SOMMARIO: 1. L’USO DELLA FORZA E L’ABUSO DI AUTORITÀ – 2. LE FATTISPECIE DI REATO COMMESSE CON ABUSO DI AUTORITÀ DA PARTE DI SOGGETTI RIVESTITI DI FUNZIONI PUBBLICHE – 3. PROBLEMI PROCESSUALI.

1. L’USO DELLA FORZA E L’ABUSO DI AUTORITA’

1.1. L’ordinamento penale vigente contempla diverse disposizioni che sanzionano comportamenti posti in essere in un particolare contesto relazionale di soggezione tra l’autore e la vittima del reato; contesto che, determinato dal ruolo autoritativo del primo, crea le condizioni per le quali la seconda, privata di ogni possibilità di autodeterminazione, rimane esposta a quei comportamenti che costituiscono strumentalizzazione di una posizione di supremazia.

Così, ad esempio, il diritto vivente ha affermato che, in tema di violenza sessuale, l’abuso di autorità che costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall’art. 609-bis cod. pen., presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l’agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali (Sez. U, n. 27326 del 16/07/2020, Rv. 279520).

Il problema della strumentalizzazione della posizione di preminenza si è, tuttavia, storicamente affermato con riferimento all’operato dei soggetti rivestiti di funzioni pubbliche, ossia i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, cui è, tra l’altro, consentito di far uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica, al fine di adempiere ad un dovere del proprio ufficio: dunque, per i quali è ammesso l’uso della forza quando vi sia la necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza (art. 53 cod. pen.).

Nell’architettura del codice del 1930, alla norma di cui all’art. 53 cod. pen., espressione dell’intento del legislatore autoritario di <<sottolineare la prevalenza del potere di coercizione statuale nelle situazioni che pongono in conflitto i cittadini e l’autorità>>1, faceva da contrappeso la norma di cui all’art. 61 n. 9 cod. pen., che prevede un aggravio di pena sino ad un terzo per la commissione del fatto di reato con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti ad una pubblica funzione o ad un pubblico servizio, quando questo non ne sia elemento costitutivo o circostanza aggravante ad effetto speciale. Circostanza aggravante comune, dunque, ritenuta applicabile dalla giurisprudenza di legittimità se la commissione del fatto è stata anche soltanto agevolata dalle qualità soggettive dell’agente, non essendo necessaria l’esistenza di un nesso funzionale tra tali poteri o doveri ed il compimento del reato (Sez. 5, n. 9102 del 16/10/2019 – dep. 06/03/2020, Rv. 278662; Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017 – dep. 05/06/2018, Rv. 273531).

1.2. L’ordine dei valori sotteso alle norme costituzionali ha destabilizzato l’assetto descritto imponendo l’inserimento, nell’ambito della disciplina dei diritti e doveri dei cittadini, della disposizione di cui all’art. 13, comma 4, Cost., che recita: <<E’ punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà>>, da leggersi in connessione con la disposizione di cui all’art. 54 Cost., che, nel prevedere in capo a tutti i cittadini il dovere di fedeltà alle leggi della Repubblica, impone, al secondo comma, ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche, il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi previsti. Dunque, il fondamento della criminalizzazione di comportamenti latu sensu violenti posti in essere nei confronti di chi versi in una situazione di limitazione della libertà personale sta nel tradimento della funzione pubblica da parte coloro che ne sono investiti e che, invece, dovrebbero esercitare nel più rigoroso rispetto dei doveri ad essi connessi, in adempimento dell’obbligo di fedeltà ai principi fondamentali della Repubblica, che concorrono ad attuare: in primo luogo la tutela della persona e la garanzia dei suoi diritti fondamentali.

1.3. L’obbligo di criminalizzazione di comportamenti abusivi posti in essere da pubblici funzionari anche mediante l’uso della forza discende, invero, anche dai vincoli assunti dallo Stato con l’adesione a numerosi atti internazionali, che prevedono che nessuno possa essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti: tra questi, la Convenzione di Ginevra del 1949, relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (ratificata dalla l. n. 848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificata dalla l. n. 881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con la l. n. 498/1988; lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (l. n. 232/1999).

In particolare, l’art. 3 CEDU prevede il divieto della tortura e di sottoposizione a pene o trattamenti inumani e degradanti e l’art. 15, comma 2, CEDU esclude la possibilità di derogarvi, con ciò sancendone la stretta connessione con il diritto assoluto di ogni persona al rispetto della dignità umana.

La Convenzione Onu del 1984 definisce, poi, la tortura come <<qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione>>. La stessa precisa che, ai fini della qualificazione del reato di tortura, l’azione deve essere posta in essere da un pubblico ufficiale o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito.

1.4. L’ottemperanza a tali vincoli si è avuta soltanto con la legge n. 110 del 14 luglio 2017, in forza della quale sono stati inseriti nel codice penale, tra i delitti contro la libertà morale dell’individuo, l’art. 613-bis (Tortura) e l’art. 613-ter (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura), che hanno previsto fattispecie ad hoc destinate a punire i fatti riconducibili a condotte di tortura o, comunque, integranti trattamenti inumani o degradanti. L’introduzione di tali fattispecie ha destato, però, non poche perplessità ed altrettante critiche soprattutto per il modo in cui sono state congegnate: segnatamente, perché la definizione Onu di tortura è stata disattesa dal legislatore italiano.

1.5. Invero, il descritto intervento legislativo è stato necessitato, perché, con la sentenza resa il 22 giugno 2017, nel caso Bartesaghi Gallo e altri c. Italia (ricorsi nn. 12131/13 e 43390/13) la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva nuovamente condannato l’Italia per la violazione dell’art. 3 Cedu in relazione alle violenze perpetrate dalle forze di polizia italiane in occasione del G8, svoltosi a Genova nel 2001, durante l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini, essendosi riconosciuto che il trattamento al quale erano stati sottoposti i ricorrenti doveva essere considerato <<vera e propria tortura, in considerazione della sua natura particolarmente grave e crudele e dell’acuta sofferenza fisica e psichica causata alle vittime>>. Gli occupanti della scuola Diaz, infatti, avevano dovuto subire le violenze incontrollate della polizia senza che avessero commesso, a loro volta, alcun atto di violenza o di resistenza, di modo che la Corte EDU, essendosi trattato di violenza non giustificata ed animata unicamente da un intento punitivo, vendicativo e diretto all’umiliazione e all’inflizione di sofferenze fisiche e mentali nei confronti delle vittime, ha ritenuto integrata la violazione dell’art. 3 CEDU, tanto sul fronte sostanziale che su quello procedurale (richiamando e confermando le statuizioni già espresse nella causa Cestaro c/ Italia (Corte Edu, sent. 7 aprile 2015, ric. n. 6884/11). Ha, all’uopo, stigmatizzato l’inadeguatezza dell’ordinamento italiano in riferimento alla repressione della tortura, che non disponeva di strumenti normativi atti a consentire una efficace punizione di quanti si fossero resi responsabili di comportamenti quali quelli commessi a Genova.

