione, cinismo, ipocrisia, ambiguità, arroganza, invidia, gelosia, meschinità, insofferenza verso iniziative altrui, pretesa di conformismo intorno a sé, sentimenti di incompiutezza, bisogno di essere amato, sensi di onnipotenza, ambizioni, carrierismi (l’io mongolfiera) [31].

Infine non può non essere affrontato il problema del possibile degrado interno alle stesse istituzioni ed ai cc.dd. ‘corpi intermedi’.

Nel caso in cui fenomeni di degrado iniziano a venire alla luce e a diventare sistema all’interno di un corpo intermedio, ad irretirne i dirigenti e gli aderenti, detta formazione si trova ad un bivio e può imboccare due strade opposte: la prima è quella di riconoscere la situazione di degrado interno e adottare tutti i rimedi possibili al fine di risalire la china; la seconda è quella di negare detta situazione e, magari, attaccare sul piano anche personale coloro che sono rimasti integri ed onesti e la denunciano, i quali in genere finiscono per essere considerati ‘oppositori interni’ [32].

In questa seconda ipotesi, soprattutto se la posta in gioco è molto alta, può entrare in scena il cd. ‘etichettamento’ dei denuncianti ovvero degli oppositori interni (integri ed onesti), procedendo alla diffusione sul loro conto di pettegolezzi, calunnie e insinuazioni, al fine di screditarli e farli apparire visionari o estremisti, complessati, amanti di protagonismo o addirittura al servizio del ‘nemico’ [33].

Orbene, gli strumenti analitici ed ermeneutici sopra menzionati, offerti dalla filosofa morale, aiutano a comprendere meglio la realtà e la condizione attuali dell’associazionismo giudiziario e di gran parte della magistratura italiana.

Invero diversi fatti, accaduti negli ultimi anni nell’ambito dell’associazionismo giudiziario e nel circuito del governo autonomo, possono trovare una plausibile spiegazione nelle degenerazioni del potere sopra stigmatizzate ovvero nelle logiche e prassi seguite per anni da una parte dei gruppi, da taluni loro leaders, da segmenti del ‘cerchio magico’ dei collaboratori scelti ed operanti nei distretti.

Una certa ‘miopia’ programmatica, la scarsa democraticità interna ad alcuni gruppi, l’io ‘mongolfiera’ di alcuni dirigenti, l’adozione di comportamenti ‘crepuscolari’ ovvero ambigui e scarsamente coerenti sul piano deontologico sono stati i fattori scatenanti di vicende, che hanno gettato discredito sui loro protagonisti e proiettato ombre ‘sinistre’ su parte della magistratura e dell’associazionismo giudiziario, determinando lo scivolamento verso improprie derive utilitaristiche, particolaristiche, corporative.

3- Proposte minimali per il rilancio dell’associazionismo giudiziario

La comprensione prismatica della realtà ci restituisce l’immagine di un associazionismo giudiziario tendenzialmente caratterizzato da oscillazioni tra introversione corporativa e proiezione politica esterna, da progettualità attente soprattutto alle urgenze del momento, da adesioni in parte liquide, frammentate, scarsamente coese, talvolta fondate più su aspettative personali che su obiettivi programmatici da perseguire.

Non sono mancate, però, analisi approfondite di fenomeni e situazioni, documenti programmatici di spessore, elaborazioni di proposte efficaci su diverse questioni riguardanti la giurisdizione.

In questo contesto, fatto di luci e ombre, i gruppi sono chiamati ad operare con coerenza e ad individuare con coraggio obiettivi chiari e percorsi anche innovativi, per uscire dal guado e tornare ad essere luoghi di elaborazione e formazione culturali per la magistratura e l’intera comunità italiana.

In altre parole, gran parte della magistratura è sollecitata ad operare una ‘ecologia integrale’ sul piano deontologico e professionale nella consapevolezza di operare in un contesto globalizzato, sistemico, comunitario, in cui i diversi ambiti e settori istituzionali, culturali e socio-economici sono strettamente connessi fra loro, sono vasi intercomunicanti di esperienze positive e negative, di criticità e punti di forza, di dinamiche virtuose e deleterie.

3.1 L’identità relazionale e narrativa dei gruppi

Oggi una vastissima area dell’associazionismo giudiziario afferma di ispirarsi ai principi costituzionali; infatti, quasi tutti i gruppi richiamano espressamente -nei rispettivi statuti e programmi- i principi consacrati nella Costituzione in materia di status del magistrato, esercizio della giurisdizione, rapporti con la società e le istituzioni democratiche.

Eppure i Gruppi, pur ispirandosi formalmente ad una comune tavola di principi fondamentali, li interpretano e li applicano in maniera differente nel momento in cui si imbattono in problematiche riguardanti il ‘settore giustizia’ ed elaborano possibili soluzioni; infatti, essi declinano hic et nunc i comuni principi in maniera diversa sul piano programmatico e operativo, ponendo in essere progetti e prassi spesso differenziati e talvolta addirittura di segno opposto.

Lo iato tra i principi fondamentali e la loro diversa mediazione storica nelle singole situazioni è ascrivibile in alcuni casi alle differenti sensibilità culturali e modalità di approccio alle questioni di volta in volta in rilievo, in altri casi al non omogeneo retroterra culturale di ciascuno, in altri casi ancora ai diversi esiti dell’ermeneutica volta al contemperamento fra più principi applicabili al caso concreto.

D’altro canto, è evidente che ciascun gruppo, nel momento in cui ritaglia ed enuncia una propria identità culturale, corre esso stesso il rischio sia di diventare un’entità ‘sacra e inviolabile’ ovvero una monade contrapposta ad altre in un alveo di rapporti gestiti in modo partigiano, sia di essere incapace di dialogare con le diversità e di elaborare analisi riflessive e risposte razionali.

Infatti, l’autocoscienza di appartenere ad un gruppo, a carattere fortemente identitario, potrebbe essere foriera sia di chiusure ‘a riccio’ volte a soddisfare le aspettative soltanto dei propri aderenti, sia dell’erezione di muri che impediscono il confronto con l’alterità e precludono possibili orizzonti programmatici comuni da perseguire mediante il dialogo e l’incontro, che necessariamente portano ad affrontare sfide comuni aperte e talvolta imprevedibili senza, però, rinunciare alle rispettive identità e, anzi, proiettandole in avanti oltre il proprio ‘orticello’.

