“Le donne devono sempre ricordarsi chi sono, e di cosa sono capaci.
Non devono temere di attraversare gli sterminati campi dell’irrazionalità,
e neanche di rimanere sospese sulle stelle, di notte, appoggiate al balcone del cielo.
Non devono aver paura del buio che inabissa le cose,
perché quel buio libera una moltitudine di tesori.
Quel buio che loro, libere, scarmigliate e fiere conoscono,
come nessun uomo saprà mai.”
(Virginia Woolf  in “Una stanza tutta per sé”)

La “Giornata internazionale della donna“, istituita per ricordare sia le conquiste sociali, economiche e politiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze, di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in ogni parte del mondo, viene celebrata negli Stati Uniti d’America a partire dal 1909, e in alcuni paesi europei dal 1911; in Italia dal 1922, ma il 12 marzo e non l’8. Solo nel settembre 1944, quando a Roma venne istituita l’Unione Donne Italiane, si decise di celebrare, il successivo 8 marzo, la giornata della donna nelle zone liberate dell’Italia. Dal 1946 è stata introdotta la mimosa come simbolo di questa giornata; questo fiore fu scelto, perché di stagione e poco costoso.

Gli ultimi anni hanno visto aumentare il peso delle donne nella società civile. Molte donne partecipano oggi alla vita politica e istituzionale del Paese, e per la prima volta in Italia sia il Presidente del Consiglio che il Primo Presidente della Corte di Cassazione sono donne, Giorgia Meloni e Margherita Cassano.  A Loro, e a tutte le Donne vanno gli auguri di buon 8 marzo e buon lavoro da parte della redazione della rivista.

Accingendomi a scrivere in occasione di questa particolare giornata, mi sono seriamente posta la domanda se nel 2023, dopo un lungo periodo di pandemia e in un panorama che ha visto aumentare i conflitti bellici e aggravarsi le condizioni economiche, sociali e ambientali a livello mondiale, abbia ancora senso festeggiare questo giorno, e se – soprattutto i più giovani – ne comprendano il reale significato. Nella società consumista, infatti, tutte le ricorrenze, siano esse di origine religiosa, o di matrice politica come l’8 marzo, si sono da tempo spogliate della loro autenticità e – non raramente – si traducono in una sequenza di cerimonie ridotte a gesti rituali, e in una serie interminabile di consuetudini quasi esclusivamente commerciali. La giornata internazionale della donna non sfugge a tale commercializzazione, con i banchi dei fiorai pieni di mimosa, e i cioccolatini, confezionati per l’occasione, in bella mostra nelle vetrine delle pasticcerie. La mimosa, con il suo vibrante colore giallo e l’aroma intenso, sa di primavera e porta allegria; i fiori di mimosa, però, li preferisco sull’albero e non li compro. I cioccolatini, invece, lo confesso, li ho comprati anch’io, per regalarli alle mie sorelle e alle amiche. È un modo come un altro per comunicare affetto e solidarietà.

La giornata dell’8 marzo non è solo questo; è molto di più. È la giornata in cui, ovunque si trovino, le donne sono tutte sotto lo stesso cielo e sopra la stessa terra per portare avanti la rivoluzione della cura: prendersi cura del mondo in cui viviamo e di chi questo mondo lo abita, contro ogni forma di discriminazione e disuguaglianza, che è l’unica condizione per costruire un futuro di pace. E allora sì che vale ancora la pena di essere celebrata, la giornata dell’8 marzo. Oggi forse più di ieri.

La storia insegna, infatti, che i diritti conquistati non sono mai garantiti per sempre; e ciò vale a maggior ragione per i diritti conquistati dalle donne. In tutto il mondo si moltiplicano gli attacchi alla dignità e alla vita stessa delle donne, catapultate indietro di secoli rispetto ai diritti conquistati spesso a prezzo di molte battaglie e vite sacrificate. In Iran la mobilitazione, partita dal basso per reazione alla morte di Mahsa Amini, uccisa a causa delle violenze subite dalla “polizia morale” per un velo da cui sfuggiva un ciuffo di capelli, continua ininterrotta dallo scorso settembre. In Afghanistan il regime dei talebani ha assunto, tra i primi atti, l’esclusione delle donne dall’istruzione superiore e dalle professioni a contatto con il pubblico, condannandole a una vita di arretramento e invisibilità. In Birmania sono le donne che stanno guidando la lotta per la libertà e i diritti contro un regime militare violento e corrotto. In Ucraina, in un conflitto che dura oramai da un anno nel cuore dell’Europa, le donne stanno subendo le conseguenze devastanti della guerra. La nuova terrificante emergenza del terremoto ha riportato di recente, ancora una volta, alla nostra attenzione la Siria, un paese che vive da anni una guerra senza confini e senza orizzonti, che miete vittime ovunque e senza riguardo alcuno. Nel mondo, quando c’è un conflitto, le prime a pagarne le conseguenze in termini di diritti, di libertà, di autodeterminazione e di futuro sono le donne; la guerra intensifica la disuguaglianza di genere e mette un freno per molti anni alle conquiste per i diritti umani. 