1.6. La Corte di legittimità, in effetti, decidendo i ricorsi proposti dai pubblici ufficiali accusati di quei fatti, con la sentenza Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Luperi ed altri, aveva annullato senza rinvio la sentenza di condanna a loro carico pronunciata limitatamente ai delitti di lesioni aggravate, perché estinti per intervenuta prescrizione. Aveva, al riguardo, osservato come le violenze perpetrate dalla polizia nel corso dell’intervento presso la scuola Diaz-Pertini fossero state caratterizzate da <<gravità inusitata ed assoluta>>, in quanto generalizzate e rivolte nei confronti di persone palesemente disarmate, dormienti o sedute con le mani alzate, di modo che non potevano non integrare <<tortura o trattamento inumano o degradante>>, alla stregua della definizione datane dalla Convenzione delle Nazioni Unite del 1984.

Ciò nonostante, il Collegio aveva dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 157 cod. pen. per contrasto all’art. 117 della Costituzione, alla Convenzione Onu contro la tortura e all’art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo (CEDU) nella parte in cui non prevede l’imprescrittibilità dei delitti di lesione aggravata quando siano commessi nell’ambito di un’attività equiparabile ad una tortura, inflitta a soggetti detenuti o comunque in stato di restrizione. Aveva, in proposito, osservato che la questione si scontrava contro i principi fondamentali del sistema penale-costituzionale, atteso che la pronuncia addittiva richiesta alla Corte costituzionale2 esorbitava dai suoi poteri3, ostandovi il principio della riserva di legge sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., che demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena, delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio.

2. LE FATTISPECIE DI REATO COMMESSE CON ABUSO DI AUTORITÀ DA PARTE DI SOGGETTI RIVESTITI DI FUNZIONI PUBBLICHE.

Il codice penale prevede fattispecie di reato proprie, ossia realizzabili esclusivamente dal soggetto rivestito delle qualifiche soggettive di cui agli artt. 357 e 358 cod. pen., nonché fattispecie di reato comuni, commesse, cioè, da soggetti qualificati con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla funzione pubblica o al servizio pubblico esercitati, capaci di offendere la libertà4, l’integrità fisica e morale e la stessa dignità dei soggetti che siano attinti dalle condotte che le integrano.

2.1. IL SEQUESTRO DI PERSONA COMMESSO DAL PUBBLICO UFFICIALE CON ABUSO DEI POTERI INERENTI ALLE SUE FUNZIONI (ART. 605, COMMA 2, N. 2, COD. PEN.) E L’ARRESTO ILLEGALE (ART. 606).

La giurisprudenza di legittimità ha, in termini generali, affermato che l’esercizio di poteri da parte delle forze di polizia, sia di natura preventiva che preprocessuale, invasivi della libertà personale al di fuori dell’ambito di “eccezionali” fattispecie procedimentali – i cui parametri di eccezionalità ed urgenza, che ne giustificano la compatibilità con l’art. 13 della Costituzione, ne impongono una ristretta e rigorosa applicazione – è astrattamente inquadrabile nel reato di sequestro di persona e non in diverse norme incriminatrici quali quelle racchiuse negli artt. 606, 608 e 609 cod. pen., che postulano l’esistenza di un legittimo intervento degli organi di polizia attuato, però, con modalità abusive e non conformi alle disposizioni che li prevedono (Sez. 6, n. 3421 del 09/12/2002 – dep. 23/01/2003, Rv. 223944).

La differenza tra il delitto di sequestro di persona consumato da un pubblico ufficiale con abuso dei poteri inerenti alle sue funzioni e quello di arresto illegale sta nel fatto che, mentre nella prima ipotesi, l’abuso generico dei poteri connessi alle funzioni è un elemento solo circostanziale e quindi occasionale della condotta criminosa, nella seconda ipotesi, viene punito proprio l’abuso specifico delle condizioni tassative (commissione di un delitto; stato di flagranza o quasi flagranza) alle quali la legge subordina il potere di arresto. (Sez. 5, n. 11071 del 09/10/2014 – dep. 16/03/2015, Rv. 262874; Sez. 5, n. 6773 del 19/12/2005 – dep. 23/02/2006, Rv. 234001).

In particolare, la Suprema Corte (Sez. 5, n. 30971 del 10/04/2015, Rv. 264837), decidendo i ricorsi presentati da appartenenti ad un Corpo di Polizia Municipale che avevano proceduto all’arresto di un cittadino extracomunitario nella “ipotizzata” flagranza di reato, e che, in esecuzione della misura precautelare (adottata senza che ne sussistessero i presupposti di legge), l’avevano bloccato, ammanettato, tradotto presso la sede del loro comando, sottoposto ad ispezione corporale, indotto a confessare, e, infine, ristretto in una cella di sicurezza, ha ritenuto integrata, nel caso concreto, la fattispecie di cui all’art. 606 cod. pen. e non quella di cui all’art. 605, comma 2, n. 2, cod. pen.. Al riguardo, richiamato l’orientamento interpretativo tradizionale, secondo il quale il delitto di sequestro di persona consumato da un pubblico ufficiale con abuso di poteri inerenti alle sue funzioni e quello di arresto illegale hanno in comune l’elemento materiale (consistente nella privazione della libertà di un soggetto), ma si differenziano per l’elemento soggettivo, che, nella prima ipotesi, richiede la volontà dell’agente di tenere la persona offesa nella sfera del suo dominio, mentre, nella seconda, è diretto a mettere la persona offesa a disposizione dell’autorità competente, sia pure privandola della libertà in maniera illegale (Sez. 6, n. 23423 del 26/03/2010, Rv. 247383), ha osservato come l’ulteriore elemento che le accomuna è il connotato modale che caratterizza la condotta di privazione della libertà personale del soggettivo passivo: cioè l’abuso dei poteri inerenti le funzioni dell’agente, tanto consentendo di affermare che oggetto di tutela, in entrambi i casi, è, altresì, l’interesse di natura pubblicistica alla legalità dell’operato dello stesso pubblico ufficiale. Ha, quindi, concluso, che l’elemento che davvero caratterizza la fattispecie di cui all’art. 606 cod. pen. rispetto a quella di sequestro di persona aggravato dall’abuso di potere di cui all’art. 605, comma 2, n. 2, cod. pen. è individuabile nel fatto che l’abuso riguarda specificamente l’esercizio di un potere di coercizione riconosciuto e disciplinato dalla legge.

Ciò, però, non esclude che, anche sul versante dell’elemento soggettivo si registri una differenza o, più correttamente, si riveli la specialità dell’art. 606 cod. pen., posto che, per abusare del potere d’arresto, è, innanzi tutto, necessaria la volontà di procedere ad un arresto (pur nell’accezione lata che il termine assume per costante giurisprudenza e dottrina in seno all’incriminazione de qua). Dunque, l’elemento di connotazione specifica della fattispecie di arresto illegale sta nella volontà del pubblico ufficiale di compiere un atto che comporta ab origine l’intenzione di mettere il soggetto ristretto a disposizione dell’autorità giudiziaria, ossia l’intenzione di effettuare un intervento coercitivo tipico, come qualificato dalle norme procedurali che lo disciplinano, le quali, al tempo stesso, integrano il referente per identificare la connotazione abusiva delle modalità di esercizio del potere attribuito (o non attribuito) al pubblico ufficiale (Sez. 5, n. 17955 del 26/02/2020, Rv. 279258).

2.2. ABUSO DI AUTORITÀ CONTRO ARRESTATI E DETENUTI (ART. 608 COD. PEN.)

Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, integra il delitto di cui all’art. 608 cod. pen. (abuso di autorità contro arrestati o detenuti), la condotta del pubblico ufficiale che sottoponga la persona arrestata o detenuta, di cui abbia la custodia, a misure di rigore non consentite dalla legge o a vessazioni, di guisa che la sfera di libertà personale del soggetto passivo subisca un’ulteriore restrizione oltre quella legale, insita nella custodia o nella detenzione (Sez. 5, n. 22203 del 19/01/2017, Rv. 270049)5.