Incontrarsi, dialogare, confrontarsi significa non negoziare per cercare di conquistare per sé una più ampia fetta di ‘potere’, bensì individuare e realizzare il bene comune per la magistratura e l’intera comunità civile secondo un processo di continua attuazione dei principi costituzionali.

Nel dialogo è altamente probabile il conflitto il quale va accettato, ma non ignorato né temuto o demonizzato; il conflitto va risolto, trasformandolo nella ricerca di nuove strade e nella costruzione di nuovi processi di trasformazione più rispondenti alle esigenze plurali del momento; in questo modo il confronto e la critica contribuiscono ad impedire che i singoli gruppi si rinserrino in ‘gabbie’ identitarie dal sapore ideologico.

In altre parole, l’identità di ciascun gruppo ha natura relazionale, perché viene definita non soltanto dagli ideali condivisi dai suoi aderenti, ma anche e soprattutto dalle relazioni instaurate con gli altri gruppi al fine di mediare quegli ideali in un determinato contesto storico; ed è chiaro che l’attuazione degli ideali, da parte di ciascun gruppo, implica sempre a monte una compiuta conoscenza delle problematiche in rilievo e l’individuazione di soluzioni efficaci ovvero postula una esaustiva analisi ‘poliedrica’ della realtà, che può essere maturata soltanto grazie ai contributi conoscitivi offerti da tutti i gruppi, perché la realtà precede e va oltre l’angolo visuale dei singoli gruppi.

La realtà eccede l’identità dei singoli gruppi e -per il suo incessante divenire e fluire- li proietta in dimensioni sempre nuove, in direzioni dinamicamente protese tra il già e il non ancora, sui binari di un treno che s’infila coraggiosamente nelle pieghe inedite della storia, cercando di comprenderne il senso, lo spessore, le criticità, i limiti, i punti di forza e di debolezza, i trascorsi, le aspettative future.

La realtà è più importante dell’idea, in quanto stimola a cambiare mentalità, ad affinare gli strumenti di analisi, ad innovare progetti, a rivedere posizioni e prospettive, ad intraprendere nuove traiettorie al fine di rivitalizzare e attuare hic et nunc i principi costituzionali, a sentirsi maggiormente responsabili sul piano morale, sociale ed istituzionale, allorquando si svolge l’attività giurisdizionale intesa quale processo decisionale con cui si contribuisce quotidianamente ad implementare, costruire e rafforzare l’assetto democratico del Paese e delle sue istituzioni.

La natura dinamica della realtà impone ai singoli gruppi non soltanto di confrontarsi con lealtà, correttezza e razionalità sui programmi e sulle iniziative da porre in essere, ma anche di avviare lungimiranti processi di cambiamento ab intra e ad extra anche nella stessa A.N.M., al fine di essere al passo coi tempi, affrontare l’inedito della storia, anticipare i possibili rischi sempre dietro l’angolo in una ‘società vulnerabile’, intercettare le nuove sensibilità ed esigenze che possono prepotentemente emergere fra i magistrati singoli ed associati e nella stessa comunità umana.

Ed in questi percorsi di rinnovamento, che certamente richiedono sforzi di non poco conto, l’identità dei singoli Gruppi è coinvolta in un vortice di potenti sollecitazioni che possono sfociare in serrati dibattiti interni ed esterni, in programmi operativi volti a rafforzare la cultura dei diritti e la responsabilità dei doveri, in coraggiose modifiche dello Statuto e dei regolamenti interni, nell’adozione di codici deontologici più chiari e stringenti, nell’implementazione di prassi e metodologie (interne ed esterne) più decisamente democratiche, in comportamenti più trasparenti e coerenti con gli ideali professati.

In tal senso, d’altronde, è il Parere n. 23/2020 del C.C.J.E. intitolato Il ruolo delle associazioni di giudici a sostegno dell’indipendenza della giustizia, in cui si afferma:

  1. […] Le associazioni di giudici dichiarano di agire a nome dei loro membri e di essere guidate da un sentire comune. Devono pertanto adottare una struttura democratica interna, assumere le decisioni e condurre le loro attività in maniera trasparente … i dirigenti dell’associazione (presidente, comitato esecutivo, altri) siano eletti in maniera democratica e non discriminatoria tra i membri ovvero da delegati eletti dai membri. Le decisioni del consiglio direttivo o di altri organi esecutivi devono essere trasparenti e motivate. Un dialogo aperto deve essere stabilito tra i membri e i dirigenti […] (nn. 62 e 63);
  2. […] Le associazioni di giudici devono essere strutturate in modo democratico. Finanziamento e processo decisionale devono essere trasparenti, almeno nei confronti dei loro membri […] (cfr. Paragrafo IX, Conclusioni e raccomandazioni, n. 11).

In questa prospettiva, pertanto, si può affermare che ogni gruppo ha anche una ‘identità narrativa’ nel senso che in ogni momento della sua evoluzione storica costruisce la propria identità, facendo tesoro dell’eredità del passato e nel contempo proiettandosi verso un futuro da pensare e costruire. 

Ma i processi di cambiamento in un gruppo, attesa la natura relazionale e narrativa della sua identità, non possono non incrociare l’alterità e perciò allacciare con gli altri gruppi rapporti, che vadano oltre l’indifferenza, l’antagonismo, il ripiegamento su se stessi, le chiusure pregiudiziali, le pretese di autosufficienza; occorre confrontarsi, dialogare, sforzarsi di trovare punti di contatto su terreni comuni, al fine di elaborare sintesi ideali e programmatiche in cui tutti possano riconoscersi quali protagonisti pubblici che -attraverso una comunicazione razionale, efficace, adeguata ai tempi- contribuiscono ad arricchire culturalmente la comunità, a focalizzare meglio i nodi problematici del ‘servizio giustizia’, a reperire soluzioni tempestive ed efficaci, a rendere più solide le basi della democrazia.

La tensione verso la sintesi programmatica si fonda sul fatto che la conoscenza e l’ermeneutica della realtà e l’individuazione delle soluzioni alle criticità possono essere più efficacemente perseguite, se i gruppi -ispirandosi ai comuni principi costituzionali- si ritrovino al tavolo dell’A.N.M. (a livello centrale e sezionale) e forniscano i rispettivi contributi secondo il proprio backgroud culturale ed esperienziale nella condivisa consapevolezza e responsabilità che il tutto è superiore alla parte e l’unità operativa è l’obiettivo da far prevalere sul conflitto.

