Premessa di Mirella Cervadoro

Memoria è continuità

  1. Testimoni Capaci

Iniziato il 23 maggio a Palermo, proseguito – secondo il programma già pubblicato sulla rivista – presso la Scuola di formazione dell’Amministrazione penitenziaria “Giovanni Falcone” dove sono custoditi i resti dell’auto del giudice ucciso nell’attentato del 1992,  è terminato il 27 maggio 2023, con la Notte bianca della legalità in Cassazione, il viaggio ideale dell’agenda di Giovanni Falcone, testimone di una veglia staffetta di tre giorni alla quale hanno partecipato circa 2000 studenti da tutta Italia, 200 scout, e circa 300 tra magistrati e rappresentanti della società civile nel progetto “Testimoni Capaci”.

E’ stata un’esperienza affascinante e coinvolgente; vale la pena lasciare una testimonianza scritta delle narrazioni dei magistrati anziani sulla vita dei magistrati (“le rose spezzate”) morti per difendere la legalità, dei giovani magistrati sulle loro prime esperienze,  e degli altri intervenuti quali persone significative della società civile.

Abbiamo quindi pensato di pubblicare in questo e nei prossimi numeri gli atti scritti inviatici da alcuni dei partecipanti all’evento inserendoli nella sezione “Oltre il diritto”.

  1. La memoria

“La memoria è tesoro e custode di tutte le cose”. Nel “De oratore”, Cicerone afferma che la storia “è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita”.

Tenere viva la memoria di ciò che è passato è fondamentale per valorizzare le esperienze vissute.

Mentre mi accingevo a scrivere queste due righe di presentazione mi è venuta in mente una delle opere più note e ammirate di Salvador Dalì, “La persistenza della memoria”, nella quale il pittore raffigura una landa deserta in cui sono presenti alcuni orologi molli, di una consistenza quasi liquida. Un solo orologio, più piccolo, è duro e compatto, ma assalito dalle formiche nere brulicanti, che sembrano divorarlo, quasi a indicare l’annullamento di un tempo cronologico. La mosca adagiata sul primo orologio suggerisce, poi, che “l’oggetto della memoria è una qualche specie di carogna, che si imputridisce nella stessa maniera in cui si liquefà” (AA.VV., La biblioteca è una bella storia: parole, spazi, idee per stare insieme, quarto incontro, Feltrinelli). Diversa e relativa nella forma, fino a disvelarsi altra cosa da sé.

Da qui l’importanza dei documenti e dei testimoni.

Non sono esperta di memoria o di storia, ma mi piace pensare che tutti possiamo fare raccolta di memoria, anche partendo da piccole cose, così da evitare l’imputridimento della mosca di Dalì e arricchire la memoria collettiva.

E’ importante – come dice Umberto Eco nella famosa lettera a un nipote del 2014 – sapere quello che è accaduto prima, anche della propria nascita, “perché molte volte quello che è accaduto prima ti spiega perché certe cose accadono oggi”.

  1. Memoria è continuità.

Domani 28 luglio 2023, alle ore 11,00, nell’Aula  Magna della Corte d’Appello di Palermo si svolgerà il Convegno “Memoria è continuità: il lavoro di Rocco Chinnici, dall’ufficio istruzione di Palermo alla Legislazione Antimafia italiana ed europea”, organizzato dalla Fondazione Rocco Chinnici, con il patrocinio del Ministero della Giustizia e dell’Associazione Nazionale magistrati.

Abbiamo oggi ricevuto un ricordo testimonianza dello scrittore e giornalista, Felice Cavallaro, ideatore e fondatore della associazione Strada degli Scrittori, che – per la conoscenza personale e per il suo lavoro quale giornalista del Giornale di Sicilia, prima, e del Corriere della Sera poi – è uno dei più autorevoli testimoni della nascita del pool e dell’attività di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

In questa importante occasione di memoria, pubblichiamo volentieri e con orgoglio l’articolo di Felice Cavallaro.

A seguire, il 29 luglio 2023, nell’occasione dell’anniversario della morte di Rocco Chinnici, pubblicheremo lo splendido ricordo che ci ha fatto pervenire la figlia Caterina Chinnici.