L’abuso di autorità contro arrestati o detenuti è stato, quindi, riconosciuto: nell’agire di Carabinieri che avevano condotto un minore tratto in arresto nel garage della caserma, dove lo avevano costretto a stare seduto con i piedi sollevati per essere colpito ai malleoli, per subire il cd. ‘gioco del soldato’, così ponendo in essere una nuova e diversa costrizione rispetto a quella legale, da cui era derivata la lesione della residua libertà del minore (Sez. 5, n. 31715 del 25/03/2004, Rv. 229320); nella condotta di militari della Guardia di Finanza che avevano ammanettato l’arrestato ad una ringhiera in misura temporale ben lontana da quella necessaria alle incombenze dell’ufficio, puntandogli una pistola, ancorché scarica, alla tempia (Sez. 5, n. 29004 del 16/04/2012, Rv. 253312); nell’operato di agenti di Polizia Penitenziaria che avevano imposto ad un detenuto – che si era rifiutato di essere trasferito ad altra cella – di inginocchiarsi e strisciare sino alla scrivania sulla quale era costretto a firmare la domanda di trasferimento che si era rifiutato di sottoscrivere, ricevendo nel contempo pugni e calci (Sez. 5, n. 22203 del 19/01/2017, Rv. 270049).

E’ stato ribadito dalla Suprema Corte (Sez. 5, n. 26022 del 19/04/2018, Rv. 273340), pronunciatasi sul ricorso presentato da uno dei concorrenti nel delitto di cui all’art. 608 cod. pen., commesso in danno di Stefano Cucchi e dichiarato prescritto, proteso ad ottenere l’assoluzione nel merito ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen. con la formula perché il fatto non sussiste, come, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 608 cod. pen., non è sufficiente l’impiego della violenza nei confronti della persona in custodia (Sez. 6, n. 9003 del 07/05/1982, Rv. 155503), pur potendo atti di violenza fisica (quali percosse, lesioni e simili), riconducibili ad altre ipotesi di reato, integrare anche il reato in questione ove incidano sulla sfera di libertà personale del soggetto passivo, determinandone una limitazione aggiuntiva rispetto a quella consentita (Sez. 5, n. 29004 del 16/04/2012, Rv. 253312; Sez. 5 n. 31715 del 25/03/2004, Rv 229320), concorrendo, in tal caso, il delitto previsto dall’art. 608 cod. pen. con quelli di percosse, lesioni e simili.

La Corte ha respinto il ricorso osservando come, formulata la contestazione del reato cui all’art. 608 cod. pen. dando corpo alle “misure di rigore” attraverso il richiamo alle lesioni personali e all’omicidio preterintenzionale di Stefano Cucchi, non risultasse, con l’evidenza necessaria ex art. 129, comma 2, cod. pen., che la vittima non fosse stata sottoposta “a misure di rigore”. Non poteva ritenersi, infatti, in termini di certezza e senza necessità di ulteriore vaglio, che le gravi lesioni riportate dalla vittima – consistite tra l’altro nella frattura della terza vertebra lombare e della quarta vertebra sacrale, condizionanti la sua capacità di deambulazione — costituissero evento di una violenza fine a sé stessa e non anche, come correttamente aveva osservato il giudice di merito, di <<un’attività illecita posta in essere dai pubblici ufficiali finalizzata a contenere l’arrestato con modalità tali da imporgli una ulteriore restrizione attraverso l’impiego, appunto, di “misure di rigore” che si sono rivelate talmente brutali da produrre quelle gravissime conseguenze>>.

2.3. LESIONI PERSONALI ED OMICIDIO PRETERINTENZIONALE AGGRAVATI DALL’ABUSO DEI POTERI E DALLA VIOLAZIONE DEI DOVERI INERENTI ALLA PUBBLICA FUNZIONE

Con la sentenza Sez. 5, n. 18396 del 9 aprile 2022, non massimata, la Suprema Corte, decidendo i ricorsi presentati dagli ufficiali e sottufficiali dei Carabinieri riconosciuti responsabili dell’omicidio preterintenzionale commesso in danno dello stesso Cucchi, ha rilevato che, dal complesso del discorso giustificativo sviluppato a sostegno delle sentenze di condanna a loro carico pronunciate, era emerso che la condotta violenta degli imputati, loro contestata come aggravata ai sensi dell’art. 61 n. 9 cod. pen., fosse stata posta in essere effettivamente con abuso di potere e violazione dei loro doveri, risultando del tutto avulsa dalla situazione concreta che si erano trovati a fronteggiare, tanto più che la vittima versava in una situazione di minorata difesa, posto che, al di là delle condizioni fisiche in cui si trovava al momento del pestaggio, aveva dovuto affrontare la repentina ed inaspettata aggressione da parte di due rappresentanti delle forze dell’ordine e mentre si trovava sotto la loro custodia, tanto giustificando, oltretutto, il riconoscimento dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 5 cod. pen..

2.4. MALTRATTAMENTI (ART. 572 COD. PEN.).

In una pronuncia – sembrerebbe rimasta isolata – la Corte ha affermato che integra il delitto di maltrattamenti aggravato dall’abuso dei poteri e dalla violazione dei doveri inerenti alla funzione pubblica – e non solo il delitto di abuso di autorità contro arrestati o detenuti, reato istantaneo che può concorrere con quello di maltrattamenti – la reiterata e sistematica condotta violenta, vessatoria, umiliante e denigrante da parte degli agenti della polizia penitenziaria nei confronti di detenuti in ambiente carcerario e per tal motivo sottoposti alla loro autorità o, in ogni caso, a loro affidati per ragioni di vigilanza e custodia (Sez. 6, n. 30780 del 21/05/2012, Rv. 253291)6.

Ricordando come fosse stato riconosciuto, in ripetuti arresti nomofilattici, che anche le pratiche persecutorie realizzate fuori dello stretto ambito familiare possono integrare il delitto di maltrattamenti all’interno di comunità in cui il rapporto tra agente e parte offesa assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica (Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, Rv. 251368), il Collegio della decisione ha ritenuto che, ricorrendo nel caso sottopostole, una posizione di supremazia formale e sostanziale degli imputati nei confronti dei soggetti passivi, con forme e modalità tali da assimilarne i caratteri a quelli propri di un rapporto di natura para-familiare, le reiterate e sistematiche condotte violente, vessatorie, umilianti e denigranti contestate integravano l’elemento materiale del reato di cui all’art. 572 cod. pen. (che contempla espressamente il caso del maltrattamento di persona sottoposta all’autorità dell’agente o a lui affidata per ragione di vigilanza o custodia), accompagnato dal dolo generico di sottoporre le vittime ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando un sistema di sopraffazioni e di vessazioni tali da avvilirne la personalità (Sez. 6, n. 27048 del 18/03/2008, Rv. 240879), a nulla rilevando lo scopo da loro perseguito, ossia quello di dare un segnale forte e chiaro a tutti gli altri detenuti, trattandosi di un movente dell’azione estraneo all’elemento soggettivo del reato.

