PRIMA PARTE (Avv. Antonella Fiordalisi)

L’ERRORE DI ANTEPORRE LA FORMA DEL REATO COMPLESSO ALL’ESAME DELLA STRUTTURA DELL’ART. 576, PRIMO COMMA, N. 5.1. COD. PEN.

  1. Il problema affrontato dalla sentenza delle Sezioni Unite.
  2. Il finalismo ideologico o la convergenza oggettiva degli atti persecutori verso l’annientamento della vittima indicati dalle Sezioni Unite “Magistri”.
  3. Critica sul metodo seguito dalle Sezioni Unite.
  4. Gli stretti margini di applicabilità dell’art. 576, primo comma n. 5.1, cod. pen., fino alla sovrapposizione con l’omicidio premeditato.

SECONDA PARTE (Cons. Domenico Fiordalisi)

IL PROFILO FATTUALE SOTTESO ALL’AGGRAVANTE DI CUI ALL’ART. 576, PRIMO COMMA N. 5.1., COD. PEN.: LA PERSISTENZA DELLA PAURA DELLA VITTIMA DEGLI ATTI PERSECUTORI AL MOMENTO DELL’OMICIDIO

  1. Il nesso funzionale che caratterizza il reato complesso e la differenza col finalismo ideologico indicato dalle Sezioni Unite N. 38402 del 15/07/2021, Magistri.
  2. Un profilo trascurato: il rapporto di paura tra vittima ed autore degli  atti persecutori, che prosegue oltre la consumazione del reato.
  3. Il coefficiente psichico dell’aggravante di cui all’art. 576, primo comma n. 5.1., cod. pen.
  4. Le nostre conclusioni per il concorso formale del reato di cui all’art. 612-bis cod. pen. e dell’omicidio aggravato ai sensi dell’art. 576, primo comma n. 5.1., cod. pen.

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PRIMA PARTE – L’ERRORE DI ANTEPORRE LA FORMA DEL REATO COMPLESSO ALL’ESAME DELLA STRUTTURA DELL’ART. 576, PRIMO COMMA, N. 5.1. COD. PEN.

1. IL PROBLEMA AFFRONTATO DALLA SENTENZA DELLE SEZIONI UNITE.

      Con sentenza del 2021 le Sezioni Unite penali della Cassazione hanno concluso per la sussistenza di un reato complesso circostanziato nel delitto di atti persecutori che culmina nell’omicidio della vittima.

Il supremo Consesso ha ritenuto, in particolare, che si configura un reato complesso ai sensi dell’art. 84 cod. pen. per la necessaria presenza di una prospettiva finalistica “con riguardo al contesto persecutorio posto in essere con la condotta e gli eventi descritti dell’art. 612-bis cod. pen. progressivamente limitata e impedita nell’esercizio della sua libertà di determinazione dalle molestie e dalle minacce che ne inibiscono lo svolgimento della normale vita sociale”.

“In questa visione prospettica della condotta criminosa, l’omicidio del soggetto perseguitato si presenta nell’esperienza giudiziaria come il risultato estremo, ma purtroppo non infrequente, dell’intento di annullamento della personalità della vittima; e quindi si integra compiutamente nella complessiva direzione finalistica del fatto, come peraltro sottolineato nei rammentati lavori preparatori”(pag. 23).

“La disposizione dell’art. 576, primo comma, n. 5.1, cod. pen. che punisce con l’ergastolo l’omicidio doloso, pertanto, sottende l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti di omicidio volontario ed atti persecutori. Non vi è dubbio infatti che, se l’intento legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta persecutoria, è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante e quindi ad una situazione nella quale gli atti persecutori e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono altresì in una prospettiva finalistica unitaria” (pag. 19).

     La sentenza espone il contrasto giurisprudenziale che si era formato sulla circostanza aggravante di cui all’art. 576, primo comma n. 5.1, cod. pen.[1], tra la posizione espressa da Sez. 1, n. 20786 del 12/04/2019, P., Rv. 275481 e quella della Sez. 3, n. 30931 del 13/10/2020, G, Rv. 280101.

   La prima pronuncia aveva ritenuto la non ricorrenza di alcuna ipotesi generale di esclusione del concorso fra le norme incriminatrici, atteso che il legislatore in detta aggravante avrebbe inteso dare rilievo solo all’identità del soggetto autore sia del delitto di atti persecutori che di quello di omicidio volontario, in modo diverso dalla disposizione aggravatrice immediatamente precedente in cui è usata la locuzione “in occasione della commissione di taluno dei delitti…”.

    La seconda sentenza aveva ravvisato in tale disposizione una forma di reato complesso che assorbe il delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen., atteso che “la formulazione testuale della menzionata disposizione aggravatrice non limita il suo oggetto descrittivo alla posizione soggettiva dell’autore dell’omicidio quale persecutore della vittima, ma estende la sua portata fino a comprendere il fatto persecutorio nella sua interezza”, stante il riferimento alla vittima di tale delitto.

    Il “dato dirimente” della questione, per le Sezioni Unite, è dato (pag. 12 punto 3.3.) dall’art. 84 cod. pen., che viene evocato in tale punto della sentenza, senza tuttavia fornire una spiegazione soddisfacente del percorso seguito.

    Già in ordine a questo passaggio motivazionale esprimiamo perplessità sul piano del metodo, perché l’applicazione della disciplina del reato complesso può essere solo il punto di arrivo, non un punto di partenza ineludibile, quasi un presupposto al quale deve aderirsi necessariamente e dal quale trarre le dovute conseguenze.

    Dalla regola si deve ricavare il concetto e non viceversa.

   Il punto di partenza della corretta interpretazione deve essere l’esame letterale e sistematico della singola disposizione normativa; la definizione della sua struttura va fatta confrontando la norma incriminatrice dell’omicidio e quella degli atti persecutori.

   I singoli elementi di ogni fattispecie sono indispensabili per delineare i limiti ed il significato della disposizione aggravatrice, nell’ambito del sistema di norme in cui è inserita.