La sintesi programmatica nell’A.N.M. (centrale e sezionale) non svilisce le identità dei singoli gruppi, perché essa presuppone proprio identità (relazionali e narrative) ben definite e riconoscibili ex ante.

D’altronde, la natura relazionale e narrativa dell’identità dei singoli gruppi postula proprio uno scambio biunivoco tra ciò che un gruppo può offrire agli altri gruppi e ciò che da questi riceve in termini culturali ed esperienziali; ed in questa corrispondenza reciproca, il perseguimento della sintesi tra le diverse posizioni -in sede di A.N.M. centrale e sezionale- da un lato amplia gli orizzonti culturali e progettuali di ciascun gruppo, dall’altro ne costituisce un potente motore di rinnovamento interno [34].

Nei crocicchi del pluralismo culturale germogliano le spinte al rinnovamento e alla costruzione creativa di nuove strade, che possono porre l’associazionismo giudiziario nelle condizioni migliori per affrontare le urgenze e le sfide del presente: riforma dell’ordinamento giudiziario; modifica della legge elettorale del C.S.M.; snellimento e accorciamento dei tempi del processo civile, penale, amministrativo e tributario; estesa depenalizzazione; copertura dei vuoti negli organici del personale amministrativo.

3.2 Il giudice ‘costituzionale’

In un contesto sociale liquido e magmatico sul piano assiologico e relazionale, frammentato ed a coriandoli sotto il profilo religioso culturale ed etico, fragile e vulnerabile, esposto a rischi di varia natura, dominato dai social networks, pervaso da innumerevoli fake news, propenso più al ‘surfismo’ esperienziale che all’approfondimento di tematiche e situazioni, anche l’associazionismo giudiziario negli ultimi decenni ha subito una trasformazione così profonda da modificarne le sue caratteristiche e connotazioni fondamentali.

Si è in presenza non di un’epoca di cambiamento, bensì di un cambiamento d’epoca, di cui hanno risentito i gruppi vecchi e nuovi dell’associazionismo giudiziario, i quali talvolta sembrano arrancare alla ricerca di nuovi percorsi, contenuti, modalità e strumenti all’altezza delle sfide del tempo.

In questa fase storica, l’associazionismo giudiziario è sollecitato ad individuare i punti fermi, cui ispirarsi per sviluppare nuove elaborazioni culturali e per intraprendere nuovi percorsi.

E questi punti fermi sono proprio i principi costituzionali e la loro mediazione storica elaborata dal C.C.J.E. nel Parere del 27 novembre 2020 n. 23.

3.2.1 Autonomia e indipendenza

Una prima rilevante previsione costituzionale è quella, secondo cui la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere (art. 104, comma 1).

La rivitalizzazione di questo principio costituzionale nel tempo attuale può avvenire secondo i binari tracciati dal C.C.J.E. in detto Parere n. 23/2020, circondando la giurisdizione di un adeguato reticolo di garanzie volte a tutelare ciascun magistrato da critiche ingiuste e attacchi strumentali, da possibili tentativi di interferenze esterne provenienti da ambiti politici ed economico-finanziari sull’attività giurisdizionale e sulla nomina, promozione, trasferimento, procedimenti disciplinari e valutazioni professionali dei magistrati, nonché in genere sull’attribuzione di incarichi anche extragiudiziari.

E’ chiaro, però, che con le altre istituzioni vanno implementate e consolidate interlocuzioni efficaci e continue soprattutto attraverso gli organi centrali e sezionali dell’A.N.M., al fine di coinvolgerle nella risoluzione delle problematiche che affliggono il ‘servizio giustizia’; si precisa, tuttavia, che […] le associazioni di giudici devono astenersi dall’intervenire su temi controversi sul piano politico che non hanno attinenza con i loro obiettivi […] (C.C.J.E., Parere n. 23/2020, n. 42) nella consapevolezza che l’operato dei singoli magistrati e dell’A.N.M. debba conformarsi al principio di divisione e di equilibrio tra i diversi poteri, di cui vanno rispettate le attribuzioni, le prerogative e le competenze.

L’autonomia e indipendenza di ciascun magistrato vanno assicurate anche all’interno degli stessi uffici giudiziari rispetto ad eventuali tentativi di interferenza posti in essere da coloro che li dirigono, dai colleghi, dagli stessi organi del governo autonomo che devono essere impermeabili a possibili rischi di ‘politicizzazione’ delle loro attività e, anzi, costituiscono presidi a tutela dell’indipendenza di tutti i giudici da qualsiasi interferenza; in particolare, per quanto concerne gli uffici requirenti, appare necessario rivedere il potere gerarchico attribuito nel corso degli ultimi 15 anni ai procuratori capo per quanto concerne l’ampia discrezionalità sul piano anche organizzativo.

Dai principi di autonomia e indipendenza discende il dovere di terzietà e imparzialità del giudice, che è alla base delle cause di astensione obbligatoria e facoltativa previste dalla normativa processuale civile e penale, nonché delle disposizioni normative sui limiti della responsabilità civile e in materia di incompatibilità e inamovibilità.

Peraltro, l’attuazione di detti principi costituzionali passa attraverso il riconoscimento, in favore di ciascun magistrato, di una remunerazione adeguata e di una effettiva sicurezza sociale, nonché l’attribuzione di risorse sufficienti per il funzionamento degli uffici giudiziari e la garanzia di soddisfacenti condizioni di lavoro.

Ma i principi costituzionali dell’autonomia e indipendenza determinano restrizioni e limiti molto invasivi per quanto riguarda la vita pubblica e privata di ciascun magistrato; infatti, al magistrato è fatto divieto di iscriversi o semplicemente apparire vicino ad un partito politico, aderire a sodalizi occulti, esprimere le proprie opinioni su attività investigative e/o processi in corso, assumere pubblicamente posizioni su tematiche politiche che non riguardano la giurisdizione e il ‘servizio giustizia’. In generale il magistrato deve avere il dovuto riserbo -in ufficio e nella vita privata- sull’attività giurisdizionale svolta, attenendosi alle norme di rango primario e secondario e alle regole deontologiche, che disciplinano i rapporti con i mass media.