Ha, inoltre, disatteso l’eccezione secondo la quale la norma di cui all’art. 608 cod. pen. sarebbe speciale rispetto a quella di cui all’art. 572 cod. pen., sollevata sul rilievo che la prima punirebbe non solo singoli atteggiamenti vessatori, ma anche comportamenti tenuti in modo abituale (come suggerirebbe la stessa dizione normativa dell’art. 608 cod. pen. che si riferisce alla sottoposizione a “misure di rigore” e non già a singole condotte violente). Ha, al riguardo, osservato che il reato di cui all’art. 608 cod. pen. è di carattere istantaneo, di modo che, ove l’adozione delle “misure di rigore non consentite dalla legge” sia reiterata, occorre applicare l’art. 81 cpv. cod. pen..

Ha, dunque, concluso nel senso che, se il delitto istantaneo di “abuso di autorità contro arrestati o detenuti” (art. 608 cod. pen.) è speciale rispetto a quello, parimenti istantaneo, di abuso di mezzi di correzione o di disciplina (art. 571 c.p.), non lo è rispetto a quello di maltrattamenti, che sanziona comportamenti abituali caratterizzati da una serie indeterminata di atti di vessazione e umiliazione che manifestano l’esistenza di una direzione di volontà di cui i singoli episodi (d’ingiurie, percosse, lesioni etc), da valutare unitariamente, costituiscono l’espressione e in cui il dolo si configura come volontà comprendente il complesso dei fatti e coincidente con il fine di rendere disagevole in sommo grado e per quanto possibile penosa la vita della parte offesa: da qui, la possibilità di concorso tra il delitto di cui all’art. 572 cod. pen. e quello di cui all’art. 608 cod. pen. La dottrina7 ha aspramente criticato l’approdo ermeneutico di cui si è dato conto, denunciando come la surrettizia applicazione dell’art. 572 cod. pen. dissimulasse la necessità di riequilibrare sul piano sanzionatorio il deficit di pena connesso ad una cornice edittale davvero troppo modesta prevista per il reato di cui all’art. 608 cod. pen.: in altre parole, il tentativo di completare o di potenziare la tutela di beni altamente significativi di rilievo costituzionale, come la dignità e l’integrità fisica della persona umana, aveva condotto all’operazione, ermeneuticamente da respingere, di applicare analogicamente una norma, l’art. 572 cod. pen., a casi da essa non disciplinati.

2.5 LA TORTURA (ART. 613-BIS COD.PEN.)

Il rischio di imbattersi – in casi come quelli sin qui esaminati – in una analogia in malam partem, mascherata da interpretazione estensiva, ha costituito un ulteriore stimolo per introdurre nell’ordinamento nazionale il reato di tortura. Reato che è stato tipizzato nell’art. 613-bis cod. pen. e strutturato come fattispecie “a geometria variabile” – come definito dalla sentenza Sez. 3, n. 32380 del 25/05/2021 -, ricomprendendo in seno al proprio ambito di operatività sia la tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria, di cui al primo comma della norma citata), sia la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria, di cui al secondo comma).

Dunque, secondo la tecnica d’incriminazione prescelta, il nucleo del reato è descritto nel primo comma, che punisce: <<Chiunque cagioni, mediante violenze e minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, o che comunque si trovi in condizioni di minorata difesa…. se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona>>, mentre, nel secondo comma, è previsto un aumento di pena: <<Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio>>.

Il nodo cruciale sta nell’interpretazione della disposizione di cui al secondo comma: ovvero se configuri un reato autonomo oppure una circostanza aggravante ad effetto speciale.

La prima sentenza della Suprema Corte in tema di delitto di tortura, Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, Rv. 277544, affermando che, con la legge n. 110 del 2017, il legislatore, tra l’ipotesi del reato comune e quella del reato proprio, avrebbe accolto: <<una sorta di terza via, consistente nella previsione di un reato comune, accompagnata da un aggravamento afflittivo nell’ipotesi in cui la tortura sia commessa da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio”, sembra essersi espressa in favore della tesi della natura circostanziale di tale fattispecie. A questa opzione interpretativa ha apertamente dato seguito la successiva sentenza Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, Rv. 277841, affermando che: <<La norma di nuovo conio prevede un reato comune, contemplando l’eventualità che esso sia commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio come circostanza aggravante>>.

E’ evidente che la qualificazione della fattispecie di cui al secondo comma alla stregua di una circostanza aggravante ne determina l’assoggettamento al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. e, quindi, comporta la possibilità di una neutralizzazione dell’aumento di pena previsto tramite la concessione di circostanze attenuanti in regime di equivalenza o di prevalenza.

In senso diametralmente opposto si è espressa la sentenza Sezione 3, n. 32380 del 25/05/2021, non massimata. Facendosi probabilmente carico dei dubbi avanzati dalla dottrina circa la configurabilità della fattispecie di cui al secondo comma dell’art. 613-bis cod. pen. in termini di circostanza aggravante8 – in particolare, per l’inapplicabilità ad una fattispecie circostanziale sia dell’esimente di cui al terzo comma, che sancisce: <<l’esclusione dell’applicazione del secondo comma nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti>>, sia delle circostanze aggravanti del quarto e quinto comma, che prevedono aumenti di pena qualora dal fatto derivino le lesioni o la morte della vittima – ha affermato che: <<Con la legge citata, sono stati configurati due autonomi titoli di reato e, quindi, due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato: la tortura pubblica (reato proprio) se il soggetto attivo sia un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio che commetta il fatto tipico descritto nell’articolo 613-bis, comma 1, del codice penale con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; la tortura privata (reato comune) negli altri casi>>. Ha, in proposito, chiarito che, mentre <<l’asse della lesività del delitto è calibrato sulla natura della condotta nella tortura privata, dove non rileva affatto la qualifica giuridica soggettiva dell’agente se non limitatamente ad un elemento costitutivo di fattispecie rappresentato dai rapporti di affidamento, affrancati però completamente dalla componente pubblicistica>>, <<il fulcro dell’offesa, nel reato di tortura pubblica, è spostato sull’esercizio illegale del potere o del servizio pubblico, cosicché la medesima condotta acquista un maggiore disvalore, risultando perciò il fatto di reato più gravemente (e autonomamente) punito, in considerazione …… della perversione del potere coercitivo affidato al funzionario pubblico, il quale tradisce il senso e sormonta i limiti per il quale il potere è stato conferito, vulnerando nel suo significato più sostanziale il principio di legalità, perno di qualsiasi Stato di diritto e la cui osservanza è, in primis, imposta gli organi pubblici>>.

Individuata nella lesione della “dignità umana“, la cifra comune della lesività specifica, tanto del reato di tortura privata quanto del reato di tortura pubblica, in entrambi verificandosi l’asservimento della persona umana e, di conseguenza, l’arbitraria negazione dei suoi diritti fondamentali inviolabili, la Corte ha concluso nel senso che: <<la tortura pubblica non può assumere la forma circostanziale rispetto a quella privata, ma costituisce un reato autonomo sia per la natura del soggetto attivo, sia per l’indipendenza del trattamento sanzionatorio rispetto alla tortura privata e sia per la necessità di un obbligo di incriminazione specifico della fattispecie pubblica>>; <<obbligo che sarebbe da considerare disatteso, con diretta collisione del diritto interno con quello internazionale, nel caso in cui si considerasse il secondo comma dell’articolo 613-bis del codice penale una circostanza di un altro reato, e cioè della tortura privata, il cui obbligo di incriminazione non era vietato ma neppure imposto, diversamente dalla tortura di Stato, dalle carte internazionali>>.