   La proposizione normativa sul reato complesso, invece, indica una classificazione e detta una disciplina, che possono costituire solo la conseguenza del suddetto inquadramento, non la categoria da riconoscere a priori nella disposizione in esame e dalla quale prendere le mosse nel ragionamento successivo.

   Non può la categoria, intuita dall’interprete come ricorrente nel caso di specie, disegnare la struttura di una fattispecie, anche se ciò avviene per un richiamo nei lavori preparatori all’unitarietà finalistica che lega l’omicidio quale risultato estremo dell’intento di annullamento della personalità della vittima, atteso che questo dato sociologico espresso più volte per descrivere il fenomeno dei femminicidi avrebbe dovuto trovare una più puntuale forma di tipizzazione nelle norme del codice.

    Viceversa, il giudice dovrebbe innanzitutto esaminare i caratteri dei singoli elementi della fattispecie incriminatrice e della disposizione aggravatrice, per come espressi nelle proposizioni normative.

    Soltanto dopo tale analisi, può operare un giudizio di sintesi e può risalire alla classificazione (cioè alla categoria cui fare riferimento); può essere fuorviante ed è dogmaticamente inutile anteporre la classificazione all’esame strutturale della fattispecie aggravata, cioè seguire il percorso inverso.

    Le Sezioni Unite, invece, così scrivono al punto 3.3. a pag. 13 “E’ tuttavia alla particolare struttura normativa del reato complesso, per come delineata dall’art. 84, che occorre avere riguardo per stabilire se, nel caso di specie, sussista o meno il concorso fra le norme incriminatrici richiamate”.

     Dopo aver asserito la sussistenza del reato complesso, nella sentenza vengono esposti i tratti dell’istituto, richiamando due criteri fissati già dalla pregressa giurisprudenza, rispettivamente per escludere o ritenere sussistente l’assorbimento di un reato in una fattispecie più ampia.

    Il primo criterio si è consolidato a proposito del raffronto della rissa aggravata dalla morte o dalle lesioni subite nel corso della stessa, con i reati di omicidio o di lesioni personali, “essendo gli eventi aggravatori inclusi, già per la loro oggettiva verificazione, nella fattispecie incriminatrice di cui all’art. 588 cod. pen., quale mera conseguenza della colluttazione e non in tutte le componenti materiali e psicologiche dei reati specificamente previsti dagli artt. 575 e 582 cod. pen.” (Sez. 1, n. 30215 del 7/04/2016, R., Rv. 267224).

    Il secondo criterio si fonda sul fatto che l’evento più grave “deve essere previsto dalla norma incriminatrice, che si assume configurare un reato complesso, quale componente necessaria della relativa fattispecie astratta, non essendone rilevante l’eventuale ricorrenza nel caso concreto quale occasionale modalità esecutiva della condotta”; a questo proposito, la sentenza delle Sezioni Unite mostra di condividere le conclusioni cui erano giunte le sentenze Sez. 5, n. 2935 del 05/11/2018, dep. 2019, Manzo, Rv. 274589 e Sez. 2, n. 43916 del 04/10/2019, Abbate, Rv. 277740 che, rispettivamente, hanno ritenuto sussistente il concorso del reato di falso in atto pubblico con quello di truffa, del quale il falso costituisca un artificio nella situazione specificamente contestata e il concorso del reato di esercizio abusivo di attività finanziaria con quello di usura, non necessariamente realizzabile mediante l’erogazione di un finanziamento.

    Quindi, tutte le componenti strutturali, oggettive e soggettive, dei due reati sono presenti nel reato complesso e “devono” esserlo immancabilmente.

   Non riusciamo a cogliere, allora, la coerenza della soluzione data dalle Sezioni Unite, atteso che (a pag. 12 nel punto 3.2.) la medesima sentenza riconosce che “Tali condizioni non sono all’evidenza ravvisabili nel raffronto tra le articolazioni strutturali degli articoli 575 e 612-bis cod. pen., che non presentano elementi comuni né con riguardo alle condotte, costituite nella prima norma da atti lesivi dell’integrità fisica e nella seconda da comportamenti minacciosi o molesti, né per quanto concerne gli eventi, diversamente individuati, per il primo reato, nella morte della vittima e per il secondo nell’induzione nella stessa di stati di ansia, paura o timore per l’incolumità propria o di congiunti ovvero dalla costrizione della persona offesa all’alterazione delle proprie abitudini di vita.

    Non senza considerare, peraltro, che anche l’eventuale riferimento agli ormai superati criteri fondati sull’omogeneità o meno degli interessi tutelati dalle norme (Sez. 5 n. 13164 del 1/10/1999, Melluccio, Rv. 214712) condurrebbe nel caso di specie a risultati analoghi, essendo i reati in discussione diretti ad offendere l’uno il valore della vita e l’altro quello della libertà morale della persona”.

    La Corte, a questo punto, esprime a pag. 15 “il profilo di congiunzione nel collegamento sostanziale tra la condotta omicidiaria e quella persecutoria”.

   “Un substrato sostanziale che riconduce i fatti ad un contesto criminoso unitario e ne identifica il profilo di congiunzione in una comune matrice ideologica quanto ai motivi a delinquere, in un rapporto finalistico tra i fatti o nella convergenza degli stessi verso un unico risultato finale”.

2. IL FINALISMO IDEOLOGICO O LA CONVERGENZA OGGETTIVA DEGLI ATTI PERSECUTORI VERSO L’ANNIENTAMENTO DELLA VITTIMA INDICATI DALLE SEZIONI UNITE “MAGISTRI”.

     Per le Sezioni Unite può unire i due fatti solo un finalismo ideologico del soggetto agente oppure una convergenza oggettiva dei medesimi verso “un unico risultato finale”, quello di annientamento della vittima: ecco il contesto criminoso unitario che sarebbe espresso dal “substrato sostanziale” che lo sorregge.

