1. Premessa; 2. L’azione civile ex legge 117/88; 3. L’esposto penale e
disciplinare; 4. L’articolo di giornale e la campagna mediatica; 5, Conclusioni

1. PREMESSA

La presente riflessione – frutto delle esperienze personali vissute dal 2012 al 2018 nell’ambito del c.d. “sistema Siracusa”- muove dalle seguenti considerazioni:


a) l’azione investigativa (ma anche la decisione giudiziaria) viene – sempre più -ostacolata con manovre elusive e di intralcio ancorate all’utilizzo degli strumentiordinamentali che attengono alla responsabilità del magistrato nei tre settori di elezione (responsabilità civile – responsabilità penale – responsabilità disciplinare);
b) il ricorso – spesso congiunto – alle tre tipologie di responsabilità si salda in modo perverso con la disciplina sull’astensione e la ricusazione del magistrato (prevista per il giudice – astensione e ricusazione – dagli artt. 34 e ss. e per il PM – solo astensione –dall’art. 52 del c.p.p.);
c) all’azione sub a) può essere associata una campagna mediatica (attraverso giornali locali o, sempre più frequentemente, social media) ulteriormente mirata a creare le condizioni sub b).


Le finalità delle azioni disciplinari o giudiziarie (supportata dall’eventuale campagna mediatica) nella prospettiva che qui interessa sono del tutto avulse dall’obiettivo “strutturale” dell’azione intrapresa (risarcimento, condanna penale o disciplinare) e mirano sovente a generare una reazione del magistrato coinvolto che consenta poi di invocare la disciplina sull’astensione (sub b) attaccando successivamente il giudice o il PM proprio perché ancora non astenuto.
Tale situazione si presenta particolarmente insidiosa per il magistrato del Pubblico Ministero poiché non esiste, per il sostituto, un istituto analogo alla ricusazione e, pertanto, la valutazione sull’esistenza delle condizioni previste dall’art. 52 è rimessa alla sola valutazione interna dello stesso PM e non segue una procedura giurisdizionalizzata.


Cassazione civile sez. un., Sent. 1757 del 13/04/1999: “L’inammissibilità di una ricusazione del rappresentante del pubblico ministero, con la previsione soltanto della facoltà di astensione per gravi ragioni di convenienza, ai sensi dell’art. 73 c.p.p., non osta a che il mancato esercizio di tale facoltà possa implicare responsabilità disciplinare del magistrato, ove integri un comportamento inopportuno od avventato, idoneo a pregiudicare il prestigio suo o dell’ordine giudiziario (nella specie 2 il magistrato, quale rappresentante del p.m., a seguito di una denuncia a suo carico, aveva instaurato un procedimento per calunnia nei confronti del denunciante)”.


***


Il primo obiettivo di questo scritto è, quindi, quello di individuare le caratteristiche essenziali dell’attività di disturbo investigativo per verificare se e quali reazioni attuare senza necessariamente trovarsi in condizioni che impongano o anche solo “suggeriscano” l’astensione


2. L’AZIONE CIVILE EX LEGGE 117/88 (COME MODIFICATA DA ULTIMO CON LEGGE N. 19 DEL 2015)


L’azione civile per responsabilità del magistrato nella fase delle indagini è solo apparentemente limitata dalla disposizione di cui all’art. 4 della legge 117/88.


“L’azione di risarcimento del danno contro lo Stato può essere esercitata soltanto quando siano stati
esperiti i mezzi ordinari di impugnazione o gli altri rimedi previsti avverso i provvedimenti cautelari e sommari, e comunque quando non siano più possibili la modifica o la revoca del provvedimento ovvero, se tali rimedi non sono previsti, quando sia esaurito il grado del procedimento nell’ambito del quale si è verificato il fatto che ha cagionato il danno. La domanda deve essere proposta a pena di decadenza entro ((tre anni)) che decorrono dal momento in cui l’azione è esperibile”.