Sciolto tale nodo interpretativo, deve darsi conto degli approdi cui è pervenuto il giudice di vertice nell’interpretazione della norma di cui all’art. 613-bis, comma 1, cod. pen., che, come anticipato, descrive il nucleo essenziale di entrambe le ipotesi di tortura.

Si è, dunque, affermato che il delitto di tortura è reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, Rv. 277544). E’ stato precisato, al riguardo, che la locuzione “mediante più condotte” va riferita non solo ad una pluralità di episodi reiterati nel tempo, ma anche ad una pluralità di contegni violenti tenuti nel medesimo contesto cronologico (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, Rv. 277841): si è spiegato, in particolare, che: << … l’efficacia repressiva della previsione normativa di nuova introduzione sarebbe irragionevolmente depotenziata laddove si accedesse ad un’interpretazione della disposizione che ne circoscriva l’applicazione ai casi di reiterazione differita nel tempo delle condotte, perché tanto lascerebbe prive di tutela delle situazioni, ben possibili nella pratica, in cui la tortura venga posta in essere, con le conseguenze sulla persona offesa che pure il legislatore ha previsto, in un unico contesto temporale>> e si è evidenziato che: << ….se l’adeguamento agli obblighi internazionali che la l. 14 luglio 2017, n. 110 concretizza è indubbiamente frutto dello stimolo che il nostro legislatore ha ricevuto dalle condanne della Corte EDU in ordine ai noti fatti di Genova (sentenza Cestaro c. Italia del 7.7.2015, ma anche Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, del 22.6.2017, quanto alle pronunzie che hanno preceduto l’entrata in vigore della novella)>>, la lettura della disposizione nel senso che sarebbe necessaria la reiterazione differita nel tempo delle condotte <<determinerebbe il paradosso di impedire la riferibilità della norma a quanto verificatosi nella scuola Diaz, laddove non vi è stata la reiterazione, diluita nel tempo, delle condotte; ciò implicherebbe …. l’adozione di una prospettiva indubbiamente distonica rispetto a quella seguita dalla Corte EDU laddove ha ricondotto quei fatti alla nozione di tortura di cui all’art. 3 della CEDU, dando così luogo ad una lettura nonconvenzionalmente orientata della disposizione di nuovo conio>> (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, in motivazione, pag. 9).

A tale impostazione interpretativa ha espresso convinta adesione la sentenza Sez. 5, n. 8973 del 9/11/2021- dep. 16/03/2022, non massimata9, che, nel respingere il ricorso presentato dal Comandante della polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua avverso l’ordinanza del G.i.p., che gli aveva applicato la misura degli arresti domiciliari in relazione alle provvisorie incolpazioni per i reati di lesioni, tortura, calunnia, falso e depistaggio – in particolare, per avere, nell’esercizio della propria funzione, concorso a organizzare un’operazione di “perquisizione straordinaria”, condotta il 6 aprile 2020 all’interno del reparto “Nilo”, protrattasi per quattro ore, durante la quale tutti i detenuti del reparto erano stati indiscriminatamente sottoposti a violenze e umiliazioni10; vessazioni e altrettanto brutali violenze fisiche e psicologiche, che, nei successivi cinque giorni, erano proseguite nei confronti di un gruppo di quattordici detenuti, considerati promotori delle proteste ‘anti Covid’11 –, ha, pure, affermato che, anche quando il reato di tortura assuma forma abituale12, per l’integrazione dell’elemento soggettivo non è richiesto un dolo unitario, consistente nella rappresentazione e deliberazione iniziali del complesso delle condotte da realizzare, ma è sufficiente la coscienza e volontà, di volta in volta, delle singole condotte (così anche, Sez. 5, n. 4755 del 15/10/2019 – dep. 04/02/2020, Rv. 277856).

Descritto il delitto di tortura come <<reato doloso, formalmente vincolato per le modalità della condotta (violenze o minacce gravi, crudeltà), per l’evento naturalistico (acute sofferenze o un verificabile trauma psichico) e per il soggetto passivo (persona privata della libertà personale o affidata alla custodia, vigilanza, controllo, cura o assistenza dell’agente ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa)>> (così Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, in motivazione, pag. 11), la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che, in tema di tortura, la crudeltà della condotta si concretizza in presenza di un comportamento eccedente rispetto alla normalità causale, che determina nella vittima sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole dell’autore del fatto (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, Rv. 277841)13.

Ha, poi, affermato che, ai fini della ricorrenza delle “acute sofferenze fisiche“, quale evento del delitto di tortura previsto dall’art. 613-bis cod. pen., non è necessario che la vittima abbia subito lesioni (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, Rv. 277841), tanto desumendosi: << in primo luogo, dal dato testuale, giacché la circostanza che la vittima abbia riportato lesioni è solo elemento circostanziale, come si legge nel comma 4; d’altra parte, se la condizione per la punizione del reato di tortura fosse quella dell’evidenza delle conseguenze fisiche sul corpo della vittima, resterebbero fuori tutte quelle condotte foriere di sofferenze fisiche acute, ma che non lasciano segni sul corpo di chi le subisce14>> (Sez. 5, n. 50208/2019, in motivazione, pag. 11-12). Ha, del pari, precisato che il “trauma psichico verificabile“, non deve necessariamente tradursi in una sindrome duratura da “trauma psichico strutturato” (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea che risulti, per le suecaratteristiche, non integrabile nel pregresso sistema psichico della vittima, sì da minacciarne la coesione mentale (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, Rv. 277544).

Quanto alle “condizioni di minorata difesa“, previste dall’art. 613-bis cod. pen. per identificare una delle categorie dei possibili soggetti passivi del delitto, la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che sussistono ogni qualvolta la resistenza della vittima alla condotta dell’agente sia ostacolata da particolari fattori ambientali, temporali o personali (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, Rv. 277544), di modo che, ai fini della relativa verifica, devono essere valorizzate le condizioni personali e ambientali che facilitino l’azione criminale e che rendano effettiva la signoria o il controllo dell’agente sulla vittima, agevolando il depotenziamento se non l’annullamento delle capacità di reazione di quest’ultima, la cui vulnerabilità va valutata in relazione al momento in cui l’aggressione viene perpetrata, e non già con riferimento alla possibilità di una reazione successiva, come quella che potrebbe consistere nella denuncia dei fatti (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, Rv. 277841).

Ponendosi, esplicitamente, nel solco dell’ermeneusi formatasi in tema di condizioni di minorata difesa nel delitto di tortura, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 40275 del 15/07/2021, Rv. 282095, hanno affermato che, ai fini dell’integrazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61, primo comma, n. 5, cod. pen. (Minorata difesa), occorre che qualsiasi tipo di circostanza fattuale valorizzabile (di tempo, di luogo, di persona, anche in riferimento all’età) agevoli la commissione del reato, rendendo la pubblica o privata difesa, ancorché non impossibile, concretamente ostacolata: donde, ai fini dell’integrazione di essa, occorre sempre verificare, sulla base di un giudizio di prognosi postuma, operato ex ante ed in concreto, il contesto e le peculiari condizioni che abbiano effettivamente agevolato la consumazione del reato, incidendo in concreto sulle possibilità di difesa.