    Prosegue la sentenza in commento, a pag. 16: “…la considerazione della ratio della previsione dell’art. 84, volta ad evitare una duplicazione della risposta sanzionatoria per gli stessi fatti in violazione del principio del ne bis in idem sostanziale. E’ evidente che tale necessità si manifesta segnatamente nel rapporto fra il reato complesso e gli altri reati che lo compongono contraddistinti da un contesto unitario, nell’ambito del quale maggiormente risalta la possibilità di una sproporzione nel cumulo di pene previste per i fatti inseriti nella stessa azione criminosa”.

    La sentenza passa poi a rammentare le altre pronunce in cui è stata ribadita l’insufficienza della mera contestualità dei fatti criminosi previsti quali costitutivi di un reato complesso.

   Tale struttura determina l’assorbimento dei reati che la compongono.

   Vi è un’ipotesi, in particolare, nella quale il legame finalistico fra i fatti è letteralmente enunciato nella formulazione della norma incriminatrice del reato complesso: è il caso della violenza sessuale commessa mediante minaccia, ai sensi dell’art. 609-bis cod. pen.

    L’assorbimento dell’autonomo reato di minaccia di cui all’art. 612 cod. pen. in quello di violenza sessuale è stato, infatti, rigorosamente limitato ai casi in cui la condotta minacciosa sia strumentale alla costrizione della vittima a subire la violenza sessuale.

    La giurisprudenza ha escluso il caso in cui le espressioni minacciose siano rivolte alla persona offesa anche per una finalità diversa, come quella di indurre la stessa a ristabilire una relazione sentimentale con il soggetto agente, ed ha, di conseguenza, riconosciuto il concorso fra i reati (Sez. 3, n. 23898 del 12/03/2014, R., Rv. 259433).

    “Alla luce di queste indicazioni, per la configurabilità del reato complesso, oltre ad essere confermata sul piano applicativo la necessità del presupposto sostanziale dell’unitarietà del fatto – in aggiunta alle condizioni strutturali previste dall’art. 84 cod. pen. – detto presupposto si presenta come articolato non solo nella contestualità dei singoli fatti criminosi sussunti “della” (n.d.r.: nella) fattispecie assorbente, ma anche nella loro collocazione in una comune prospettiva finalistica. Ed in tal senso l’esperienza giurisprudenziale si salda con i menzionati riferimenti dottrinali che individuano il fondamento del reato complesso nella convergenza dei fatti che lo compongono in direzione di un unico risultato finale”.

    A pag. 19 della sentenza viene così individuata “la ratio della previsione nella risposta ad un fatto complessivo visto come meritevole di aggravamento per la sua oggettiva valenza criminale, ossia lo sviluppo omicidiario di una condotta persecutoria, con l’effetto di sanzionare tale aggravamento con la massima pena dell’ergastolo; nel quale pertanto tale condotta è intranea nella sua fattualità alla struttura della disposizione circostanziale”.

    “Le considerazioni da ultimo svolte rendono inoltre coerente una lettura della norma che sottende l’esistenza del requisito sostanziale del reato complesso, ossia l’unitarietà finalistica dei fatti di omicidio volontario ed atti persecutori. Non vi è dubbio, infatti, che, se l’intento legislativo alla base della previsione dell’aggravante è quello di perseguire con maggiore severità l’omicidio costituente sviluppo della condotta persecutoria, è a questa dimensione fattuale che deve aversi riguardo per la definizione della fattispecie aggravante; e quindi ad una situazione nella quale gli atti persecutori e l’omicidio presentano non solo contestualità spazio-temporale, ma si pongono altresì in una prospettiva finalistica unitaria”.

    E’ evidente l’influenza dell’idea di femminicidio, intesa come ultimo atto di un ciclo di atti violenti.

    Il punto che andava affrontato, però, è che tale idea avrebbe potuto trovare applicazione solo attraverso la formulazione di una proposizione normativa più esplicita, che – a nostro avviso – manca nell’art. 576, primo comma n. 5.1, e nell’art. 612-bis cod. pen.

3. CRITICA SUL METODO SEGUITO DALLE SEZIONI UNITE

   Questi punti meritano un’attenta riflessione.

   Su un piano prettamente dogmatico, consistenti perplessità desta il rilievo dato, nel corpo della motivazione della sentenza, alla dimensione fattuale che viene prospettata solo come sottesa in misura frequente (e quindi non come costantemente presente) ai casi di atti persecutori finalizzati alla soppressione della personalità della vittima ed ai quali segua, quindi, l’omicidio della stessa.

    Trattasi, innanzitutto, di una considerazione opinabile sul piano casistico degli atti persecutori, la maggior parte dei quali è notoriamente tesa ad una “compressione”, ad un “condizionamento”, non ad una “distruzione” della personalità morale e della persona fisica altrui: l’agente vuole incidere nella vita della vittima, incutendo timore per condizionarne le scelte e quindi per influenzarne la libera volontà, sul piano affettivo o relazionale; nella maggior parte dei casi non mira a “distruggere” la sua personalità morale e tantomeno la sua persona fisica.

    Proprio il fallimento dei plurimi tentativi di condizionamento della libera volontà della vittima fa scattare (purtroppo con una frequenza tale che ha allarmato prima la società civile e poi il legislatore) l’impulso o la fredda determinazione di sopprimere la persona fisica altrui, quindi la condotta di volontaria privazione della sua vita.

   L’impulso omicida, a volte, insorge a distanza di tempo dalla cessazione di una condotta persecutoria e dunque si colloca al di fuori della consumazione del delitto di cui all’art. 612-bis cod. pen.

    Si pensi al caso dell’amante che si vede respinto ed attende sotto casa l’amata per giorni.

     Poi, dopo sei mesi, vi è un’occasione di un nuovo incontro con la vittima e, vistosi respinto, preso da un raptus decide di ucciderla: il fine di soppressione della persona fisica altrui insorge soltanto al momento dell’ultimo incontro ed è estraneo alla fase degli atti persecutori; anche il fine di distruzione della personalità, di annullamento della libertà altrui è normalmente estraneo all’economia di un semplice atto di molestia, per quanto possa essere ripetuto nel tempo.