Invero, la Cassazione è ormai assestata nel senso di:


Cass., Sez. 3, Sentenza n. 22006 del 13/10/2006


“In tema di responsabilità civile dei magistrati e ai fini della decorrenza del termine decadenziale per l’azione di risarcimento di cui all’art. 4 legge n. 117 del 1988, gli atti del P.M. preordinati alla emissione di un provvedimento cautelare, come quelli diretti ad evitarne la revoca o la modifica, devono ritenersi impugnabili, sia pure non autonomamente, bensì nei modi e nei termini in cui è impugnabile il provvedimento giurisdizionale cui ineriscono; ne consegue che, in relazione ad una richiesta di misura cautelare da parte del P.M., i due anni per la proposizione dell’azione diresponsabilità devono ritenersi decorrenti non dall’esaurimento del grado del procedimento nell’ambito del quale si sia verificato il danno (come prescritto per gli atti per i quali non siano previste impugnazioni), ma dal momento in cui non sia più passibile di revoca o di modifica (perché definitivamente caducata o per avere esaurito suoi effetti) l’ordinanza del Gip che dispose la misura cautelare, giacché la richiesta del P.M. non è “ex se” impugnabile, in quanto da sola non è idonea ad incidere sulla libertà, e tenuto conto che soltanto il provvedimento del giudice che accolga tale richiesta può limitarla, dando eventualmente luogo ad un danno ingiusto (e risarcibile), così che le impugnazioni dirette contro l’ordinanza del giudice investono inevitabilmente anche la richiesta del P.M. (quando il provvedimento sia ed essa conforme), perché il P.M. ha presentato gli elementi ritenuti necessari e di quegli elementi il giudice si è valso per emettere l’ordinanza”.

La citazione, quindi, può senza dubbio giungere anche nel corso delle indagini e si pone il problema di comprendere se ed in che termini la reazione alla citazione con l’eventuale costituzione in giudizio implichi la nascita di un obbligo di astensione in capo al magistrato del Pubblico Ministero.


Il meccanismo della responsabilità civile del magistrato è noto. Il privato cita la Presidenza del Consiglio dei Ministri lamentando il danno causato dall’attività del magistrato, la citazione viene notificata anche al magistrato che può svolgere un intervento diretto nella causa ovvero non intervenire.
Nel primo caso, pur restando il rapporto risarcitorio esclusivamente tra il privato e l’amministrazione, il giudicato dispiega i suoi effetti anche nel successivo (obbligatorio) giudizio di rivalsa nei confronti del magistrato.
Nel secondo caso, invece, l’eventuale condanna dell’amministrazione non ha effetti diretti nel giudizio di rivalsa che deve accertare ex novo la responsabilità del magistrato. A prescindere dall’intervento, tuttavia, l’eventuale condanna dello Stato nel procedimento ex legge 117/88 impone l’apertura del procedimento disciplinare a carico del magistrato la cui condotta ha cagionato il risarcimento del danno.
L’eliminazione del filtro di ammissibilità dell’azione civile (dovuta alla legge 19/2015) rende purtroppo necessaria una scelta nell’immediatezza della citazione ricevuta.
Deve essere, preliminarmente precisato come la costituzione di per se non sia causa di “inimicizia grave”.


Prima del filtro infatti:
Cassazione civile sez. un., 22/07/2014, n.16627
Attesa la tassatività dei casi di ricusazione del giudice, soggetti a stretta interpretazione, la “inimicizia” del ricusato, ai sensi dell’art. 51, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., non può essere desunta dal contenuto di provvedimenti da lui emessi in altri processi concernenti il ricusante, tranne che le “anomalie” siano tali da non consentire neppure di identificare l’atto come provvedimento giurisdizionale; né la “causa pendente” tra ricusato e ricusante, ai sensi della medesima norma, può essere costituita dal giudizio di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, che non è un giudizio nei confronti del magistrato, bensì nei confronti dello Stato.


Dopo l’eliminazione del filtro analogamente:
Cassazione civile sez. un., 23/06/2015 n.13018
In tema di ricusazione del giudice, non è “causa pendente” tra ricusato e ricusante, ai sensi dell’art.
51, n. 3, cod. proc. civ., il giudizio di responsabilità di cui alla legge 13 aprile 1988, n. 117, atteso che
il magistrato non assume mai la qualità di debitore di chi abbia proposto la relativa domanda, questa
potendo essere rivolta, anche dopo la legge 27 febbraio 2015, n. 18, nei soli confronti dello Stato.