In definitiva, i principi dell’autonomia e dell’indipendenza sono figli della strutturazione policentrica dei poteri nelle democrazie costituzionali caratterizzate, appunto, dalla divisione tra potere legislativo, esecutivo e giudiziario; e la funzione giurisdizionale -volta a tutelare i diritti, rendere esigibili i doveri e gli obblighi, perseguire gli illeciti penali e civili perpetrati- contribuisce in maniera decisiva ad implementare, innervare e rafforzare ogni giorno la democrazia costituzionale nel tessuto culturale, istituzionale, sociale, economico e finanziario della comunità.

3.2.2 Il giudice naturale e l’organizzazione dell’ufficio

Un secondo ‘grappolo’ di principi costituzionali comprende le previsioni sulla predeterminazione del giudice naturale (art. 25, comma 1) e sull’organizzazione degli uffici giudiziari secondo i criteri del buon andamento e dell’imparzialità (art. 97, comma 2).

Il principio della previa individuazione del giudice naturale viene attuato mediante sia specifiche previsioni normative di rango primario concernenti il riparto della giurisdizione e della competenza (funzionale, per territorio, per valore) fra i diversi organi giudiziari, sia l’adozione di apposite circolari con cui il C.S.M. delinea la normativa di dettaglio in materia tabellare per gli uffici giudicanti e organizzativa per gli uffici requirenti.

Il cd. ‘diritto tabellare’ ha acquisito nel corso degli ultimi quattro decenni una funzione ed un peso molto rilevanti per gli uffici giudiziari e per ciascun magistrato, in quanto è finalizzato non soltanto ad implementare e rendere effettivo il principio costituzionale della predeterminazione del giudice naturale, ma anche ad eliminare del tutto -nell’assegnazione degli affari giurisdizionali- gli ampi margini di discrezionalità, di cui un tempo godevano i capi degli uffici giudiziari conformemente a quella concezione gerarchica, che pervadeva la magistratura e caratterizzava gli uffici giudiziari in epoca liberale, sotto il regime fascista e nei primi circa due decenni della Repubblica.

Inoltre le ‘tabelle’ degli uffici giudicanti ed i ‘progetti organizzativi’ degli uffici requirenti sono potenti strumenti di organizzazione del lavoro giudiziario e costituiscono delle leve efficaci e trasparenti, per assicurare l’autonomia, l’indipendenza e l’imparzialità del singolo magistrato rispetto a possibili ‘pressioni’ e ‘influenze’ interne ed esterne al suo ufficio, nonché per perseguire gli obiettivi del buon andamento, tempestività, efficacia ed efficienza dell’attività giurisdizionale.

Infine, l’abbandono della visione piramidale dell’ordine giudiziario ha comportato l’adesione al principio partecipativo che connota le democrazie costituzionali, secondo cui l’organizzazione tabellare della giurisdizione deve essere oggetto di apposite previe interlocuzioni con i magistrati ed il personale amministrativo dell’ufficio, l’avvocatura, il corrispondente ufficio requirente; anche la gestione del personale amministrativo e l’organizzazione dei servizi di cancelleria/segreteria devono essere oggetto di previa interlocuzione con le organizzazioni sindacali.   

3.2.3 Lo status giuridico del magistrato

Un terzo grappolo di principi costituzionali delinea lo status dei magistrati, i quali sono soggetti soltanto alla legge (art. 101, comma 2) e si distinguono soltanto per diversità di funzioni (art. 107, comma 3).

L’attuazione in concreto di questi due principi -a livello di normativa primaria e secondaria- è il frutto di un processo storico molto lento e faticoso; infatti, ci sono voluti circa due decenni, perché la gran parte della magistratura associata vi aderisse e il legislatore li attuasse.

Invero, come si è evidenziato, l’ordine giudiziario e la magistratura associata -in epoca liberale, sotto il regime fascista e sino alla metà degli anni ‘60- erano strutturati secondo uno schema piramidale, al cui vertice c’erano i giudici cassazionisti (‘alta magistratura’), i quali nel contempo ricoprivano gli incarichi apicali nell’A.G.M.I. e successivamente nell’A.N.M., erano sovra rappresentati e costituivano la maggioranza togata nel C.S.M., componevano le commissioni di esame preposte a valutare chi aspirava ai gradi superiori (aggiunto giudiziario, magistrato di tribunale, d’appello, di cassazione).

Inoltre, la stessa funzione nomofilattica, riconosciuta per legge alla Corte di Cassazione, era valorizzata come espressione piena e fattore giustificativo della struttura verticistica dell’ordine giudiziario.

Questa struttura piramidale era per la prima volta efficacemente messa in discussione con le mozioni finali e con il rinnovo dei quadri dirigenziali deliberati dall’A.N.M. al Congresso di Napoli (1957), allorquando per la prima volta al vertice dell’Associazione venivano eletti magistrati non cassazionisti, determinando di lì a poco la fuoriuscita dalla stessa A.N.M. di quasi tutti gli appartenenti alla cd. ‘alta magistratura’, che fondavano l’U.M.I..

Nei successivi Congressi e soprattutto in quello di Gardone (1965), l’A.N.M. ha sempre stimolato il processo di rinnovamento culturale e di modifica della normativa sull’ordinamento giudiziario, contribuendo così in maniera decisiva a rivedere -dalle fondamenta- la conformazione gerarchica dell’ordine giudiziario e ad attuare in maniera piena i due principi costituzionali in parola.

Quest’opera di impulso dell’A.N.M., verso il radicale rinnovamento sul piano ordinamentale e culturale, ha avuto come esito l’introduzione di molteplici disposizioni normative realmente innovative.

Invero, i criteri per l’elezione della componente togata del C.S.M. sono stati oggetto dei seguenti plurimi interventi normativi succedutisi nel corso dei decenni:

  • con il d.P.R. del 16 settembre 1959 n. 916, che ha trovato applicazione a tutte le elezioni svoltesi sino al 1968, si prevedeva che i magistrati appartenenti ai diversi livelli eleggessero separatamente i propri rappresentanti e, però, si assicurava ai magistrati dei gradi più alti la sovra rappresentazione nel C.S.M. tant’è che i magistrati di tribunale (livello più basso) -pur essendo poco meno del 70% dell’intero corpo elettorale- eleggevano soltanto 4 consiglieri;
    • con la legge del 17 dicembre 1967 n. 1198 si modificava detta normativa nel senso che, pur conservando la sovra rappresentazione dei magistrati dei gradi superiori, veniva eliminato il voto separato per i diversi livelli di carriera, sicché i magistrati dei gradi più bassi -essendo più numerosi rispetto agli altri- erano messi di fatto nelle condizioni di determinare l’elezione dei rappresentanti dei gradi più alti.