    La “distruzione della personalità altrui” – a nostro avviso – è una condizione troppo radicale che non si concilia con l’attuale formulazione della norma incriminatrice del delitto di atti persecutori, teso semplicemente a incutere timore per condizionare la libertà e le scelte altrui, fino ad alterarne le abitudini di vita.

    Nella sentenza in commento, l’interpretazione dell’omicidio conseguente allo stalking, inteso come reato complesso circostanziato, contrasta vistosamente con la premessa spiegata nella stessa sentenza sulla necessità di una ricorrenza formale di tutti gli elementi strutturali normativi dei reati che compongono il reato complesso, anche nella forma circostanziata.

    Per riconoscere il contenuto del reato complesso così configurato non si può scambiare il piano degli elementi formali necessari ad integrare la struttura della fattispecie con quello fattuale dei casi più o meno ricorrenti dei reati di stalking che culminano nell’omicidio della vittima, senza rischiare di disorientare il lettore della norma.

    La valutazione del giudice sulla ricorrenza degli elementi strutturali del reato complesso deve svolgersi necessariamente sul piano astratto, tenendo in considerazione gli elementi delle singole fattispecie incriminatrici, senza tener conto dei moventi più o meno ricorrenti, altrimenti il giudice di merito potrebbe essere indotto a ritenere che nel delitto di atti persecutori vi sia un dolo specifico (non scritto), rappresentato dalla volontà di “annientamento della personalità” della vittima.

    La frequente presenza dell’intento distruttivo della personalità della vittima nel delitto di atti persecutori non solo non risulta evocato in modo diretto o indiretto dal testo della norma incriminatrice, ma è la prima volta che viene evocata dalla giurisprudenza e non ci risultano precedenti nella dottrina.

    Sicché siamo in presenza di una interpretazione con forti caratteri innovativi, che riteniamo di non poter condividere, perché appare condizionata dalla necessità di trovare un punto di convergenza soltanto all’interno del reato complesso, che viene proposto come “dirimente” della questione aperta dalla divergente interpretazione tra la prima e la terza Sezione penale della Cassazione.

    Sussiste quindi un problema di natura metodologica non risolto dal ragionamento svolto nella sentenza.

4. GLI STRETTI MARGINI DI APPLICABILITA’ DELL’ART. 576, PRIMO COMMA N. 5.1, COD. PEN. FINO ALLA SOVRAPPOSIZIONE CON L’OMICIDIO PREMEDITATO

    Il carattere finalistico sopra richiesto dalle Sezioni Unite crea seri problemi di frequente sovrapposizione con la premeditazione dell’omicidio, perché se vi è un intento distruttivo della personalità della vittima, che si pone come elemento di connessione con l’omicidio doloso, è evidente che lo stesso può essere valorizzato come idoneo a concretizzare la forma premeditata dell’omicidio, per la quale è già prevista la pena dell’ergastolo, col risultato di ridurre fortemente il riconoscimento dell’aggravante e di svuotare sul piano sanzionatorio il reato di atti persecutori, in palese contrasto con l’intento del legislatore – manifestato nei lavori preparatori – di inasprire la risposta penale in tutti i casi in cui al reato di atti persecutori segua l’omicidio doloso della vittima.

    A conclusioni ancor più contraddittorie con le premesse poste in sentenza e sopra specificate si perviene individuando il punto di saldatura tra il reato di stalking e quello di omicidio doloso della vittima nella convergenza oggettiva dei fatti verso “un unico risultato finale”, quello di annientamento della vittima.

    Ciò che lega i due reati sarebbe il “contesto criminoso unitario” espresso dal “substrato sostanziale” che lo sorregge.

    La preoccupazione maggiore sul piano concreto è che insorgano forti difficoltà nel riconoscimento giudiziale di tale “substrato”, per l’assenza di espliciti parametri di riferimento nella norma applicata: la convergenza oggettiva di due fatti postula un giudizio sulla crescente gravità degli atti persecutori posti in essere, al punto di individuare negli ultimi atti la probabilità o la possibilità che l’ennesimo atto di molestie si risolva nell’omicidio.

   Come si vede, si richiede una convergenza di fatti che solo la gravità delle condotte di stalking (almeno le ultime) può sostenere.

   La maggiore perplessità, quindi, è che si finisca per sovrapporre i pochi casi in cui le stesse condotte, così caratterizzate, riusciranno a passare il vaglio dei giudici di merito con i numerosi casi di premeditazione dell’omicidio.

   Già la richiesta delle Sezioni Unite di un “unico contesto di azione” taglia fuori dall’applicabilità della circostanza aggravante i casi in cui gli atti persecutori siano stati già giudicati con sentenza e l’omicidio venga commesso anche a breve distanza temporale da detto reato, senza tuttavia essere preceduto da ulteriori atti di molestia.

   Facciamo un esempio: nelle feste di Natale di tre anni fa e di due anni fa si sono verificati più atti persecutori di Tizio verso Caio, che abitano nello stesso condominio.

   Dopo la condanna tempestivamente inflitta dai giudici sia all’esito della prima denuncia sia all’esito della seconda, Caio viene ucciso da Tizio il giorno dello scorso Natale (quindi al terzo anno dall’inizio di tali vicende), con una coltellata al petto inferta non appena i due si sono incontrati nelle scale del condominio.

   Le due sentenze di condanna sugli atti persecutori nulla dicono sull’intento di eliminazione fisica o di annientamento psichico che potrebbe aver caratterizzato i primi due reati giudicati. Né vi sono elementi per ritenere che nel terzo anno fosse insorto un intento simile o fossero stati posti in essere nuovi atti persecutori volti oggettivamente o soggettivamente all’annientamento psichico o fisico di Caio.

   Il criterio individuato dalle Sezioni Unite porta, quindi, ad escludere nel caso di specie l’aggravante in esame; sicché va applicata la norma sul delitto di omicidio, magari riconoscendo il dolo d’impeto del soggetto agente, senza l’aggravante in commento.