In motivazione la Cassazione ha precisato come:
“Prive di fondamento sono poi le ulteriori osservazioni in ordine alla valorizzazione della pendenza
di una causa di responsabilità ex L. n. 117 del 1988. In proposito, è sufficiente qui ricordare quanto
di recente affermato dalla 6 Sezione Penale della Corte: il magistrato la cui condotta professionale sia4
stata oggetto di una domanda risarcitoria ex lege n. 117 del 1988 non assume mai la qualità di debitore
di chi tale domanda abbia proposto. Ciò per l’assorbente ragione che la domanda (anche dopo la L. n.
18 del 2015) può essere proposta solo ed esclusivamente nei confronti dello Stato (salvi t casi di
condotta penalmente rilevante, art. 13).

Nè la eventualità di una successiva rivalsa dello Stato nei confronti del magistrato, nel caso in cui quell’originaria azione si sia conclusa con la condanna dell’Amministrazione, muta la conclusione,
perchè i presupposti e i contenuti dell’azione di rivalsa sono parzialmente diversi da quelli dell’azione
diretta della parte privata nei confronti del solo Stato (art. 7; artt. 2 e 3). Il che, tra l’altro, impone di escludere che anche nel caso di intervento del magistrato nel processo civile che la parte promuove ex lege n. 117 del 1988 (art. 6), si instauri un rapporto diretto parte/magistrato che possa condurre alla qualificazione del secondo in termini di anche solo potenziale debitore della prima. In altri termini, non solo la qualità di debitore si assume nel momento in cui vien riconosciuta la compiuta fondatezza della pretesa risarcitoria, e non prima, ma nel caso del sistema della L. n. 117 del 1988 il magistrato la cui condotta professionale è valutata nel processo civile non potrà mai assumere la qualità di debitore della parte privata (Cass. pen. n. 19924 del 2015)”.


Non c’è dubbio, tuttavia, che la costituzione comporti un “tu per tu” con l’indagato, avvicini il magistrato alla contrapposizione diretta con la parte con il rischio di degenerare in una situazione processualmente conflittuale che potrebbe essere ulteriormente strumentalizzata da parte degli indagati.


Sono possibili reazioni alla citazione (specie se evidentemente strumentale) diverse dalla costituzione che consentono, comunque, di non restare inerti rispetto alle pressioni subite.


La soluzione passa attraverso l’istaurazione di un rapporto di collaborazione con l’Avvocatura dello Stato che è tenuta a rappresentare l’amministrazione nel giudizio.
Dopo la citazione è buona norma prendere diretti contatti con l’Avvocatura distrettuale competente individuando l’avvocato assegnatario della pratica con il quale si può concordare linea difensiva, capitolati di prova (fondamentale per evitare di avere pregiudizi istruttori in caso di intervento tardivo), eccezioni preliminari, etcc.. .
Si tratta di un’attività di collaborazione perfettamente legittima (e peraltro condivisa da quasi tutte le amministrazioni che si rivolgono all’Avvocatura di Stato) che consente però:
– di responsabilizzare l’Avvocatura rispetto alla stessa difesa. Il rapporto istaurato indurrà verosimilmente l’avvocato titolare a seguire direttamente il processo in udienza (senza affidarlo ad uno dei procuratori in turno) e consentirà al magistrato di mantenere il controllo sull’andamento del giudizio consentendo di richiedere interventi correttivi nel corso del giudizio;
– di fornire indicazioni più pregnanti all’avvocato che consentano allo stesso di comprendere anche lo scenario nel quale l’azione si inserisce.


Ricordarsi comunque di denunciare il sinistro all’assicurazione.


3. L’ESPOSTO PENALE E DISCIPLINARE
L’esposto penale e/o disciplinare viene presentato quasi sempre in modo congiunto e, quasi sempre, l’indagato ha cura di portarlo a conoscenza del magistrato coinvolto pressoché immediatamente chiedendo contestualmente la sua astensione dalla trattazione del procedimento.


ATTENZIONE – la presentazione dell’esposto è sovente accompagnata da una massima particolarmente inquietante della Sezione disciplinare CSM:


Sentenza n. 135 del 2008 – RGN 26/2008
Configura illecito disciplinare nell’esercizio delle funzioni per consapevole inosservanza dell’obbligo
di astensione nei casi previsti dalla legge, la condotta del magistrato che ometta di astenersi in una
causa civile pur essendoci un motivo di grave inimicizia con uno dei difensori, avendo quest’ultimo
presentato un esposto nei suoi confronti.