Da ultimo, occorre sottolineare come la stessa giurisprudenza di legittimità abbia ritenuto che il delitto di sequestro di persona è assorbito in quello di tortura, nonostante la diversa oggettività giuridica, nella misura in cui la condotta di privazione della libertà personale della vittima connoti parte della condotta torturante, agevolando la realizzazione del fine ultimo, perseguito dall’agente, di inflizione alla medesima di un supplizio, mentre si configura il concorso tra i due reati nel caso in cui la privazione della libertà personale si protragga oltre il tempo necessario al compimento degli atti di tortura (Sez. 2, n. 1729 del 01/12/2021 – dep. 17/01/2022, Rv. 282523)15.

Non si rinvengono precedenti in relazione alla scriminante di cui all’art. 613-bis, comma 3, cod. pen., ossia alla fattispecie di esclusione dell’applicazione della norma sulla tortura di Stato nell’ipotesi in cui le sofferenze inflitte a chi si trovi in condizioni di privazione della libertà personale o di minorata difesa risultino: <<unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti>>. In tal senso la giurisprudenza di legittimità ha stabilito che le perquisizioni personali per motivi di sicurezza di cui all’art. 34 ord. pen. sono legittime in quanto rientrano nel fisiologico sacrificio della libertà personale derivante dallo stato detentivo, a condizione che vengano eseguite nel rispetto dei diritti del detenuto: ha, pertanto, escluso che integri un trattamento inumano e degradante il controllo delle calzature attraverso “l’alzata dei piedi” di un detenuto sottoposto al regime differenziato di cui all’art. 41-bis ord. pen., in occasione della fruizione dell’ora d’aria (Sez. 1, n. 46021 del 21/10/2021, Rv. 282217).

3. PROBLEMI PROCESSUALI.

3.1. Sul versante processuale, la l. n. 110 del 2017 ha introdotto l’art. 191, comma 2-bis, cod. proc. pen. che sancisce il principio della inutilizzabilità delle dichiarazioni e delle informazioni ottenute per effetto di tortura; vi fa eccezione il caso della utilizzazione di tali dichiarazioni contro l’autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

La ratio della suddetta previsione, che istituisce un’inutilizzabilità cd. speciale – che, come tale, si caratterizza per la sua tassatività e, pertanto, non è applicabile in via estensiva o analogica al di fuori dello specifico ambito nel quale essa è stata dettata – risiede nella volontà di eliminare ogni incertezza nell’applicazione della disposizione generale, ossia di quella secondo la quale: <<Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate>> (art. 191, comma 1, cod. proc. pen.). Incertezza che, in effetti, era legittimo aspettarsi, avuto riguardo alla contrapposizione tra la tesi del “male captum bene retentum16” e la teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, già oggetto di un acceso dibattito in Italia, in relazione al rapporto tra perquisizione e sequestro. Come è noto, il primo orientamento (di gran lunga prevalente) nega la propagazione del vizio di un atto probatorio su quello successivo, non sussistendo tra questi alcun vincolo di dipendenza giuridica. Ad esso si contrappone il secondo orientamento, ispirato alla giurisprudenza nordamericana degli anni ’20, in base al quale certi vizi di un atto probatorio finiscono per incidere a certe condizioni su quelli successivi, cosicché la violazione originaria si ripercuote sui frutti della ricerca, contaminandoli a loro volta (quali ‘fruits of poisoned tree’, appunto)17.

3.2. In plurimi arresti della giurisprudenza di vertice in materia di delitti commessi da soggetti qualificati, con abuso dei poteri inerenti alla funzione pubblica spiegata, in danno di persone sottoposte a vario titolo alla loro autorità, contestati e ritenuti a loro carico anche delitti di falso ideologico (in verbali di arresto o in relazioni di servizio), è stato affermato che il pubblico ufficiale estensore dell’atto pubblico non può invocare la scriminante dell’esercizio del diritto (art. 51 cod. pen.), “sub specie” del principio “nemo tenetur se detegere“, per avere attestato il falso al fine di non fare emergere la propria penale responsabilità in ordine all’episodio in esso rappresentato, non potendo la finalità probatoria dell’atto pubblico essere sacrificata all’interesse del singolo di sottrarsi alle conseguenze di un delitto (Sez. 5, n. 23672 del 19/04/2021, Rv. 281406), tanto più che, in tal caso, non sussiste neppure la violazione dell’art. 6 CEDU, il quale, nel riconoscere al soggetto il diritto a tacere e a non contribuire alla propria incriminazione a conferma e garanzia irrinunciabile dell’equo processo, opera esclusivamente nell’ambito di un procedimento penale già attivato e non nella fase ad esso precedente e relativa alla commissione di un reato, stante la sua “ratio” consistente nella protezione dell’imputato da coercizioni abusive da parte dell’autorità18. Si tratta di principio enunciato, oltre che con riferimento agli accadimenti occorsi all’interno della scuola Diaz-Pertini di Genova (Sez. 5, n. 38085 del 05/07/2012, Rv. 253545), anche in un caso in cui un agente di polizia penitenziaria, imputato dei delitti di cui agli artt. 608 e 479 cod. pen., era stato riconosciuto responsabile del delitto di falso ideologico, per avere attestato in una relazione di servizio che le lesioni patite da un detenuto erano dovute ad una caduta dalle scale e non alle percosse infertegli (Sez. 5, n. 23672/2021).

3.3. Spostandosi sul fronte della prova dei fatti di tortura, e più specificamente su quello della valutazione della prova dichiarativa relativa alla narrazione testimoniale della vittima del reato, la giurisprudenza di legittimità (in particolare Sez. 3, 32380/2021, cit.) ha richiamato l’insegnamento impartito dal diritto vivente (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell’Arte, Rv. 253214), secondo cui le regole dettate dall’articolo 192, comma 3, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente da sole poste a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto, che, peraltro, ove questi si sia costituito parte civile, deve essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Al riguardo, è stato, comunque, precisato che i riscontri esterni, i quali non sono predeterminati nella specie e nella qualità, possono essere di qualsiasi tipo e natura ed essere tratti sia da dati obiettivi, quali fatti e documenti, sia da dichiarazioni di altri soggetti, purché siano idonei a convalidare “aliunde” l’attendibilità dell’accusa, tenuto anche presente che essi devono essere ricercati e valutati, con specifico riferimento alle dichiarazioni della persona offesa, nella prospettiva della verifica del grado di affidabilità della dichiarazione e non ai fini specifici previsti dall’articolo 192, comma 3, cod. proc. pen.. Ne viene che, per fondare il ragionevole convincimento circa la veridicità delle dichiarazioni della persona offesa, è sufficiente che i riscontri siano idonei a confermare, anche dal punto di vista logico, la credibilità della dichiarazione nel suo complesso e non rispetto a ciascuno dei particolari riferiti dal dichiarante, non essendo, oltretutto, neppure necessario che i riscontri attengano alla posizione soggettiva della persona attinta dalle dichiarazioni, perché le narrazioni della persona offesa, anche se costituita parte civile, non possono mai essere equiparate alla chiamata in reità o in correità (Sez. 3, n. 33589 del 24/04/2015, non mass.).

In conclusione, la Corte ha ribadito che la valutazione prettamente fattuale, ovvero di merito, del giudizio di attendibilità è una diretta conseguenza dei principi di oralità e di immediatezza che governano il processo penale, perché solo attraverso l’esame delle parti – che ordinariamente trova la propria sede naturale nella dialettica dibattimentale – e, dunque, solo dal contatto immediato con la fonte di prova, il giudice può desumere elementi diretti per percepire la veridicità del teste, la spontaneità e genuinità delle sue dichiarazioni oppure le incoerenze del narrato, le anomalie, le stranezze e tutti i segnali che possano contaminare la dichiarazione.