    Eppure, il senso comune ci dice subito che la decisione non appare conforme al significato letterale dell’art. 576, primo comma n. 5.1, cod. pen. e all’intento chiaramente espresso dal legislatore.

    L’utilizzo di una locuzione diversa da quella usata nella proposizione dell’art. 576, primo comma n. 5, cod. pen. “in occasione della commissione di taluno dei delitti previsti dagli articoli…”, deve condurre l’interprete verso un allargamento, non verso una restrizione dell’applicabilità della circostanza, perché questa deve poter essere riconosciuta anche quando il “contesto dell’azione” di atti persecutori è cessato, cioè quando l’omicidio non è commesso “in occasione” del delitto di atti persecutori.

La sentenza delle Sezioni Unite in commento, inoltre, non affronta in alcun modo il problema derivante dal fatto che il finalismo indicato – in sostanza – si sovrappone, nella maggior parte dei casi, a quello della premeditazione dell’omicidio.

Non riusciamo a comprendere la ragione per la quale il legislatore avrebbe introdotto la circostanza aggravante di cui all’art. 576, primo comma n. 5.1, cod. pen., che comporterebbe la pena dell’ergastolo solo nei casi di finalismo oggettivo o soggettivo indicati dalla sentenza in commento, quando tale pena nella maggior parte dei casi concreti (di un simile finalismo) sarebbe già applicabile in forza dell’art. 577, primo comma n. 3, cod. pen., trattandosi di un fatto delittuoso presente per un certo periodo di tempo caratterizzato, già durante l’esecuzione degli atti persecutori che precedono l’omicidio, in tutto o almeno in parte da siffatto “finalismo distruttivo” della personalità morale o della persona fisica della vittima del successivo delitto di sangue.

La vicinanza tra le due aggravanti (se si parte dal citato punto di vista delle Sezioni Unite) diventa in concreto talmente accentuata, da limitare fortemente l’applicabilità della novella legislativa e da rendere quasi sempre dimostrata anche la presenza della premeditazione dell’omicidio, nei casi di atti persecutori caratterizzati dal finalismo distruttivo della personalità della vittima.

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SECONDA PARTE – IL PROFILO FATTUALE SOTTESO ALL’AGGRAVANTE DI CUI ALL’ART. 576, COMMA 5.1., COD. PEN.: LA PERSISTENZA DELLA PAURA DELLA VITTIMA DEGLI ATTI PERSECUTORI AL MOMENTO DELL’OMICIDIO

  1. IL NESSO FUNZIONALE CHE CARATTERIZZA IL REATO COMPLESSO E LA DIFFERENZA COL FINALISMO IDEOLOGICO INDICATO DALLE SEZIONI UNITE “MAGISTRI”.

     In realtà, è nostra opinione che il reato complesso non ricorra nel caso di specie, sia perché non è richiamato dalla norma il contesto dell’azione degli atti persecutori, sia perché non è il mero “finalismo soggettivo” o la sola “convergenza oggettiva nell’unico contesto criminale” a poter qualificare i fatti di reato come appartenenti ad un unico reato complesso, bensì la “strumentalità” degli atti persecutori in funzione della realizzazione dell’evento più grave delle condotte. Ma tale strumentalità non è stata espressamente o implicitamente richiamata nella norma incriminatrice, sicché il mero finalismo soggettivo deve essere tenuto ben distinto dal nesso oggettivo di tipo “funzionale”. Pertanto – a nostro avviso – il reato complesso non può configurarsi.

    La convergenza soggettiva od oggettiva di condotte ha un significato ed una portata sociologica ma non giuridica, sicché ha un carattere molto più generico rispetto ad un criterio funzionale volto in forma specifica verso la lesione o il pericolo di lesione del bene giuridico tutelato, nel modo chiaramente descritto dalle norme incriminatrici degli atti persecutori e dell’aggravante in parola.

    Il paradigma del reato complesso è il delitto di rapina di cui all’art. 628 cod. pen.

    La violenza o la minaccia alla persona non rilevano, agli effetti di tale norma incriminatrice, quando sono usate per recare un danno alla persona del derubato (si pensi all’azione del ladro che, immediatamente dopo essersi impossessato della cosa altrui, per mero odio verso il derubato, lo colpisce ad un arto, senza la finalità specifica di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta o di procurare a sé o ad altri l’impunità). Il nesso giuridicamente rilevante, quindi, è duplice: riguarda sia il rapporto tra i singoli fatti che compongono il reato complesso sia il rapporto degli stessi con la lesione del bene giuridico tutelato.

    Nessuno può negare che, nell’esempio suddetto, il “contesto criminoso” in cui la violenza alla persona è esercitata sia il medesimo di quello del furto. Ma la rapina (impropria) non sussiste. Manca il profilo funzionale richiesto dalla norma, che riguarda il rapporto tra i fatti e tra questi e la lesione del bene giuridico tutelato.

   Nel reato complesso, il nesso deve essere funzionale, non finalistico (o non necessariamente finalistico), perché il nesso consistente in un “rapporto funzionale” implica un giudizio di adeguatezza concreta di ciò che oggettivamente risponde o tende a rispondere alla funzione cui è assegnato il singolo atto in base all’esperienza e quindi alla ricorrenza dei fatti.    

  L’esempio di reato complesso circostanziato che nella pratica giudiziaria era più frequente, all’entrata in vigore del codice Rocco, era il furto in abitazione aggravato dall’art. 625, n. 1, cod. pen.; l’ingresso nell’abitazione era funzionale all’impossessamento degli oggetti, norma che riproduceva l’aggravante espressa dall’art. 404 n. 3 del codice Zanardelli: in via generale, non si può asportare un oggetto custodito in una casa di abitazione se non si entra in essa per prelevarlo.

   Il reato di cui all’art. 624-bis cod. pen., introdotto successivamente, costituisce l’evoluzione in termini di reato complesso del primo tipo di un reato complesso circostanziato. Anche in questa nuova veste, tuttavia, rimane evidente il nesso funzionale tra i due fatti di reato.