La lettura della motivazione del provvedimento restituisce – per fortuna – una realtà diversa:


Invece il fatto descritto al capo b) dell’incolpazione integra la violazione dell’art. 2 1°co. lett. c D.Lgs. 109/2006, per non essersi il dott. NOME1 astenuto in una causa civile, pur essendoci un motivo di grave inimicizia con uno dei difensori, il quale aveva presentato un esposto nei suoi confronti.
illecito disciplinare di cui all’art. 2, comma primo, lettera c) decr. Leg.vo n. 109/2006 per avere – nell’ambito di una delle procedure ex artt. 51 e segg. cpc e nel contesto della situazione di tensione descritta sub A) – presentato due memorie scritte in data 23.9 e 2.10.2006 dirette al collegio che doveva
decidere sulla richiesta di astensione – ricusazione per “grave inimicizia” proposta dall’Avv. NOME3 di LOCALITA1 – adottato espressioni e mantenuto un tono argomentativo caratterizzati da carenza di misura ed equilibrio nonché da contrapposizione astiosa e pervicace; in particolare qualificava come “calunniose e diffamatorie le affermazioni contenute nell’esposto 20.2.2006” e di “esasperante monotonia e pressappochismo giuridico” la tesi del ricusante, il quale “ignora” la giurisprudenza in materia di sentenza ex art. 187 cpc in relaz. art. 80 bis disp. attuaz. stesso codice e che il tutto “concretizza autentica violazione dei canoni di deontologia forense”.


Dalla lettura della motivazione si comprende, pertanto, come l’inimicizia non sia stata ravvisata nella mera presentazione dell’esposto da parte del privato, ma nel tenore delle espressioni utilizzate nel magistrato nelle memorie dirette al collegio che doveva decidere sulla richiesta di astensione – ricusazione per “grave inimicizia”.


In realtà il principio guida sulla correlazione tra l’obbligo di astensione e la presentazione di un esposto nei confronti del magistrato è quello del 1997 poi consolidatosi con pronunce successive in base al quale:

Sentenza n. 132 del 1997 – RGN 74/1997 [sentenza]
La presentazione di un esposto contro il magistrato procedente da parte di persona da quest’ultimo indagata e la conseguente iscrizione nel registro delle notizie di reato con avvio delle relative indagini (che sono atti doverosi da parte dell’autorità giudiziaria destinataria della denuncia), non bastano da sole a far scattare i presupposti della astensione, perché altrimenti verrebbe concesso a chiunque un valido espediente per liberarsi di un magistrato non gradito. Occorre, pertanto, valutare di volta in volta il contenuto delle accuse per verificare se la denunciata inimicizia non sia semplicemente strumentale, ma effettiva.

Questa volta la massima disciplinare non è lontana dal testo della sentenza:

Sentenza n. 132 del 1997
L’attività inquirente del dott. NOME1 è risultata particolarmente sgradita al NOME2, il quale ha sporto alcune denunce anche in sede penale sostenendo di essere stato vittima di abusi di varia natura; a seguito di esse il magistrato è stato a sua volta sottoposto ad indagini preliminari da parte del pubblico ministero di LOCALITA2, che si sono concluse con provvedimenti di archiviazione (in data 2 aprile e 28 maggio 1996).
L’incolpazione disciplinare fa riferimento specifico al provvedimento del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di LOCALITA3 del 20 gennaio 1996, che ritenne di accogliere un’apposita istanza ed avocò uno dei procedimenti trattati dal dott. NOME1, ritenendo che sussistessero gli estremi per l’astensione di quest’ultimo sulla base dei motivi invocati dal NOME2 relativi sia alla pendenza in quel periodo delle già ricordate indagini preliminari a carico del magistrato, sia ad un presunto debito che il dott. NOME1 avrebbe avuto nei confronti del NOME2 che, a dire di quest’ultimo, nel 1986 avrebbe svolto un incarico di ristrutturazione dell’appartamento del magistrato per il quale non era mai stato retribuito.
Per quel che riguarda il primo aspetto, occorre osservare innanzitutto che non è sufficiente a creare una situazione di inimicizia tale da dar luogo ai presupposti per l’astensione un esposto contro il magistrato procedente presentato da persona da quest’ultimo indagata, e nemmeno la conseguente iscrizione nel registro delle notizie di reato e l’avvio delle relative indagini (atti doverosi e non soggetti a discrezionalità da parte dell’autorità giudiziaria destinataria della denuncia), perché altrimenti ciò si risolverebbe in un facile espediente con il quale chiunque potrebbe “liberarsi” di un magistrato non gradito (eventualmente anche perché troppo abile o perseverante). Occorre, invece, valutare di volta in volta il contenuto delle accuse rivolte per verificare se la denunciata inimicizia non sia semplicemente strumentale ma effettiva, e nel caso di specie ciò può essere escluso sulla base sia della circostanza che il procedimento relativo ai fatti denunciati dal NOME2 è stato archiviato dall’autorità giudiziaria di LOCALITA2, sia della valutazione pienamente liberatoria da qualsiasi profilo di illiceità, anche solo limitata alla sfera deontologica, che risulta dall’esito degli accertamenti svolti dagli ispettori ministeriali, pienamente condivisibile.