Successivamente la legge sull’elezione della componente togata del C.S.M. è nuovamente modificata nel senso che prima si introduce il voto sulla base di un Collegio Unico Nazionale e con sistema proporzionale a liste contrapposte; poi si elimina il criterio proporzionale con liste contrapposte e si introduce il voto singolo per ciascuno dei tre distinti Collegi Nazionali: un Collegio per i magistrati di cassazione, uno per la magistratura requirente, uno per la magistratura giudicante.

Per quanto concerne la progressione in carriera, nella normativa in vigore sino agli inizi degli anni “60 si prevedeva che le donne non potessero partecipare al concorso in magistratura e nessun magistrato potesse esercitare funzioni diverse, più o meno elevate, rispetto a quelle corrispondenti al livello di carriera raggiunto (sistema a ruoli chiusi).

In particolare, il magistrato agli inizi della carriera poteva svolgere le funzioni di pretore e -dopo due anni- doveva superare un apposito esame scritto ed orale per essere promosso ad ‘aggiunto giudiziario’. Poi doveva cercare di farsi trasferire in uffici giudiziari più grandi, al fine di essere messo nelle condizioni di redigere provvedimenti giurisdizionali di rilevanza dottrinale, che avrebbe potuto presentare in sede di concorso per l’accesso al livello superiore; se risultava idoneo, era inserito in un’apposita graduatoria di merito insieme agli altri magistrati idonei sino alla concorrenza dei posti messi a concorso, sicché tutti gli idonei ‘non promossi’ avrebbero dovuto presentarsi al concorso successivo per accedere al livello superiore agognato.

Questo sistema -sotto l’impulso della Corte Costituzionale che con la sentenza n. 33/1960 dichiarava parzialmente illegittimo l’art. 7 della legge n. 1176/1919 nella parte in cui escludeva le donne da tutti gli uffici preposti all’esercizio di poteri pubblici- è stato innovato prima con la legge 9 febbraio 1963 n. 66 con cui si prevede la possibilità anche per la donna di partecipare al concorso in magistratura; poi con le leggi n. 570/1966 (cd. ‘Breganze’) e n. 831/1973 (cd. ‘Breganzone’), con cui si è modifica la normativa sulla promozione a magistrato di appello e di cassazione, prevedendosi che:

  1. le valutazioni professionali -ai fini della promozione a livelli superiori- devono essere rigorose, ma spettano non a commissioni formate da magistrati cassazionisti, bensì al C.S.M. previa acquisizione del parere del competente consiglio giudiziario e del rapporto del capo dell’ufficio;
  2. sono aboliti gli artt. 132 e 135 R.D. n. 12/1941, in cui si stabiliva che la promozione ad ‘aggiunto giudiziario’ poteva essere conseguita soltanto col superamento di un apposito esame orale e scritto da sostenersi dopo almeno due anni dal reclutamento e che il mancato superamento -per due volte- di detto esame determinava la dispensa dal servizio;
  3. il numero dei magistrati promossi ai livelli superiori può essere anche maggiore del numero delle vacanze, con la conseguenza che i magistrati dichiarati idonei in eccedenza possono coprire in seguito i posti appena questi si rendano liberi (‘sistema a ruoli aperti’).

Tuttavia, sino al 1977 sopravvivono i limitati ‘concorsi per esame’ per accedere ai livelli di magistrati di appello e di cassazione ed al grado direttivo superiore; poi, con la legge n. 97/1979 si abolisce la qualifica di ‘aggiunto giudiziario’.

Inoltre, i titoli, le requisitorie e i provvedimenti giurisdizionali, che prima costituivano elementi valutabili ai fini dell’accesso ai gradi superiori, non lo sono più nel nuovo sistema di progressione in carriera basato sul criterio della ‘anzianità senza demerito, secondo cui la promozione al livello superiore e l’attribuzione di un più elevato trattamento economico -sempreché non si sia riportata una sanzione disciplinare- sono riconosciuti tout court,:

  • dopo 2 anni (5 anni sino al 1979 poi ridotti a tre) di esercizio delle funzioni per la promozione a magistrato di tribunale;
  • dopo 13 anni di esercizio delle funzioni per la promozione a magistrato d’appello;
  • dopo 20 anni di esercizio delle funzioni per la promozione a magistrato di cassazione;
  • dopo 28 anni di esercizio delle funzioni per la promozione a magistrato di cassazione con incarichi direttivi superiori.

In questo quadro normativo di nuovo conio, si prevede che il magistrato -anche dopo la promozione ai livelli superiori- può continuare a svolgere funzioni di grado inferiore, ma in ogni caso percepisce il più elevato trattamento economico corrispondente al livello superiore raggiunto; inoltre gli incarichi direttivi e semidirettivi sono a tempo indeterminato nel senso che coloro, che li ricoprono, sono inamovibili sino a quando non loro stessi chiedano di essere trasferiti ad altra sede.

La normativa ordinamentale viene ancora innovata negli anni 2006-2007 con i dd. lgs. n. 25/2006, n. 26/2006 e n. 160/2006 e con la legge n. 111/2007, con cui si introducono le valutazioni quadriennali di professionalità per un totale di sette e l’esercizio a tempo determinato (4 anni con possibilità di conferma per ulteriori 4 anni) delle funzioni direttive e semidirettive. 

Ora, all’esito di questa sintetica carrellata storica delle tappe salienti che hanno segnato il percorso di revisione del sistema della progressione in carriera, si può affermare che l’A.N.M. dal 1957 in poi -con i suoi congressi e le sue mozioni finali, le interlocuzioni avute con le commissioni parlamentari e con l’esecutivo, con i numerosi interventi svolti in diverse sedi istituzionali, con i molteplici documenti emanati- ha saputo anticipare e quasi accompagnare lo stesso legislatore lungo la strada della progressiva presa di coscienza della necessità di abolire la vecchia conformazione gerarchica dell’ordine giudiziario basata sull’ormai obsoleta distinzione tra ‘alta’ e ‘bassa’ magistratura, contribuendo così a rimodellare l’architettura del ‘servizio giustizia’ secondo i principi della democrazia costituzionale.

Il raggiungimento di questi obiettivi è stato possibile grazie all’approvazione ed entrata in vigore nel 1948 della Costituzione in cui sono enunciati i due principi, secondo cui i giudici sono soggetti soltanto alla legge da interpretare e applicare al caso concreto e si distinguono fra loro soltanto per la diversità delle funzioni esercitate senza alcun vincolo gerarchico.