    Il punto fondamentale, allora, è che la connessione funzionale del reato complesso circostanziato deve essere evidente già sul piano astratto per come risulta formulata la norma e deve operare già su un piano strettamente oggettivo.

   Si pensi, in questo ordine di idee, anche all’art. 405, secondo comma, cod. pen.: “se concorrono fatti di violenza alle persone o di minaccia” in caso di condotta (prevista dal primo comma) di chi impedisce o turba l’esercizio di funzioni, cerimonie o pratiche religiose del culto di una confessione religiosa, si applica la reclusione da uno a tre anni.   E’ evidente che già la minaccia o violenza alla persona svolta durante una cerimonia religiosa di per sé turba o impedisce l’esercizio della funzione religiosa, sicché il reato complesso circostanziato qui descritto esprime l’intero disvalore derivante dalla lesione del bene giuridico tutelato, perché la circostanza aggravante si fonda su un elemento che di per sé rileva per il carattere funzionale verso la lesione del bene giuridico tutelato; può esistere allora un reato complesso composto da un solo fatto di reato[2].

   In tal caso, il rapporto rilevante è unicamente quello tra l’elemento qualificante preso in considerazione dalla norma ed il bene giuridico tutelato.

    Indipendentemente dalla pluralità di condotte e, quindi, dei fatti posti in essere – che possono consistere unicamente in un atto di violenza o di minaccia – il reato complesso viene integrato sia nella struttura ordinaria che in quella circostanziata solo se sussiste tale rapporto funzionale.

   Il problema affrontato dai supremi giudici, allora, doveva essere risolto diversamente.

   Innanzitutto, non sempre deve esserci alternativa tra concorso di reati e reato complesso.

   A volte, il singolo fatto costituente un reato minore può integrare il reato di maggiore gravità: deve essere però la norma a prevederne il concorso, come nel caso dell’art. 405, secondo comma, cod. pen., e ciò può avvenire nonostante sussista un carattere funzionale del singolo elemento preso in esame.

   Per il legislatore – in questo caso – il disvalore della violenza o minaccia non è assorbito dal reato più grave.

    La violenza alle persone o la minaccia realizzata in una Chiesa, durante la celebrazione di una messa, possiede tale doppia rilevanza.

    In modo diverso si pongono, secondo la comune esperienza giudiziaria, gli atti persecutori: non hanno di per sé l’idoneità oggettiva a cagionare la distruzione psichica o la morte della vittima; pertanto, le affermazioni sulla proiezione oggettiva o soggettiva degli atti persecutori verso l’annientamento della vittima, sia pure con riferimento alla sua personalità morale, ci appaiono insufficienti a sorreggere le conclusioni cui è pervenuta la sentenza. Anzi, il riferimento alla personalità morale – come abbiamo detto sopra – non soddisfa nemmeno in parte tale esigenza, atteso che chi vuole condizionare o sopprimere la personalità morale di una persona, il più delle volte, non vuole la sua soppressione fisica, perché proietta la sua azione nell’ambito di un rapporto personale (sia pure patologico) che vuole far durare nel tempo. L’evento degli atti persecutori di cui all’art. 612-bis cod. pen. può essere anche il semplice mutamento delle abitudini di vita della vittima.

     In definitiva, ci appare più pertinente guardare al mero criterio funzionale, che è tipico dei più comuni reati complessi. Criterio però che deve essere riconoscibile già sul piano del significato delle parole utilizzate dal legislatore nell’astratta formulazione della norma.

    Se tale criterio non è evidente sul piano lessicale, non ha senso e non può essere eseguita alcuna verifica in concreto. In altri termini, non si può concludere che vi è un reato complesso.

    Il piano sostanziale della connessione tra situazioni fattuali ricorrenti, di per sé, non può assumere siffatto rilievo a prescindere da una connessione astratta, legata allo specifico contenuto e significato della proposizione normativa, altrimenti si rischia di giungere a interpretazioni incontrollabili sulla qualificazione di un reato come complesso, perché si contraddice il metodo costantemente seguito dalla giurisprudenza nelle massime citate dalla stessa sentenza in commento.

   Insomma, ci appare troppo generico evocare una “convergenza” dei due fatti.

   Siamo persuasi, invece, che, nel caso dell’omicidio della vittima degli atti persecutori, non si ha (necessariamente) un’ipotesi di reato complesso circostanziato.

   Inoltre, i criteri indicati dalle Sezioni Unite risultano di difficile applicazione concreta, senza una modifica delle norme.

   Se venisse data applicazione letterale a siffatti criteri, si potrebbe pervenire a una sostanziale neutralizzazione della circostanza aggravante, cioè alla sua non applicazione concreta, nei casi diversi dall’omicidio premeditato dove di fatto finisce per non avere incidenza sulla pena da infliggere al reo.

    È evidente allora il contrasto con la volontà espressa nei lavori preparatori della legge di inasprire il regime sanzionatorio nei casi di omicidio preceduti da stalking della medesima vittima, stante il dilagare di tali gravissimi crimini che, ovviamente, destano ogni volta un forte allarme sociale.

  2. UN PROFILO TRASCURATO: IL RAPPORTO DI PAURA TRA VITTIMA ED AUTORE DEGLI ATTI PERSECUTORI, CHE PROSEGUE OLTRE LA CONSUMAZIONE DEL REATO

    Un profilo che appare trascurato dalle Sezioni Unite, invece, è quello inerente il tipo di rapporto tra reo e vittima che viene creato dal reato di atti persecutori.

    Il reo non sempre mira a distruggere la libertà morale della vittima, non sempre mira a sopprimere la sua personalità, come sembra evincersi invece dalla sentenza in commento e ciononostante crea con la sua condotta un certo tipo di rapporto con la vittima, che persiste oltre la consumazione del reato abituale.

    Ciò che rileva, in base all’art. 612-bis cod. pen., infatti, è che l’agente con la sua condotta incuta timore, susciti paura e ciò possa provocare una malattia nella mente della vittima, quindi una lesione psichica (non la morte) che è il vero epilogo naturale degli atti persecutori.