Cassazione civile sez. III 13 aprile 2005 n. 7683
Ai fini della configurabilità dell’obbligo del giudice di astenersi, ai sensi dell’art. 51 n. 3 c.p.c., non vale ad integrare la pendenza di una “causa” la mera presentazione di un esposto, che non è un atto di citazione, un ricorso o comunque un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale; nè tale presentazione può configurare l’obbligo di astensione per “grave inimicizia”, che deve essere reciproca ed originata da rapporti privati.


Primo dato che si può dare per acquisito, dunque, è che la mera presentazione dell’esposto – che sia o meno immediatamente portato a conoscenza del magistrato – non è idoneo determinare le condizioni per l’astensione del magistrato.


Gli esposti possono evocare la presenza di inimicizia grave tra il magistrato del PM e l’indagato che vengono pretestuosamente correlati alle modalità di esercizio dell’azione giudiziaria nei confronti dell’esponente.

Anche in questa ipotesi la giurisprudenza di merito e legittimità appare particolarmente equilibrata:

Cass. S.U. 8.10.2001 n. 12345
Ai sensi dell’art. 51, numero 3, c.p.c., la “grave inimicizia” del giudice nei confronti della parte non può, in linea di principio, originare dall’attività giurisdizionale del magistrato, se non in presenza di situazioni, eccezionali e patologiche, di violazione grossolana e macroscopica di principi giuridici, indicativa di un esercizio della giurisdizione volto al perseguimento dello scopo di danneggiare la parte per ragioni di ostilità, ma si riferisce a rapporti estranei al processo, in particolare alla presenza di ragioni di rancore o di avversione pregiudicanti l’imparzialità del giudice”.

Dalla motivazione:
“Il ricorrente non ha neppure dedotto per quali ragioni i diversi magistrati che egli ha ricusato nutrano sentimenti di ostilità nei suoi confronti”
“È evidente, infatti, che una ripetuta violazione di principi giuridici può originare un sospetto di parzialità, ……. È chiaro, però, che deve trattarsi di violazioni talmente grossolane e macroscopiche, non imputabili ad incertezze interpretative, le quali appaiono come sintomi di un esercizio dei poteri del giudice volto al perseguimento dello scopo di danneggiare la parte, per ragioni di ostilità o di rancore.”


Anche gli ulteriori arresti della giurisprudenza civile e amministrativa rassicurano in questo senso:

Consiglio Stato sez. VI 11 settembre 2007 n. 4759
L’obbligo di astensione del componente di un organo collegiale, per grave inimicizia con il soggetto interessato alla deliberazione da adottare, sussiste solo quando l’ inimicizia sia determinata da motivi di interesse personale, estranei all’esercizio della funzione e non anche per ragioni attinenti al servizio, con la conseguenza che non può essere elemento sintomatico di una situazione di grave inimicizia nei confronti dell’incolpato anche la proposizione di denunce.
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Cassazione civile sez. III 13 aprile 2005 n. 7683
Ai fini della configurabilità dell’obbligo del giudice di astenersi, ai sensi dell’art. 51 n. 3 c.p.c., non vale ad integrare la pendenza di una “causa” la mera presentazione di un esposto, che non è un atto di citazione, un ricorso o comunque un atto di impulso idoneo a dare inizio ad un procedimento giudiziale; nè tale presentazione può configurare l’obbligo di astensione per “grave inimicizia”, che deve essere reciproca ed originata da rapporti privati.
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L’ipotesi di grave inimicizia tra giudice ed imputato sussiste solo quando vi siano tra i due soggetti rapporti estranei al processo, non potendo essa ravvisarsi nel trattamento (ritenuto sfavorevole ed iniquo) riservato al secondo nel corso del procedimento.