Se a ciò si aggiungano il rilevante peso progressivamente assunto dal ‘diritto tabellare’ nel corso degli anni e il riconoscimento a ciascun giudice (monocratico o collegiale) del potere ‘diffuso’ di sollevare questioni di legittimità costituzionale in ordine a disposizioni di legge, si comprende bene che attualmente l’ordine giudiziario e l’esercizio stesso della giurisdizione sono informati ai più ampi criteri di democrazia e di partecipazione attiva in conformità al disegno tracciato nella Costituzione.

Tuttavia, non va sottaciuto il serio rischio che la vecchia divaricazione tra ‘alta’ e ‘bassa’ magistratura e la tendenza alla gerarchizzazione degli uffici giudiziari (soprattutto requirenti) si ripresentino oggi sotto le ‘mentite spoglie’ della distinzione tra i pochi magistrati con incarichi direttivi e tutti gli altri magistrati.

In ogni caso, per quanto riguarda l’associazionismo giudiziario, va decisamente apprezzata la svolta impressa dall’A.N.M. sin dal Congresso di Napoli del 1957 e gli sforzi successivamente profusi, al fine di favorire la più ampia partecipazione e il più vasto coinvolgimento di base dei magistrati nella vita associativa e nell’elezione alle cariche di maggiore responsabilità negli organismi centrali e sezionali; anzi, al fine di evitare oggi l’accentramento di poteri e la rinascita di forme gerarchiche simili –mutatis mutandis– a quelli esistenti nell’A.N.M. sino al 1957, appare necessario introdurre nello Statuto un’apposita disposizione in cui si preveda che il magistrato, qualora ricopra un incarico direttivo di ufficio giudiziario, non possa candidarsi alle elezioni per il C.D.C. e per la G.E.S..

Inoltre, al fine di impedire la formazione di oligarchie e di ‘cerchi magici’ all’interno dei gruppi, appare urgente che ogni gruppo proceda -qualora non sia stato già fatto- a rivedere lo Statuto e il Regolamento interni secondo il principio partecipativo enunciato dal C.C.J.E. nel Parere n. 23/2020 (nn. 62 e 62).

In altre parole, ciascun gruppo è sollecitato ad operare concretamente al suo interno al fine di dotarsi di una struttura autenticamente democratica, ampliando seriamente gli spazi di democrazia interna mediante l’attribuzione di maggiori e più incisivi poteri all’assemblea degli iscritti [35], tutelando e rispettando effettivamente le eventuali minoranze, implementando prassi e regole che assicurino un reale e trasparente dibattito interno (anche autocritico) sulle questioni di volta in volta in rilievo, nell’interesse superiore del ‘servizio giustizia’ e nel lungimirante e profetico perseguimento del bene comune per la comunità italiana ed europea e per le sue istituzioni democratiche, rigettando ogni tipo di ‘gabbia’ ideologica e corporativa e tenendo sempre ben presente la prospettiva assiologia tracciata nella Costituzione e nel Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007 (entrato in vigore nel 2009).

In questo modo si possono adeguatamente governare le dinamiche del potere e fronteggiare i rischi ‘crepuscolari’ (sempre in agguato) delle sue possibili degenerazioni: ambiguità di prassi e programmi, autoreferenzialità, fragilità e vulnerabilità sul piano morale ed etico, sete di potere, brama di profitto, carrierismo, senso di onnipotenza quale manifestazione vulnerabile e precaria dell’io ‘mongolfiera’.

Per questa via, certamente impegnativa ed esigente, anche l’A.N.M. -quale formazione sociale intermedia- può dare un decisivo contributo al rafforzamento delle istituzioni nazionali ed europee nella consapevolezza che […] la democrazia è qualcosa di più di un insieme di regole: è un continuo processo in cui si cerca la composizione possibile delle aspirazioni e dei propositi, nella consapevolezza della centralità delle persone, più importanti degli interessi. In questo cammino un ruolo fondamentale lo giocano i partiti, le forze sociali, i soggetti della società civile. A volte le istituzioni sembrano fragili, esposte a sfide inedite … L’Europa è il compimento del destino nazionale. E’ luogo e presidio di sovranità democratica […] [36].

3.2.4 Profili deontologici

Un terzo principio costituzionale, di estrema rilevanza, è quello secondo cui ciascun giudice deve adempiere le funzioni con disciplina ed onore (art. 54, comma 2 Cost.).

In questa previsione costituzionale, che peraltro si applica a chiunque svolga funzioni pubbliche, si prevede il dovere di rispettare non soltanto la normativa primaria e secondaria relativa ai singoli ambiti in cui si svolgono dette funzioni, ma anche le norme deontologiche che sono contenute in appositi codici o atti e disciplinano i comportamenti pubblici e privati di chi ricopre le funzioni in parola; trattasi di criteri che concernono il ‘dover essere’ ovvero il modello ideale per tutti coloro che sono preposti all’esercizio di una funzione pubblica.

E’ indubbio che negli ultimi decenni la ‘questione morale’ ha investito pressoché tutti gli ambiti della convivenza civile: giudiziario, politico, religioso, imprenditoriale, bancario, sanitario, economico-finanziario, culturale, sociale, istruzione ad ogni livello, amministrazione pubblica, privato sociale, etc..

La riscoperta, l’elaborazione e la valorizzazione dei codici etici sono state al centro dell’attenzione di moltissime istituzioni pubbliche e private; numerosi sono i corsi di formazione deontologica programmati ed attuati da enti pubblici e organismi privati per i propri dipendenti.

Negli ultimi anni anche per i magistrati sono stati progettati corsi e seminari di deontologia, al fine di sollecitare la maturazione di condotte conformi ai doveri e ai limiti, che connotano la funzione giurisdizionale e la vita privata di chi la svolge.

In altri termini, non sono sufficienti leggi e decreti per cambiare prassi e comportamenti disonorevoli e indecorosi, ma occorrono anche cammini formativi finalizzati a far maturare una maggiore e più diffusa consapevolezza della necessità del cambiamento verso obiettivi comuni, a suscitare nelle coscienze il desiderio di perseguire progetti grandi e alti, a stimolare l’impegno disinteressato e il sacrificio per la coerenza, la trasparenza e il bene comune.