    Anche sotto questo profilo, va criticata la sentenza in commento, perché di fronte ad un fine preciso esplicitamente indicato nella norma incriminatrice, il giudice non può richiedere un altro fine, non previsto, non scritto.

    Nella motivazione della sentenza delle Sezioni Unite, invece, si legge che la lesione alla persona è solo uno degli epiloghi che si affianca agli atti persecutori, senza costituirne l’epilogo finalistico. Mentre l’omicidio potrebbe costituirne “l’epilogo finalistico”!

    Siffatta impostazione, di per sé, appare certamente non rispondente ai dati statistici, perché gli omicidi (esaminati sotto un profilo quantitativo) costituiscono solo una piccola percentuale rispetto ai delitti di cui all’art. 612-bis cod. pen., che si consumano quotidianamente.

    In ogni caso, tale impostazione lascia fuori dall’ambito di applicazione della circostanza aggravante proprio quella fetta, statisticamente consistente, formata dai casi di omicidio che sono eseguiti dopo un apprezzabile lasso di tempo dalla consumazione di un delitto di atti persecutori, ma non a tale distanza da non inserirsi più nel rapporto umano, gravido di paure della vittima verso l’agente.

    Prendiamo in esame, in un primo momento, i casi di omicidio commessi al di fuori delle coordinate spazio-temporali degli atti persecutori commessi ai danni della stessa vittima.

    In un secondo momento, esaminiamo i casi di omicidio commessi all’interno di dette coordinate; ci accorgiamo subito che essi la maggior parte delle volte sono accomunati da un dato che non è sopito dal tempo trascorso o dalla sentenza di condanna intervenuta: la paura che si rinnova e che si trasforma, quindi, in un incubo nell’ultimo incontro fatale tra la vittima e l’ex persecutore.

    È questo rapporto di timore (in alcuni casi di paura che diventa terrore) il vero substrato fattuale dell’aggravante.

    Questo è anche il punto di connessione funzionale – a nostro avviso – tra i due fatti di reato, che bisognava mettere in evidenza nella sentenza in commento.

    Il fulcro centrale dell’aggravante non va ravvisato nel “fine” dell’agente degli atti persecutori, bensì nell’ansia o nella paura della vittima, che ne costituisce già il suo principale elemento costitutivo (l’evento) previsto esplicitamente dalla norma e che può diventare qualcosa di più grave, l’incubo finale dell’intera vicenda, in caso di morte per mano del suo persecutore (o ex persecutore: cambia poco).

    Il fatto che gli atti persecutori siano attuali, recenti o remoti non rileva: con l’ultima gravissima aggressione, la paura, molto spesso il terrore, torna prepotentemente ad attualizzarsi prima ancora che venga compiuto l’omicidio, indipendentemente dall’epoca in cui la pregressa condotta di stalking è cessata.

    Non è un movente particolare dell’agente che va sanzionato più gravemente, ma la pregressa ansia o paura (evento già realizzato) che si rinnova nella fase dell’omicidio (e quindi si trasforma, a nostro avviso, in un drammatico incubo), anche se è trascorso un lasso di tempo dalla consumazione degli atti persecutori subiti e vi è una soluzione di continuità tra i due delitti.

   L’oggettività giuridica del reato di atti persecutori è comprensiva, oltre che della libertà di autodeterminazione e della tranquillità psichica, anche dell’integrità individuale compromessa dalla sopportazione di contegni minacciosi persistenti, che possono incidere sulla salute fisica e mentale della vittima[3].

   Si noti che la dottrina recente[4] ha evidenziato la possibile realizzazione di autonome fattispecie di reato, quali elementi costitutivi della serie e non ha escluso la configurabilità di un concorso formale di questi con lo stesso reato abituale: il giudice deve sempre valutare lo specifico rapporto tra il reato di stalking e i reati che, eventualmente, vengono realizzati con le condotte reiterate che lo costituiscono.

   Sicché, ci appare ancor più stringente il dovere del legislatore – nel caso intenda configurare un reato complesso che comprenda, nella forma circostanziata, il reato di atti persecutori – di chiarire con espressioni inequivoche la volontà di inglobare nel reato più grave il disvalore dello stalking, in modo da escludere il concorso formale con tale reato.

3. IL COEFFICIENTE PSICHICO DELL’AGGRAVANTE DI CUI ALL’ART. 576, COMMA 5.1., COD. PEN.

    L’argomento che spinge a questa interpretazione non è costituito solo dal tenore dei lavori preparatori della norma, incentrati tutti sulla figura della vittima, senza chiari riferimenti alle intenzioni dell’agente, ma dalla natura di semplice circostanza aggravante dell’art. 576, primo comma n. 5.1, cod. pen., che non presenta nella sua struttura semantica alcun elemento per indicare la necessità di un coefficiente psicologico diverso da quello di cui all’art. 59, secondo comma, cod. pen., quindi la conoscenza o la ignoranza per colpa o il fatto che sia ritenuta inesistente per errore determinato da colpa.

    La limitazione alla forma del dolo intenzionale dell’aggravante non può ricavarsi dalla mera indicazione dell’identità soggettiva dell’autore e della vittima del reato di atti persecutori.

    Si finirebbe altrimenti per operare una disparità di trattamento irragionevole, escludendo dall’operatività dell’aggravante il caso in cui l’omicidio e, soprattutto, gli atti persecutori vengano commessi con dolo eventuale[5], quindi senza la finalità indicata dalla Cassazione.

   Infatti, la finalità di annientamento della personalità morale della vittima è incompatibile con la mera accettazione della morte della vittima e soprattutto con gli atti di molestia commessi con dolo eventuale, con riferimento agli eventi di perdurante e grave stato d’ansia o di paura della vittima o del fondato timore di questa per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona legata alla medesima da relazione affettiva o in modo da costringere la stessa ad alterare le proprie abitudini di vita.