3.4. Trattandosi di evenienza ricorrente, quella in cui la parte offesa sia denunciata per calunnia dal pubblico ufficiale accusato di un delitto commesso con abuso di autorità, va ricordato l’indirizzo giurisprudenziale secondo cui sono utilizzabili le dichiarazioni rese in qualità di testimone dalla persona offesa che sia stata denunciata dall’imputato per calunnia, in quanto in tal caso non ricorre l’ipotesi di reati commessi da più persone in danno reciproco le une delle altre e non trovano conseguentemente applicazione le disposizioni di cui agli artt. 64, 197, 197-bis e 210 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 26409 del 08/05/2013, Rv. 255578). Invero, una lettura costituzionalmente orientata della previsione contenuta nell’art. 371, comma 2, lett. b), cod. proc. pen., impone di escluderne dall’applicazione quei reati che, seppure formalmente reciproci, siano stati commessi in contesti spaziali e temporali del tutto diversi (Sez. 2, n. 4128 del 09/01/2015, Rv. 262369).

3.5. In tema di tortura, la giurisprudenza di legittimità ha poi affermato che del “trauma psichico verificabile“, previsto dall’art. 613-bis cod. pen. come evento naturalistico del reato – il quale, come già evidenziato, non deve necessariamente tradursi in una sindrome duratura da “trauma psichico strutturato” (PTSD) e può consistere anche in una condizione critica temporanea – è richiesta l’oggettiva riscontrabilità, che non esige necessariamente l’accertamento peritale, né l’inquadramento in categorie nosografiche predefinite, potendo assumere rilievo, ai fini della relativa verifica, anche gli elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della vittima, dal suo comportamento successivo alla condotta dell’agente e dalle concrete modalità di quest’ultima (Sez. 5, n. 47079 del 08/07/2019, Rv. 277544), come già affermato dalla stessa giurisprudenza, in tema di atti persecutori, in cui si è detto che la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017, Rv. 269621).

3.6. Infine, proprio con riferimento al delitto di tortura di Stato, commesso in danno dei detenuti del carcere di santa Maria Capua Vetere il 6 aprile 2020, è stato enunciato dalla giurisprudenza di legittimità il principio di diritto secondo cui, in tema di esigenze cautelari, rispetto a reati comuni anche a base violenta (come quello di tortura), la sospensione disciplinare dal rapporto di lavoro non è idonea a elidere l’attualità del pericolo di reiterazione, in ragione sia della natura interinale del provvedimento amministrativo, sia della finalità di salvaguardia di interessi pubblici concernenti il rapporto di servizio con l’amministrazione, da questa perseguita, venendo in rilievo, invece, in ipotesi di reati comuni a base violenta, la tutela della collettività, con finalità di prevenzione generale (Sez. 5, n. 8970 del 09/11/2021 – dep. 16/03/2022, Rv. 283071).

In proposito, la Corte, dopo avere richiamato la propria giurisprudenza in tema di reati contro la P.A., secondo cui, anche dopo l’introduzione, nell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen., ad opera della legge 1.6 aprile 2015, n. 47, del requisito dell’attualità del pericolo di reiterazione del reato, il giudice di merito può ritenere sussistente il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie ex art. 274, comma1, lettera c), cod. proc. pen. pure quando il soggetto in posizione di rapporto organico con la P.A. risulti sospeso o dimesso dal servizio, purché fornisca adeguata e logica motivazione in merito alla mancata rilevanza della sopravvenuta sospensione o cessazione del rapporto, con riferimento alle circostanze di fatto che concorrono a evidenziare la probabile rinnovazione di analoghe condotte criminose da parte dell’imputato nella mutata veste di soggetto ormai estraneo all’amministrazione, in situazione, perciò, di concorrente in reato proprio commesso da altri soggetti muniti della qualifica richiesta (Sez. 6, n. 8060 del 31/01/2019, Rv. 275087; Sez. 5, n. 31676 del 04/04/2017, Rv. 270634), ha osservato come il principio affermato vada calibrato sulla diversa fattispecie di tortura, che, a differenza dei reati ‘propri’ contro la P.A., è un reato comune, così come tutti i reati a base violenta, oggetto del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie. Ha, quindi, statuito che, mentre con riferimento ai reati propri contro la P.A., ferma la compatibilità tra la sospensione disciplinare e la misura processuale, viene richiesta una motivazione sull’attualità del pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, poiché richiedono un rapporto qualificato tra l’autore e il bene giuridico tutelato, con riferimento ai reati comuni, ed in particolare ai reati a base violenta, non viene in rilievo un tale rapporto qualificato, sicché il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie non può essere eliso dalla sospensione della qualifica giuridica.

<<Del resto – è stato sottolineato – l’inidoneità della sospensione cautelare disciplinare ad elidere l’attualità del pericolo di recidiva è legata all’erroneità dell’impostazione che confonde il pericolo di reiterazione di reati della stessa specie, con il pericolo di reiterazione dello stesso fatto-reato, poiché dal tenore dell’art. 274, lett. c), cod. proc. pen., emerge in maniera evidente che l’oggetto del periculum è la reiterazione di astratti reati della stessa specie, non del concreto fatto-reato oggetto di contestazione, che, talvolta, non potrebbe neppure essere naturalisticamente reiterato (come nell’ipotesi di più grave aggressione al bene vita dell’omicidio)>>.

4. Conviene, allora, concludere con l’illuminista Pietro Verri19, avo del Manzoni: << Mi pare impossibile che l’usanza di tormentare privatamente nel carcere per avere la verità possa reggere però lungo tempo ancora, dopo che si dimostra che molti e molti innocenti si sono condannati al supplizio per la tortura, ch’ella è uno strazio crudelissimo e adoperato talora nella più atroce maniera, che dipende dal capriccio del giudice solo e senza testimonj l’inferocire come vuole; che questo non è un mezzo per avere la verità né per tale lo considerano le leggi né i dottori medesimi, che è intrinsecamente ingiusta, che le nazioni conosciute dell’antichità non la praticarono, che i più venerabili scrittori sempre la detestarono, che s’è introdotta illegalmente ne’ secoli della passata barbarie e che finalmente oggigiorno varie nazioni l’hanno abolita e la vanno abolendo senza inconveniente alcuno>>.

Napoli, 14 luglio 2022. Irene Scordamaglia

1 Fiandaca-Musco, PG, 312

2 Si chiedeva che la Corte Costituzionale ampliasse l’area di imprescrittibilità, prevista per i delitti puniti con la pena dell’ergastolo dal comma 8, dell’art. 157 cod. pen., ad ipotesi di reato quali le lesioni aggravate e tutte quelle altre formulabili in relazione a fatti rientranti nel concetto di maltrattamenti (‘ill treatments’) quali violazioni dell’art. 3 della Convenzione EDU.

3 Come ha ripetutamente affermato la giurisprudenza costituzionale (cfr. sent. n. 394 del 2006 e ord. n. 65 del 2008).

4 Libertà personale che compete indistintamente ad ogni essere umano e che consiste primariamente nel diritto di realizzare la propria soggettività al riparo da coercizioni esterne.

5 In dottrina, F. Viganò, sub Art. 608, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, pp. 1656-1659, secondo il quale il delitto di abuso di autorità verso arrestati o detenuti attribuisce rilevanza alle sole condotte abusive volte a determinare illegittime restrizioni della libertà residua di costoro.