Nascita del pool antimafia. Una domenica a casa di Rocco Chinnici di Felice Cavallaro

 PALERMO – Avevano ucciso Cesare Terranova da tre mesi quando Rocco Chinnici, nominato al suo posto capo dell’Ufficio istruzione, si ritrova il 6 gennaio del 1980 all’ora di pranzo in via Libertà, a Palermo, davanti alla macchina da dove Piersanti Mattarella, ferito a morte, era stato appena tirato fuori dal fratello, Sergio. Un’immagine iconica dell’inferno in cui precipitava la città sfregiata dall’assalto della mafia. Segno di una devastazione che, prima dell’agguato al presidente della Regione, era costata la vita nel 1979 anche al cronista giudiziario Mario Francese, al segretario provinciale della Dc Michele Reina, al capo della Squadra Mobile Boris Giuliano, allo stesso Terranova, pronto a rientrare al palazzo di giustizia dopo un’esperienza in parlamento, in commissione antimafia.

   E’ in quella drammatica Epifania che si salda l’intesa di Chinnici con Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, i due magistrati allora appena cooptati per costruire un gruppo di lavoro, appunto il famoso “pool” di cui il nuovo Consigliere istruttore parla ai suoi “ragazzi” indicando il modello seguito in Piemonte, Lombardia e altre aree del Nord per combattere il terrorismo.

   Mentre il pur diviso pianeta antimafia ricorda il trentunesimo anniversario della strage di via D’Amelio, consumata nel 1992 per uccidere Borsellino a 57 giorni dall’apocalisse di Capaci, per capire quella rivoluzione, bisogna ripercorrere passi ed emozioni, scelte e atti giudiziari dei tre protagonisti sconvolti dall’assalto di Cosa nostra, pronta a decapitare i capi della politica, dell’apparato inquirente, della stessa magistratura. 

   Come reagire? Che fare? Allora Chinnici, Falcone e Borsellino e pochi altri convergono su un piano, capiscono che ci vuole una svolta nella lotta alla mafia, una nuova mentalità, un diverso metodo di lavoro e che servono nuove norme legislative. Di questo si discute una domenica a casa Chinnici, come racconta il figlio del magistrato, Giovanni, oggi avvocato, in una pagina del libro da lui recentemente pubblicato, a 40 anni dall’assassinio del padre, vittima della strage di via Pipitone Federico il 29 luglio 1983 insieme con due carabinieri di scorta e il portiere del palazzo.

   Entriamo con Giovanni, allora quindicenne, nello studio di Chinnici che quella domenica ha invitato a pranzo Giovanni Falcone. Terzo piano del palazzo che tre anni dopo sarà devastato dalla prima autobomba stile libanese. La madre è in cucina, le sorelle studiano nelle loro camere e il ragazzo, non lontano dal padre che non si accorge di lui ascolta una vera e propria lezione di mafia al magistrato arrivato dalla “fallimentare”.

   Un ricordo nitido. Una storia che comincia nel 1975 quando Chinnici viene nominato Consigliere istruttore aggiunto di un ufficio poi cancellato dal nuovo codice. Caustica la sua battuta: “Allora dicevo che ero della CIA, appunto Consigliere Istruttore Aggiunto”. Una battuta e una lezione che parte addirittura dal 1967, quando Chinnici istruì il suo primo processo: “Con imputati assolti per insufficienza di prove, mentre in appello furono assolti con formula dubitativa per l’omicidio, ma condannati tutti per associazione a delinquere. Con sentenza confermata in Cassazione”. Di qui la considerazione che gli “associati” fossero legati per affiliazione o per interessi particolari a una “regia” della mafia e che per combatterla occorresse contrapporre “una regia unica”.

   Ai ricordi di Giovanni Chinnici e alle pagine del suo libro potrei aggiungere qualche dettaglio personale essendo stato dal 1979 affittuario del padre in quel palazzo, coinquilino dell’appartamento a fianco, per sua offerta arrivata mentre cercavo “una casa più sicura” dopo l’agguato mortale a Francese, il giornalista mio compagno di scrivania.

   Combaciano e s’intrecciano i ricordi personali di lunghe conversazioni e quelli del figlio. Ricordi che rivelano una amara confidenza su alcuni magistrati in servizio negli anni Settanta, soprattutto quando nel 1975 si provò a ostacolare quella linea attivata da Chinnici. E per contrastarla si pensò a una sorta di patto sotterraneo fra tanti avvocati e parte dei giudici, con l’idea di perseguire solo “reati specifici” e non più l’associazione, la pur semplice associazione a delinquere.