E’, pertanto, illusoria la […] rappresentazione che un intervento sul sistema elettorale del C.S.M. possa di per sé offrire una definitiva soluzione alle criticità che stanno interessando la magistratura italiana, le quali attingono invero a un sostrato comportamentale e culturale che nessuna legge da sola può essere in grado di sovvertire […] [37].   

D’altronde, lo stesso C.C.J.E. nel Parere n. 23/2020 afferma chiaramente che, tra gli attuali obiettivi prioritari dell’associazionismo giudiziario, […] figurano la formazione dei giudici, la deontologia dei giudici […] (n. 9), aggiungendo poi che:

  1. è necessario […] elaborare, promuovere e mettere in opera norme deontologiche […] (n. 17);
  2. […] i principi deontologici della condotta professionale devono essere elaborati dai giudici stessi […] (n. 34 in cui si richiamano i paragrafi nn. 48 e 49 del Parere n. 3/2002 del C.C.J.E. e la Raccomandazione n. 12/2010);
  3. le […] associazioni di giudici possono altresì svolgere un ruolo importante per quanto riguarda la formazione e la deontologia dei giudici […] (Paragrafo IX, n. 5).

In definitiva i fenomeni della fragilità etica, della vulnerabilità e permeabilità al carrierismo e al correntismo, che sono prepotentemente emersi negli ultimi tempi, possono essere fronteggiati o almeno ridimensionati mediante non soltanto la riforma dell’ordinamento giudiziario e della legge elettorale del C.S.M., ma soprattutto un adeguato investimento di risorse, energie e tempo nella formazione culturale e deontologica dei magistrati; a questo compito sono chiamati l’A.N.M. e i singoli gruppi che ne fanno parte, oltre che naturalmente la stessa Scuola Superiore della Magistratura.

3.2.5 L’interazione con la società

Il C.C.J.E. nel Parere n. 23/2020 (nn. 44-46) evidenzia la necessità chel’associazionismo giudiziario non si chiuda nella campana di vetro del suo sapere specialistico, ma interagisca con l’insieme della società, impegnandosi:

  1. ad informare i media e il grande pubblico sul lavoro e sulle priorità del ‘servizio giustizia’, compresi i doveri ed i poteri dei magistrati, il ruolo del potere giudiziario e degli altri poteri;
    1. a favorire le relazioni e la conoscenza tra la realtà giudiziaria e la comunità mediante programmi educativi sul funzionamento degli uffici giudiziari, supporti pedagogici, giornate “porte aperte” dei palazzi di giustizia, dibattiti pubblici, conferenze, iniziative mediatiche pro-attive, collaborazioni su determinati obiettivi con organizzazioni senza scopo di lucro; in genere programmi di sensibilizzazione su problematiche riguardanti il ‘servizio giustizia.

[1] L’A.G.M.I., dagli originari 44 soci fondatori, passa a 1.700 aderenti nel 1911 ed a 2.067 aderenti nel 2014 su un totale di magistrati pari a poco più di 4.000, radicandosi soprattutto nella magistratura cd. ‘minore’.

[2] Sulla storia dell’associazionismo giudiziario: A. MENICONI, Storia della magistratura italiana, Il Mulino 2012; E. R. PAPA, Magistratura e politica. Origini dell’associazionismo democratico nella magistratura italiana (1859-1913), Padova, Marsilio 1973; V. VENTURINI, Un “sindacato” di giudici da Giolitti a Mussolini. L’Associazione generale tra i magistrati italiani 1909-1926, Il Mulino 1987.

[3] Sulla storia del Consiglio Superiore della Magistratura, V. A. TORRENTE, Consiglio Superiore della Magistratura, in Enciclopedia del diritto, Milano, Giuffrè, IX, 1961, 328. In questa sede si dà atto che con la legge del 14 luglio 1907 n. 511 è istituito il Consiglio Superiore della Magistratura, il quale è composto soltanto da magistrati della Corte di Cassazione centrale aventi grado non inferiore a quello di Presidente della Corte d’Appello; ha competenze deliberative in materia di promozioni e consultive sulla nomina a magistrati di avvocati e professori, ammissioni e riammissioni, trasferimenti d’ufficio, passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa; non ha competenze in materia disciplinare che spettano -in virtù della legge 24.7.1908 n. 438- ai Consigli di disciplina e alla Corte Suprema disciplinare composta da sei senatori.

[4] Dall’intervista al Guardasigilli, V. E. Orlando, pubblicata sul Corriere d’Italia il 23 agosto 1909.

[5] In tema: G. CANZIO, Le leggi antiebraiche e il ceto dei giuristi, pag. 41; G. NEPPI MODONA, La magistratura e le leggi antiebraiche del 1938, pag. 87; e P. MOROSINI, P. SERRAO d’AQUINO, O. MONACO, La Magistratura nel Ventennio: l’involuzione ordina mentale e i suoi protagonisti, pag. 53, in A. MENICONI – M. PEZZENTI (a cura di) in Razza e inGiustizia. Gli avvocati e i magistrati al tempo delle leggi antiebraiche, edito dall’Istituto Poligrafico dello Stato nel 2018 per conto del C.S.M., C.N.F., Senato della Repubblica, Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

[6] Fra i tanti, si menziona -ad esempio- il giudice Gaetano Azzariti il quale nel 1905 entra in magistratura, nel 1919 è segretario particolare del Ministro Guardasigilli, dal 1938 al 1943 è Presidente del ‘Tribunale della Razza’, dal 1928 al 1943 ricopre l’incarico di Direttore dell’Ufficio Legislativo del Ministero di grazia e giustizia, coopera alla riforma del codice civile e di procedura civile, negli anni 1943-1944 diventa Ministro Guardasigilli nel primo governo Badoglio, dal 1944 al 1946 presta servizio presso l’Ufficio Legislativo anche come consulente del Ministro Guardasigilli Togliatti, nel 1949 è nominato Presidente del Tribunale Superiore delle Acque, nel 1955 è nominato dal Presidente della Repubblica giudice della Corte Costituzionale, ricoprendone l’incarico di Presidente dal 1957 al 1961. Ma si possono ricordare anche i magistrati Ernesto Eula, Giuseppe Lampis, Antonio Manca, Luigi Oggioni, Giovanni Petraccone (da G. NEPPI MODONA, La magistratura e le leggi antiebraiche del 1938, op. cit., 92 e ss.).