Non comprendiamo, quindi, come il supremo Consesso tralasci di fatto, solo in questa occasione, i casi di omicidio e di stalking con dolo eventuale, richiedendo un finalismo del soggetto agente delle condotte persecutorie indirizzato verso l’annientamento della personalità della vittima, che può innestarsi solo in un dolo intenzionale.

4. LE NOSTRE CONCLUSIONI PER IL CONCORSO FORMALE DEL REATO DI CUI ALL’ART. 612-BIS COD. PEN. E DELL’OMICIDIO AGGRAVATO AI SENSI DELL’ART. 576, PRIMO COMMA N. 5.1., COD. PEN.

 In definitiva, l’interpretazione data dalla Cassazione, lungi dall’inasprire il regime sanzionatorio complessivo nei casi di stalking ai quali segue l’omicidio della vittima, per porre un freno effettivo all’aumento statistico di tali crimini (come era nell’intento evidente del legislatore), paradossalmente finirà – ad avviso di chi scrive – per ridurre drasticamente il rilievo dell’aggravante, perché la sua applicazione concreta risulterà confinata quasi esclusivamente ai casi di omicidio premeditato, già puniti quindi con l’ergastolo, lasciando fuori della sua applicazione – in modo non giustificato dal significato letterale della chiara locuzione usata dalla norma – i casi in cui sono cessati (anche se da poco tempo) gli atti persecutori, ma persiste la paura della vittima, che si rinnova (o peggio si trasforma in incubo) in occasione dell’omicidio.

Per di più, anche nei ristretti casi in cui l’aggravante risulterà applicabile, cioè quando sarà di fatto sussistente anche la premeditazione dell’omicidio, poiché le Sezioni unite ritengono che venga meno il concorso formale dei reati, avendo qualificato i due fatti di stalking e di omicidio come reato complesso circostanziato, si applicherà la pena prevista per il reato di omicidio aggravato da due circostanze, quella della premeditazione di cui all’art. 577, primo comma n. 3, cod. pen. e quella di cui all’art. 576, primo comma n. 5.1, cod. pen., col risultato che non sarà nemmeno aumentata la pena per quest’ultima aggravante.

Se, invece, si fosse riconosciuto il concorso formale dell’omicidio premeditato con gli atti persecutori, verrebbe applicata per il reato di stalking (quando viene punito con pene detentive superiore a cinque anni di reclusione) la pena detentiva temporanea dell’isolamento diurno nella misura prevista dall’art. 72, secondo comma, cod. pen., in aggiunta all’ergastolo previsto per l’omicidio premeditato[6].

Ancora una volta[7], sul tema del reato complesso la Corte di cassazione ha espresso delle affermazioni generali non del tutto convincenti, in apparente dissonanza con i criteri consolidati nella stessa giurisprudenza di legittimità.

In definitiva, nel caso di cui all’art. 576, primo comma n. 5.1, cod. pen. – a nostro avviso – non si configura un reato complesso circostanziato, perché una forma di reato siffatta deve trovare fondamento nella relazione funzionale tra i fatti che lo compongono, sempreché tale relazione risulti descritta dalla norma incriminatrice: quindi, tra gli atti o gli eventi che compongono il delitto meno grave e il bene giuridico tutelato dalla fattispecie più grave.


[1] introdotto dall’art. 1 comma 1 lett. b) dal D.L. 23 febbraio 2009 n. 11, convertito con modificazioni nella L. 23 aprile 2009 n. 38.

[2] M. Gallo Appunti di diritto penale Vol. I, La legge penale, Torino 1999, pag. 238.

[3] La plurioffensività del delitto di stalking è stata affermata da R. Bricchetti-L. Pistorelli Entra nel codice la molestia reiterata, in Guida al diritto, 2009, pag. 63 e A.M. Maugeri, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Torino, 2010, pag. 103

[4] F. Bellagamba Il reato abituale prospettiva per una possibile lettura rifondativa, Torino 2023, pag. 89 e 90, il quale condivisibilmente evidenzia che è sulla divaricazione tra i beni giuridici protetti e sull’eventuale mancato assorbimento delle parti nel tutto che si misura la distanza che separa il reato abituale proprio (quale è lo stalking) da quello improprio, trovando quest’ultimo a differenza del primo fondamento nella necessaria omogeneità tipologica tra episodio puntuale e condotta reiterata.

[5] Con ciò senza mutare affatto opinione in ordine all’inaccettabilità delle tesi giurisprudenziali e dottrinarie sul dolo eventuale, sulle quali diffusamente ci siamo soffermati nel nostro lavoro: D. Fiordalisi e A. Fiordalisi – La direzione della volontà – Una riflessione sull’elemento psicologico del reato. Giappichelli, Torino 2022.

[6] Nel caso di due circostanze aggravanti che portano alla pena dell’ergastolo, infatti, si deve considerare che il legislatore ha ritenuto, con una scelta di politica criminale non suscettibile di censure in punto di ragionevolezza, che la realizzazione di un omicidio volontario commesso con una sola delle circostanze aggravanti, come quelle previste dai n. 1 e 4 dell’art. 577, primo comma, cod. pen., sia di per se stessa meritevole, sul piano dell’astratta previsione edittale, della pena detentiva perpetua. E, non sussistendo una pena più grave rispetto a quella dell’ergastolo, lo stesso legislatore non ha potuto far altro che ribadire la previsione della pena massima, anche per l’ipotesi in cui le aggravanti siano due (Sez. 1, n. 12040 del 07/02/2023, Lo Verde, Rv. 284434).

[7] Già in passato, sul tema del reato complesso, autorevole dottrina (Giuliano Vassalli, Reato Complesso, in Enciclopedia del diritto, vol. XXXVIII, Milano 1987, pag. 827) aveva mosso critiche alle affermazioni della Corte di legittimità:“La giurisprudenza della Corte di cassazione, in tema di reato complesso, appare non di rado caratterizzata da affermazioni generali motivate da una non sempre necessaria od appropriata risoluzione del caso singolo e qualche volta persino incongrua rispetto a soluzioni adottate in problemi diversi, ma pur sempre concernenti il reato complesso”.

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