   Sintetizzava la storia di quegli anni Chinnici raccontando a Falcone i suoi primi processi: “Io avevo utilizzato elementi che potevano apparire anche tenui”. Ed ancora: “Se oggi ammazzano uno a Uditore, un altro allo Sperone e uno ancora a Borgo Vecchio, io dovrei assegnarli a tre giudici diversi, ma così non ci capiamo niente. Se va bene, ci fermiamo al primo livello e arrestiamo quattro canazzi che ammazzano.

Ma se i tre giudici lavorano insieme e legano tutta una serie di dati, dai canazzi possiamo arrivare a chi li manda, il secondo livello, appunto la regia unica…”.

    Si lavorava a quel tempo senza intercettazioni, pentiti e nemmeno indagini bancarie. Ma Chinnici, pensando soprattutto agli esattori Nino e Ignazio Salvo, aveva intuito le relazioni esterne dei mafiosi, esplicito con Falcone, mentre Giovanni ascoltava: “Hanno amicizie nella politica, nelle banche, nell’economia. In mezzo c’è anche qualche nostro collega. Non dico organico, ma chiude un occhio, trova raffinate soluzioni giuridiche per escludere la responsabilità invece di affermarla. In cambio di una Mercedes o di una casa o di un posto per il figlio… Oppure in osservanza di una discutibile massima: ‘quieta non movere et mota non quietare’”.

   Parlava del terzo livello, quello dei colletti bianchi: “E temo qualche copertura istituzionale”.

   Con Falcone, sorpreso: “A Roma?”. “Si, a Roma”. E Falcone: “Minchia! E come ci arriviamo, noi, a Roma?”.

   Quanto basta perché Giovanni Chinnici oggi rifletta su un pezzo di storia giudiziaria vissuta da testimone: “Credo che quella domenica sia nato il pool antimafia”.

   Nacque quella domenica certamente l’idea di pensare a una nuova più incisiva normativa, facendo leva sull’ “associazione”, ma da definire meglio. Di questo, sempre nello studio di quel terzo piano, Chinnici avrebbe parlato più volte anche con Pio La Torre, il segretario del partito comunista, il parlamentare con il quale ipotizzarono il reato di “associazione di stampo mafioso”, il 416 bis, inserito nel codice penale, nel quadro di una legge che porta il nome di La Torre e dell’ex ministro Virginio Rognoni. Legge approvata però solo dopo il massacro dello stesso La Torre e del suo fido Rosario di Salvo (30 aprile 1982) e dopo l’eccidio di Carlo Alberto dalla Chiesa (3 settembre) caduto con la moglie Emanuela e l’agente Domenico Russo.

    Una stagione di eventi cruenti e di scelte normative segna l’avvio di quel pool che comincia a fare paura a chi governa, a chi ha un piede nella mafia e un altro tra affari e politica. Prova del “concorso esterno” di una “zona grigia” da colpire come intuiranno Falcone e Borsellino quando decideranno di miscelare quel “416 bis” con l’articolo 110 per definire il “concorso” che da qualche tempo tanti vorrebbero meglio tipizzare, come propone l’attuale ministro della giustizia.

   Che sia necessario combattere le “zone grigie” della “complicità” fra mafia ed esterni “con la stessa fermezza con cui si contrasta l’illegalità”, nel giorno dell’anniversario di via D’Amelio, lo ha ribadito Sergio Mattarella, il presidente della Repubblica fotografato quella drammatica Epifania mentre tirava fuori dall’auto il fratello Piersanti. A riprova, 43 anni dopo, dell’attualità della visione di Chinnici, leva per Falcone e Borsellino di un ulteriore passaggio destinato a colpire le connivenze, strada maestra per giungere al maxi processo.

   Ma attenti, oggi come allora, al doppio gioco. Come Chinnici capì negli ultimi tre roventi anni della sua vita. Anche dopo l’approvazione della Rognoni-La Torre, quando replicò immediato all’intervista di un notabile del tempo, l’onorevole Salvatore Grillo, ras della Democrazia cristiana nel trapanese, vicino ai Salvo. Aveva parlato di legge illiberale, di legge anti-siciliana e dei contraccolpi all’economia, quel deputato. Redarguito dal padre del pool: “La legge semmai può sanare l’economia”.

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