La guerra non ha volto di donna [1]. E neppure hanno un volto di donna i regimi autoritari che portano alla guerra, come dimostrano la strenua resistenza delle donne afghane e la battaglia delle donne iraniane. Ma la strada da percorrere è ancora lunga, soprattutto in alcuni teatri, dove la presenza femminile è quanto mai indispensabile per ricomporre divergenze e affermare il pieno rispetto dei diritti umani.

Come prevenire la guerra? Come possono le donne diventare piccoli ma numerosi granelli di sabbia e inceppare gli ingranaggi della guerra?

La risposta più valida, e ancora attuale, a quello che si può fare per prevenire le guerre, l’ha data nel secolo scorso la scrittrice inglese Virginia Woolf, nel saggio “Le tre ghinee”, scritto nell’inverno tra il 1937 e il 1938. Immagina la scrittrice che un avvocato segretario di un’associazione antifascista le rivolga per lettera una domanda che la stupisce in quanto rivolta da un uomo colto a una donna: “Cosa, secondo Lei, si deve fare per prevenire la guerra”? Accanto alla lettera dell’avvocato, sul tavolo della scrittrice, ci sono altre due lettere inviate da due signore: una tesoriera onoraria del fondo per la ricostruzione di un college femminile, e una tesoriera onoraria di un’associazione che aiuta le donne a trovare lavoro nelle libere professioni. Sia l’avvocato che le due signore chiedono per le rispettive associazioni un contributo in denaro. Virginia Woolf ragiona su quello che le chiedono e valuta, infine, in base al suo stesso ragionamento, se inviare o meno le sue tre ghinee. A ottenere le prime due sono le tesoriere onorarie alle quali la scrittrice sottopone la lettera dell’avvocato (che avrà la sua ghinea per ultimo) per capire se e in che modo la ricostruzione di un college e l’indipendenza economica delle donne possano aiutarlo a prevenire la guerra. Tre lettere e tre risposte, dunque, che si legano e si intrecciano tra loro nei capitoli del libro intitolati semplicemente Una, Due, Tre, giacché le tre cause – la pace, l’istruzione universitaria femminile e le libere professioni delle donne – sono intimamente connesse. Per comprendere le cause delle guerre è, infatti, necessario sapere qualcosa di politica, di economia, di rapporti internazionali; avere o non avere ricevuto un’istruzione è perciò decisivo. E altrettanto decisiva, sempre al fine di prevenire la guerra, è l’indipendenza di pensiero frutto del diritto a guadagnarsi da vivere che sottrae le donne all’influenza di padri, fratelli, mariti e figli.

La risposta che la Woolf fornisce è quindi precisa e concreta: si mettano a disposizione tre simboliche ghinee. Una per costituire il fondo per l’istruzione femminile, l’altra per garantire l’accesso delle donne alle libere professioni e l’ultima per creare un’associazione femminile pacifista chiamata “La società delle estranee”.

In un articolo del 1940, “Pensieri di pace durante un’incursione aerea”, la scrittrice riprende poi i temi del saggio “Le tre ghinee”, e puntualizza ulteriormente il rapporto tra le donne e la guerra. Si raffigura sdraiata nel buio mentre cadono le bombe e nel cielo combattono giovani inglesi contro giovani tedeschi; malgrado la tragicità del presente, pensa che l’unica possibilità, «il solo rifugio antiaereo efficace» sia credere nella pace, «lottare con la mente, fabbricare delle idee». Pur in una situazione disperata, quando l’occupazione tedesca dell’Inghilterra sembrava ormai imminente, ribadisce la fiducia nel pensiero e nella forza delle idee e, ancora una volta, proprio al pensiero delle donne affida la speranza di un cambiamento radicale della società e quindi la possibilità di una pace reale e duratura. Le donne non devono rinunciare al «pensiero privato», a quanto hanno elaborato, ma devono aver fiducia nelle proprie capacità anche se questo «espone forse all’insulto e al disprezzo», nella convinzione che «se noi (donne) potessimo liberarci dalla schiavitù, avremo liberato gli uomini dalla tirannia». In conclusione, la scrittrice inglese collega strettamente tra di loro due concezioni all’apparenza distanti, il concetto di femminismo con quello di pacifismo, anticipando così tematiche che oggi sono più che mai attuali.