Consiglio Stato sez. IV 19 giugno 2003 n. 3658
L’inimicizia grave come motivo di astensione o come causa di ricusazione deve sempre trovare riscontro in rapporti personali estranei al processo ed ancorati a circostanze oggettive, mentre la condotta endoprocessuale può venire in rilievo quando presenti aspetti talmente anomali e settari da costituire sintomatico momento dimostrativo di una inimicizia maturata all’esterno.


In assenza di qualunque reazione da parte del magistrato, pertanto, gli esposti disciplinari e/o penali (che non si tramutino, ovviamente, in esercizio dell’azione penale nei confronti del magistrato o in esercizio dell’azione disciplinare) non impongono alcuna astensione.


Non sempre, tuttavia, la posizione dell’”incassatore seriale” è quella corretta per la specifica situazione (specie quando gli esposti sono associati ad una campagna mediatica): occorre, però, verificare se e quali reazioni siano possibili di fronte alla notizia della ricezione di un esposto penale/disciplinare.
1. Proposizione di querela nei confronti dell’esponente.
La proposizione di querela da parte del magistrato allo stato NON è automaticamente causa di astensione, ma si tratta di un arresto provvisorio della giurisprudenza disciplinare. Vi sono state, infatti, incolpazioni della Procura Generale che hanno individuato profili disciplinari nella mancata astensione dopo la proposizione di una querela nei confronti dell’indagato.


Cassazione civile sez. un., 15/05/2014 n.10626
Dalla motivazione
La Sezione disciplinare ha, come già rilevato, ritenuto che, ai fini dell’esercizio dell’azione disciplinare fosse necessaria la acquisizione della informazione in ordine a quale fosse il procedimento penale in relazione al quale l’obbligo di astensione del magistrato incolpato sarebbe stato violato. Nella sentenza impugnata, peraltro, non viene specificata la ragione della essenzialità della informazione in questione rispetto alla condotta configurata come illecito disciplinare (violazione, da parte del P.M., dell’obbligo di astensione derivante dall’avvenuta proposizione, da parte del magistrato, di una denuncia- querela nei confronti dell’indagato). In realtà, dall’esposto denuncia sopra riportato, era ben evincibile il contenuto della condotta ascritta dall’esponente al magistrato del Pubblico ministero, sicché appare non giustificato il decorso di circa tre anni dalla prima notizia concernente il fatto configurabile quale illecito disciplinare, per acquisire un particolare che nulla aggiunge alla essenza dell’illecito configurabile, e in concreto configurato dalla Procura Generale e ritenuto sussistente dalla Sezione disciplinare.


In un’ulteriore ipotesi (anche se non perfettamente sovrapponibile a quella in trattazione) è stato così precisato


Cassazione penale sez. III, 10/02/2016, n.10120
È manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 36, comma primo, lett. d) e 37 cod. proc. pen., in relazione agli artt. 111, 54, secondo comma, 117 Cost. e 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono uno specifico obbligo di astensione e la facoltà di ricusazione del giudice che abbia presentato querela nei confronti dell’indagato per fatti diversi da quelli oggetto del procedimento. (In motivazione, la Corte ha precisato, che, tale circostanza non può assumere portata generale ma, impregiudicata la facoltà del giudice di astenersi per “gravi ragioni di convenienza”, può in concreto integrare l’ipotesi di “inimicizia grave”, quando, ad esito di un rigoroso scrutinio, si possa ritenere che la presentazione della denuncia o querela abbia tratto origine da esperienze di vita e rapporti interpersonali che esulano dalla sfera strettamente professionale).