[7] Lo ‘spartiacque’ storico tra modello di ‘giudice burocrate’ e modello di ‘giudice costituzionale’ si ha con il Congresso dell’A.N.M. tenutosi a Gardone nel 1965, il quale rappresenta il vero momento di discontinuità rispetto al passato; ma già durante il Congresso dell’A.N.M., tenutosi a Napoli il 1957, si gettano le basi di questa epocale rivoluzione culturale.

[8] M. CARTABIA, Linee programmatiche sulla giustizia, 2021, par. n. 7.

[9] Il sistema tabellare, che ha i suoi prodromi in una Risoluzione del 1969 e nella Circolare n. 5520/1977 emanate dal C.S.M., è disciplinato prima dalla legge n. 532/1982 e poi dalla legge n. 479/1987, al fine di dare attuazione al principio del giudice naturale precostituito ex lege sancito dall’art. 25, comma 1 Cost. e, conseguentemente, limitare la discrezionalità dei capi degli uffici e tutelare l’indipendenza dei singoli magistrati all’interno dell’ufficio.

[10] Infatti la Corte di Cassazione a SS.UU. con la storica sentenza del 7 febbraio 1948 distingue le norme Costituzionali fra ‘programmatiche’ e ‘precettive’, precisando che le prime -contrariamente alle seconde- non sono immediatamente applicabili. Inoltre i vertici della Corte di Cassazione criticano la Corte Costituzionale, in quanto questa pretende di svolgere un ruolo politico, allorquando ritiene di sottoporre a giudizio di legittimità anche le leggi emanate prima dell’entrata in vigore della Costituzione; in tema: G. COLLI, La funzione del giudice nella società contemporanea, in Rassegna dei magistrati, 1972.

[11] Documento approvato all’unanimità dal C.D.C. dell’A.N.M. il 13 luglio 2002.

[12] Eric J. HOBSBAWM, Il secolo breve. 1914-1991, Bur 2014.

[13] In tal senso EURISPES, Rapporto Italia 2020.

[14] S. LATORRE, Le “Fake News” al tempo della pandemia, in www.lamagistratura.it 12 ottobre 2021.

[15] G. DE RITA, Prigionieri del degrado, in Corriere della Sera 17 febbraio 2011. In tema: Z. BAUMAN, Il buio del postmoderno, Aliberti 2011; ID., Vite di corsa. Come salvarsi dalla tirannia dell’effimero, Il Mulino 2009.  

[16] Z. BAUMAN, Futuro liquido. Società, uomo, politica e filosofia, Albo Versorio 2014; ID., Modernità liquida, Laterza 2011; ID., Modernità e ambivalenze, Bollati Borighieri 2010.

[17] G. MASTROPASQUA, L’associazionismo giudiziario: criticità e prospettive, in www.unicost.eu

[18] A. BARICCO, I barbari. Saggio sulla mutazione, Fandango Libri 2006.

[19] U. BECK, La società globale del rischio, Asterios 2018; ID., La società del rischio. Verso una seconda modernità, Carocci 2013; ID., I rischi della libertà. L’individuo nell’epoca della globalizzazione, Il Mulino 2012; ID., Conditio humana. Il rischio nell’età globale, Laterza 2011.

[20] EURISPES, Rapporto Italia 2020, cit.. In tema: Z. BAUMAN – E. MAURO, Babel, Laterza 2015; Z. BAUMAN, La società dell’incertezza, Il Mulino 2014.

[21] J. MACLURE – C. TAYLOR, La scommessa del laico, Laterza 2013.

[22] F. CASSANO, L’umiltà del male, Laterza 2012.

[23] P. ORTOLEVA, Miti a bassa intensità. Racconti, media, vita quotidiana, Einaudi 2019.

[24] E. THACKER, Tra le ceneri di questo pianeta, Produzione Nero 2019; A. WEISMAN, Il mondo senza di noi, Einaudi 2017; E. KOLBERT, La sesta estinzione, Beat 2016.

[25] ARISTOTELE, Politica, 1252b 28; ID., Etica Nicomachea, 1094b 8, 1095a, 1097a-b.

[26] R. D’AMBROSIO, Istituzioni, persone e potere, Rubettino 2004, 112 e ss., che richiama G. RITTER, Il volto demoniaco del potere, Il Mulino 1997.

[27] R. D’AMBROSIO, Il potere e chi lo detiene, Edizioni Dehoniane 2008, 83 e ss.; ID., Istituzioni, persone e potere, op. cit., 195 e ss..

[28] R. D’AMBROSIO, Il potere e chi lo detiene, op. cit., 112 e ss..

[29] R. D’AMBROSIO, Il potere e chi lo detiene, op. cit., 130 e ss..

[30] R. D’AMBROSIO, Il potere e chi lo detiene, op. cit., 151 e ss..

[31] R. D’AMBROSIO, Il potere e chi lo detiene, op. cit., 155 e ss..

[32] R. D’AMBROSIO, Istituzioni, persone e potere, op. cit., 163.

[33] R. D’AMBROSIO, Istituzioni, persone e potere, op. cit., 164.

[34] Nel Parere n. 23/2020 del C.C.J.E. si rimarca: […] Se vi è più di una associazione di giudici nell’ambito del sistema giudiziario, ciascuna può avere una posizione differente riguardo ad alcuni problemi comuni. Se il pluralismo arricchisce il dibattito democratico sulla giustizia, il CCJE valuta positivamente la ricerca di una posizione comune sulle questioni di rilievo al fine di avere un significativo impatto sugli altri attori all’interno e all’esterno del sistema giudiziario […] (n. 53).

[35] In particolare, come deliberato dal Gruppo Unità per la Costituzione all’esito del percorso di rifondazione avviato a settembre 2019 e conclusosi a luglio 2021, l’Assemblea degli iscritti -per Statuto interno- è il fulcro e il cardine della vita e dell’operato del Gruppo, perché l’Assemblea adotta le deliberazioni più importanti, ne elegge il Presidente ed i due Segretari, nomina coloro che ricoprono le cariche più rilevanti; inoltre, nel nuovo Statuto sono espressamente previste le primarie per individuare i candidati agli organi centrali e sezionali dell’A.N.M., ai consigli giudiziari, al C.S.M..

[36] Dal discorso tenuto dal Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione del 75° anniversario della nascita della Repubblica italiana.

[37] M. CARTABIA, Linee programmatiche sulla giustizia, 2021, par. n. 7.

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