6 La decisione richiamata si riferisce ai fatti addebitati a due agenti della Polizia Penitenziaria in servizio presso la casa circondariale di Asti, che, abusando dei poteri inerenti alla loro funzione, avevano maltrattato due detenuti affidati alla loro vigilanza e custodia, in quanto ristretti in regime di detenzione carceraria, sottoponendoli a un tormentoso e vessatorio regime di vita all’interno della struttura carceraria. In particolare, si legge nella sentenza che gli imputati avevano spogliato due detenuti e li avevano rinchiusi in una cella senza vetri alle finestre, priva di materasso per il letto, di lavandino e di sedie o sgabelli; ivi li avevano lasciati (i primi giorni completamente nudi) per circa due mesi, fornendo loro unicamente pane e acqua. Durante tale periodo li avevano picchiati ripetutamente, anche più volte al giorno, con calci, pugni e schiaffi in tutto il corpo, fino a cagionare loro lesioni personali (ad uno la frattura dell’ottava costola sinistra ed ecchimosi diffuse in sede toracico-addominale di sinistra e ad un altro lo strappo dei capelli).

7 G. Leineri, Quale inquadramento giuridico per la tortura subita in carcere? Maltrattamenti in famiglia o abuso di autorità contro arrestati o detenuti?, in Il Foro Italiano, 2014, fasc. 4, Parte 2, pp. 260.

8 A. Colella, La risposta dell’ordinamento interno agli obblighi sovranazionali di criminalizzazione e di persecuzione penale della tortura, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, pp. 852-854 e dello stesso autore, La Cassazione si confronta, sia pure in fase cautelare, con la nuova fattispecie di ‘tortura’ (art. 613 bis c.p.), in Il Sistema Penale, 16 gennaio 2020. G. Simion, Tortura di Stato: riflessioni ai margini delle prime sentenze di condanna nei confronti di Pubblici Ufficiali, in Il Penalista, Focus dell’11 marzo 2021.

9 Con nota di S. Bernardi, Carcere e tortura: la Cassazione si esprime (in sede cautelare) sui fatti di Santa Maria Capua Vetere, in Il Sistema Penale, 5 aprile 2022.

10 Nella sentenza si dà conto di come fosse stata posta in essere <<una violenza cieca ai danni di detenuti che, in piccoli gruppi o singolarmente, si muovevano in esecuzione degli ordini di spostarsi, di inginocchiarsi, di mettersi con la faccia al muro; i detenuti, costretti ad attraversare il c.d. “corridoio umano” (la fila di agenti che impone ai detenuti il passaggio e nel contempo li picchia), venivano colpiti violentemente con i manganelli, o con calci, schiaffi e pugni; violenza che veniva esercitata addirittura su uomini immobilizzati, o affetti da patologie ed aiutati negli spostamenti da altri detenuti, e addirittura non deambulanti, e perciò costretti su una sedia a rotelle. Oltre alle violenze, venivano imposte umiliazioni degradanti – far bere l’acqua prelevata dal water, sputi, ecc. -, che inducevano nei detenuti reazioni emotive particolarmente intense, come il pianto, il tremore, lo svenimento, l’incontinenza urinaria>>.

11 Costoro, secondo quanto riportato nella stessa sentenza, erano stati <<costretti senza cibo, senza biancheria da letto e da bagno, senza ricambio di biancheria personale, senza possibilità di fare colloqui con i familiari; tant’è che alcuni detenuti indossavano ancora la maglietta sporca di sangue, e, per il freddo patito di notte, per la mancanza di coperte e di indumenti, erano stati costretti a dormire abbracciati>>.

12 In dottrina – A. Colella, sub Art. 613-bis, in E. Dolcini – G.L. Gatta, Codice penale commentato, V ed., 2021, p. 1977 – si è sostenuto che l’utilizzo dell’espressione “fatti” al plurale all’interno dell’art. 613-bis, comma 2, cod. pen., deporrebbe per la configurazione della tortura di Stato come reato necessariamente abituale.

13 In motivazione si legge che le reiterate aggressioni ai danni di una vittima inerme, accompagnate da urla di scherno e immortalate attraverso videoriprese erano espressive del perseguimento, da parte degli aggressori, di una forma di sadica soddisfazione per la propria capacità di generare sofferenza. Tale valutazione è in linea con l’insegnamento impartito dalle Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 40516 del 23/06/2016, Rv. 267629.

14 Fanno richiamo alle pronunce convenzionali che hanno proposto una lettura moderna ed avanzata di tortura, nel senso della mortificazione o all’annientamento dei diritti fondamentali, che costituiscono il nucleo della dignità della persona, a prescindere dall’aggressione al corpo dell’uomo, considerando in contrasto con l’art. 3 CEDU anche le cd. ‘torture bianche’, Sez. 5, n. 47079/2019, pag. 13, e Sez. 3, n. 32380/2021, pag. 19, citando la sentenza della Corte europea (Aydin c. Turchia, 25 settembre 1997, ric. n. 23178/94), secondo la quale anche la violenza sessuale può assurgere a tortura.

15 Nella sentenza Sez. 3, 32380/2021 è stato enunciato il principio di diritto secondo il quale vi è concorso materiale tra il delitto di maltrattamenti e quello di tortura; tanto perché, operato il confronto strutturale delle fattispecie, per l’integrazione del delitto ex art. 572 cod. pen. (reato necessariamente abituale) possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, mentre ai fini della configurabilità del delitto ex art. 613-bis cod. pen. (reato eventualmente abituale) dovranno, invece, necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sé reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico, con la conseguenza che ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti (cfr. in motivazione, pag. 19).

16 Sez. U, n. 5021 del 27/03/1996, Rv. 204643; Sez. 2, n. 31225 del 25/06/2014, Rv. 260033.

17 Con la sentenza 1 giugno 2010, ric. n. 22978/05, Gafgen c. Germania, la Grande Camera della Corte Edu ha riconosciuto al ricorrente lo status di vittima della violazione dell’art. 3 CEDU. La GC ha sottolineato che le minacce che due agenti di polizia avevano utilizzato per estorcergli la confessione – ossia affinché rivelasse d’aver commesso il fatto per cui si procedeva (sequestro di persona e omicidio in danno di un bambino) – avevano comportato che egli fosse sottoposto ad un trattamento inumano. Nella decisione del 30 giugno 2008, sempre Gäfgen c/ Germania, la Corte europea era stata chiamata a pronunciarsi anche sulla questione della utilizzabilità nel processo penale delle prove frutto di una condotta illecita da parte della polizia giudiziaria e della loro incidenza sulle acquisizioni successive. La Corte aveva escluso che vi fosse stata una violazione del processo “equo” nel suo complesso considerato, atteso che la sentenza di condanna si era fondata sulla nuova confessione resa in dibattimento dall’imputato e su alcune prove materiali non direttamente collegate alle precedenti dichiarazioni estorte nel corso dell’interrogatorio.

18 Sez. 5, n. 12697 del 20/11/2014 – dep. 25/03/2015, Rv. 263034.

19 Osservazioni sulla tortura e singolarmente sugli effetti che produsse all’occasione delle unzioni malefiche alle quali si attribuì la pestilenza che devastò Milano l’anno 1630 [1776-1777], Testo critico stabilito da Gennaro Barbarisi (Edizione Nazionale delle opere di Pietro Verri, VI, 2010, pp. 37-139)

Scarica il pdf

Condividi