Dalla motivazione:
Nel pervenire a tale conclusione la Corte del merito si è attenuta al principio di diritto secondo il quale la qualità di parte offesa assunta dal magistrato, in diverso procedimento penale rispetto a quello nel quale è stata presentata la dichiarazione di ricusazione, non denota necessariamente inimicizia grave, nè configura, di per sè, motivo di ricusazione, anche quando ciò sia conseguenza di una querela presentata dal medesimo magistrato nei confronti della parte poi sottoposta al suo giudizio (Sez. 6, n. 249 del 01/02/1990, Borrello, Rv. 183846).
E’ tuttavia il caso di precisare – diversamente dall’articolata opinione espressa dal ricorrente che inammissibilmente pretende di assegnare alla fattispecie un ambito di operatività generalizzato – come la medesima situazione possa, in determinati casi, costituire motivo di ricusazione: il che in particolare si verifica quando la presentazione di una denuncia o querela – da parte del magistrato nei confronti di una determinata parte privata che sia interessata ad una vicenda giudiziaria nella quale il giudice è chiamato sulla base di regole tabellari precostituite a svolgere le proprie funzioni – sia avvenuta nell’ambito di esperienze di vita che esulano dal rapporto e dalla sfera strettamente professionale o, se anche da ciò non esulano, abbia contenuti tali da attestare il rapporto interpersonale di inimicizia, estraneo a vicende giudiziarie (Sez. 6, n. 39792 del 03/11/2010, Campanella, non mass.).
Nel caso di specie, la Corte d’appello – a seguito di un approfondito esame del contenuto della querela e del contesto nel quale la stessa è stata presentata dai membri del collegio giudicante del tribunale di Latina, tra cui la Dottoressa A., che avevano pronunciato una sentenza di condanna di primo grado nei confronti del C. – ha dato atto come dovesse escludersi la sussistenza di circostanze sintomatiche di un rapporto di grave inimicizia reciproca tra quest’ultima ed il C. o di una contaminazione della sua imparzialità e terzietà nell’esercizio della funzione giurisdizionale.
Secondo la Corte territoriale, la querela in questione – lungi dal rappresentare un indizio di ostilità e di rancore del giudice nei confronti della parte privata per ragioni personali, sorte al di fuori di procedimenti nei quali il magistrato esercita la propria funzione, tanto da attestare l’esistenza di un rapporto interpersonale di grave inimicizia estraneo alla sfera professionale – è apparsa invece uno strumento al quale i magistrati del Collegio giudicante hanno fatto ricorso al solo fine di tutelare la propria reputazione e la credibilità della funzione esercitata da accuse che, secondo quanto riportato dai mezzi di informazione locali e trascritto nella querela, sarebbero state rivolte loro proprio dal C. (peraltro in un contesto pubblico quale il consiglio provinciale, con conseguente delegittimazione della stessa magistratura presso l’opinione pubblica) ma anche e soprattutto al fine di scongiurare eventuali azioni penali e/o disciplinari per gli asseriti comportamenti illeciti attribuiti loro dalla stampa (ossia per aver pronunciato una sentenza di natura e finalità “politiche”).


Il principio che sembra potersi ricavare è, dunque, nel senso che la querela ove strettamente ancorata alla tutela del magistrato nell’esercizio della sua funzione non è idonea ad ancorare l’ipotesi di “inimicizia grave” che attiva l’obbligo di astensione del PM (o del giudice).
La reazione attraverso la denuncia querela, però, espone, almeno potenzialmente, ad ulteriori complicazioni procedurali ed è suscettibile di alimentare proprio quella situazione conflittuale che l’indagato mira a cagionare: è una strada difficile da percorrere se si vuole continuare a gestire l’indagine in (relativa) serenità.


2) La reazione ordinamentale.


La reazione all’esposto o alla querela può essere diversamente gestita attraverso il ricorso a rapporti e relazioni interne rivolti al dirigente dell’ufficio o al Procuratore Generale che stigmatizzino i profili eventualmente falsi e calunniatori di quanto dedotto negli esposti/denunce inducendo poi il Procuratore o il Procuratore generale a trasmettere la segnalazione presso la competente A.G..
La relazione così inviata “per le vie gerarchiche” deve essere il più possibile sobria e priva di apprezzamenti e valutazioni sull’autore degli esposti in modo da non eccedere il perimetro delineato dalla decisione già riportata sopra (Sentenza n. 135 del 2008 – RGN 26/2008), ma abbastanza netta da indurre i riceventi ad un’obbligatoria trasmissione alle stesse autorità destinatarie degli esposti da parte del privato.