È stato sottolineato da Luisa Muraro (nell’introduzione al libro “Le Tre Ghinee” edizione Feltrinelli, del 1980) come il richiamo a lottare con la mente senza rinunciare, ma anzi valorizzando la propria differenza, esprima «l’idea di una politica dell’agire simbolico, la politica dell’estraneità che inventa nuovi metodi e nuove parole e apre il cielo troppo basso, allarga l’orizzonte troppo stretto». Ne consegue che la differenza, il divenire delle donne, devono perciò essere anche indifferenti agli inviti che spingono a partecipare e a includersi, indifferenti ai modi in cui il legame sociale si ostenta e prende corpo. Quando la Woolf indica un mondo di donne che, inserendosi negli ordini legislativi, li corregga, mettendo in questione i significati di libertà e di giustizia, vede però solo nell’alterità del farsi straniere l’unico linguaggio possibile.

L’estraneità, il farsi straniere reciprocamente, l’esteriorità all’altro è il respiro che la scrittrice introduce per pensare le relazioni politiche. La conclusione di Virginia Woolf è, dunque, sì, quella di destinare la terza ghinea all’associazione maschile contraria alla guerra, ma senza iscriversi ad essa: «il modo migliore per aiutarvi a prevenire la guerra non è di ripetere le vostre parole e seguire i vostri metodi, ma di trovare nuove parole e inventare nuovi metodi».

Ed è proprio questa la vera missione delle donne in una società per lungo tempo dominata dall’uomo. Non quella di sostituirli nei posti di potere, o di occuparne semplicemente le postazioni professionali, bensì quella di costruire un nuovo “sistema di valori”, di inventare metodi alternativi, persino di usare un linguaggio diverso. La vera emancipazione femminile, per Virginia Woolf, non passa affatto per l’omologazione, ma per la valorizzazione delle differenze, perché, solo con esse, si arricchisce il mondo. Affascinante e quanto mai ancora oggi di grande attualità, quindi, il messaggio della Woolf in tema di pace, ma anche di linguaggio (al femminile), di valori e di giustizia.

In questa giornata di festa, non possiamo non gettare uno sguardo anche al nostro pianeta Giustizia, e ricordare che le donne sono ancora “giovani” per quanto riguarda l’attività giudiziale.

Il primo concorso aperto alla partecipazione delle donne venne bandito il 3 maggio 1963, sessanta anni fa. Vinsero il concorso otto donne, che entrarono in servizio il 5 aprile di due anni dopo: Letizia De Martino, Ada Lepore, Maria Gabriella Luccioli, Graziana Calcagno Pini, Raffaella D’Antonio, Annunziata Izzo, Giulia De Marco, Emilia Capelli. Dal primo concorso, l’accesso delle donne in magistratura ha registrato dimensioni modeste nel primo periodo, pari ad una media del 4%-5% per ogni concorso, per aumentare progressivamente negli anni ’70 e ’80, fino all’impennata del 58% nel 2009. Al 6.3.2023 i magistrati in servizio (compresi i magistrati in tirocinio) risultano essere 9.534; la distribuzione secondo il genere mostra per l’anno corrente la prevalenza del numero di donne (5.321 pari al 56% circa).

Nella prefazione del libro “Donne Magistrato: comunicazione, linguaggio giuridico e ascolto. Non solo diritto” (Key ed.2021), contenente gli atti dei tre incontri di studio organizzati dal CPO del Consiglio Direttivo della Corte di Cassazione in collaborazione con l’Associazione Donne Magistrato, e con la Giunta ANM Sezione Cassazione, negli anni 2018, 2019 e 2020, avevo concluso affermando che – a mio avviso – il potenziale femminile non si era ancora espresso in tutta la sua diversità. Auspicavo quindi per le giovani donne magistrato un cambio di passo, e non una mera sostituzione nei posti di potere. E aggiungevo che se saranno capaci di rimanere “estranee”, proprio nel senso indicate dalla Woolf, e quindi nuove nel linguaggio e nei valori, con arricchimento della capacità di ascolto e di comunicazione, le magistrate potranno in un prossimo futuro dare certamente un contributo in più, del tutto originale e positivo, all’amministrazione della giustizia. Sotto tale aspetto, potrebbero diventare anche un valido baluardo a derive antiumanistiche e meramente produttivistiche dell’attività giudiziaria.

Migliore augurio credo non sia possibile. A tutte le Donne felice giornata!

(Immagini dal web)

                                                                                                                           


[1]La guerra non ha il volto di donna”, di Svetlana Aleksiev, Premio Nobel per la Letteratura nel 2015, che racconta l’epopea delle donne sovietiche nella seconda guerra mondiale, una guerra narrata dal punto di vista non virile: «Potrò mai trovare parole adatte? Posso raccontare come ho combattuto e sparato, ma raccontare quanto e come ho pianto non posso. Questo resterà non detto. So solo una cosa: in guerra l’uomo si trasforma in un essere spaventoso e oscuro».

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