4. L’ARTICOLO DI GIORNALE E LA CAMPAGNA MEDIATICA.


E’ sempre più frequente l’associazione di esposti penali/disciplinari con l’avvio di una campagna mediatica (anche solo attraverso il ricorso al sistema dei social).
Anche in questo caso sono possibili due tipologie di reazioni:


1. Querela per diffamazione


La querela per diffamazione nei confronti del giornalista non espone a contatti diretti con l’indagato. Peraltro, in una specifica ipotesi nella quale la querela aveva riguardato, tanto il giornalista quanto lo stesso indagato è stato precisato come:


Cassazione penale sez. III, 10/02/2016, n.10120
Secondo la Corte territoriale, la querela in questione – lungi dal rappresentare un indizio di ostilità e di rancore del giudice nei confronti della parte privata per ragioni personali, sorte al di fuori di procedimenti nei quali il magistrato esercita la propria funzione, tanto da attestare l’esistenza di un rapporto interpersonale di grave inimicizia estraneo alla sfera professionale – è apparsa invece uno strumento al quale i magistrati del Collegio giudicante hanno fatto ricorso al solo fine di tutelare la propria reputazione e la credibilità della funzione esercitata da accuse che, secondo quanto riportato dai mezzi di informazione locali e trascritto nella querela, sarebbero state rivolte loro proprio dal C. (peraltro in un contesto pubblico quale il consiglio provinciale, con conseguente delegittimazione della stessa magistratura presso l’opinione pubblica) ma anche e soprattutto al fine di scongiurare eventuali azioni penali e/o disciplinari per gli asseriti comportamenti illeciti attribuiti loro dalla stampa (ossia per aver pronunciato una sentenza di natura e finalità “politiche”).

Anche in questo caso, però, la proposizione di una querela presenta alcune controindicazioni di opportunità: può, infatti, venire strumentalizzata nel tentativo di moltiplicare la strategia della tensione che la campagna mira a determinare costringendo a continui “botta e riposta” con la testata o il giornalista. Può, inoltre, essere utilizzata “a sorpresa” per creare una conflittualità diretta con la parte privata qualora il giornalista individui proprio nell’indagato la propria fonte di notizie. Diversamente detto: la campagna stampa può rappresentare il cavallo di troia con il quale si introduce una conflittualità diretta con la parte che può facilmente degenerare nella “inimicizia grave” rilevante per l’eventuale obbligo di astensione.


2. La reazione ordinamentale e associativa.


Anche nel caso della campagna stampa si può ricorrere a strumenti diversi dalla querela. Un primo strumento può essere individuato nella redazione di relazioni di servizio che inducano il vertice dell’ufficio ad intervenire con una presa di posizione pubblica.
Un secondo strumento efficace in queste ipotesi risulta essere il coinvolgimento diretto dell’ANM locale che consenta di mediare il conflitto con la testata attraverso l’organismo associativo.


5. CONCLUSIONI.


Occorre, comunque, ricordarsi come l’indagato che si difende dall’indagine persegua dinorma i seguenti obiettivi:
distrarre l’indagatore costringendolo a impegnarsi nella redazione di relazioni,memorie note e similari sottraendo, quindi, tempo e qualità all’indagine (che in questi casi è quasi sempre particolarmente complessa);
ribaltare il paradigma investigativo ponendo sotto “indagine” lo stesso investigatore introducendo suggestioni di parzialità nei confronti del magistrato;
rallentare l’indagine e lucrare tempo.
In questo contesto la proposizione di querele e denunce è pertanto da sconsigliare per le ragioni sopra riportate e le reazioni migliori sono due: “rapidità” e “completezza”.


Più rapida è l’indagine meno spazio avrà l’indagato per organizzare le attività sopra descritte. Più completa è l’indagine meno appigli strumentali potranno essere trovati perarticolare in modo apparentemente credibile le reazioni all’indagine.


Marco Bisogni

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