Sommario: Premessa.  1. I principi ed i criteri direttivi della legge delega n. 111/2023. 2. Il sindacato di costituzionalità per eccesso di delega nella materia penale. 3. La definizione dei crediti inesistenti e non spettanti ai fini della fattispecie ex art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000. 3.1. Le previsioni dello schema di d.lgs. posto al vaglio delle commissioni parlamentari. 3.2. Il dissidio giurisprudenziale.   3.2.1. La giurisprudenza civile.   3.2.2. La giurisprudenza penale. 3.3.   Profili critici.  4. Il prolungamento dei termini previsti per il perfezionamento e le nuove cause di esclusione della punibilità dei reati di omesso versamento di ritenute dovute o certificate, nonché di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto. 4.1. Le previsioni dello schema di provvedimento e le ragioni delle innovazioni secondo la relazione illustrativa. 4.2. L’adesione e la rateizzazione nella disciplina vigente. 4.3. Profili  critici. 5. Le “nuove” cause di non punibilità dei reati tributari riscossivi e il nuovo favore verso la circostanza attenuante del pagamento del debito per i delitti tributari.   5.1 Le previsioni del provvedimento e la relazione illustrativa.   5.2. La crisi di liquidità nell’elaborazione giurisprudenziale relativa ai reati riscossivi.  5.2.1. I limitati spazi di configurabilità della forza maggiore e dello stato di necessità da crisi di liquidità rispetto al reato ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000. 5.2.2.  Crisi di liquidità in tema di omessi versamenti IVA.   5.2.3. Profili critici della novella progettata in punto di causa di non punibilità per crisi non transitoria di liquidità. 5.2.4. La causa non punibilità per tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.: osservazioni.     5.2.5. La circostanza attenuante dell’art. 13 bis d.lgs. n. 74/2000: analisi e critica.   6. Preclusioni al sequestro finalizzato alla confisca in caso di rateizzazione del debito secondo lo schema di d.lgs. in commento: critica fenomenologica.

Premessa.

Lo schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio tributario A.G. 144, emanato in attuazione dei princìpi di cui all’articolo 20 della legge di delega per la riforma fiscale (legge n. 111 del 2023) progetta previsioni dalle quali trae conferma il progressivo consolidamento della funzionalizzazione del diritto penale agli obiettivi riscossivi del diritto amministrativo. Lo rivelano molteplici profili sostanziali delle innovazioni penali immaginate dall’art. 1 dello schema di d.lgs.  (d’ora in poi, per brevità, anche “provvedimento”), riservando l’attenzione a quelle che ridefiniscono i contenuti sostanziali delle fattispecie penali descritte dal d.lgs. n. 74/2000, quali elementi oggettivi, tempi di consumazione, nuove cause di esclusione della punibilità, circostanze attenuanti e, in genere, rivelano un nitido favore rispetto all’estinzione in via amministrativa del debito tributario. Moderna direttrice della politica criminale nella materia tributaria cui soggiacciono anche le tempistiche di celebrazione dei processi penali e, talvolta, gli esiti di questi ultimi, spingendo verso soluzioni di reintegrazione economica. Nondimeno, non dovrebbe dimenticarsi l’importanza di conservare nel settore alla sanzione penale una seria funzione retributiva e dissuasiva.        

  1. I principi ed i criteri direttivi della legge delega n. 111/2023.

La L. 9/8/2023, n. 111 (Delega al Governo per la riforma fiscale), all’art. 20, definisce i «princìpi e criteri direttivi per la revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale».  

Più in dettaglio, in base al comma 1 del cit. art. 20 «Nell’esercizio della delega di cui all’articolo 1 il Governo osserva […] i seguenti princìpi e criteri direttivi specifici per la revisione del sistema sanzionatorio tributario, amministrativo e penale, con riferimento alle imposte sui redditi, all’IVA e agli altri tributi indiretti nonché ai tributi degli enti territoriali:

a) per gli aspetti comuni alle sanzioni amministrative e penali1) razionalizzare il sistema sanzionatorio amministrativo e penale, anche attraverso una maggiore integrazione tra i diversi tipi di sanzione, ai fini del completo adeguamento al principio del ne bis in idem2) valutare la possibilità, fissandone le condizioni, di compensare sanzioni e interessi per mancati versamenti di imposte su redditi regolarmente dichiarati nei riguardi di soggetti che hanno crediti maturati nei confronti delle amministrazioni statali, certificati dalla piattaforma dei crediti commerciali, per importi pari e sino alla concorrenza del debito di imposta;  3) rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario prevedendo, in coerenza con i princìpi generali dell’ordinamento, che, nei casi di sentenza irrevocabile di assoluzione perché il fatto non sussiste o l’imputato non lo ha commesso, i fatti materiali accertati in sede dibattimentale facciano stato nel processo tributario quanto all’accertamento dei fatti medesimi e adeguando i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale;  4) prevedere che la volontaria adozione di un efficace sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale, di cui all’articolo 4 del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128, e la preventiva comunicazione di un possibile rischio fiscale da parte di imprese che non possiedono i requisiti per aderire al regime dell’adempimento collaborativo possano assumere rilevanza per escludere ovvero ridurre l’entità delle sanzioni;  5) introdurre, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali, una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta non spettanti e inesistenti

b) per le sanzioni penali: 1) attribuire specifico rilievo all’ipotesi di sopravvenuta impossibilità di far fronte al pagamento del tributo, non dipendente da fatti imputabili al soggetto stesso; 2) attribuire specifico rilievo alle definizioni raggiunte in sede amministrativa e giudiziaria ai fini della valutazione della rilevanza penale del fatto».    

2. Il sindacato di costituzionalità per eccesso di delega nella materia penale.         

Il sindacato di costituzionalità per eccesso di delega in ambito penale si muove tra due opposte esigenze: da un lato, vi è il principio, non flessibile, della riserva di legge in materia penale (art. 25, secondo comma, Cost.), che si sostanzia nel tendenziale monopolio del Parlamento, quale rappresentante della volontà popolare nella dialettica tra maggioranza e minoranza, sulle scelte d’incriminazione (cfr. sentenza C. cost. n. 230 del 2012), salvi i casi di legittimo intervento del potere esecutivo (decreto legislativo e, sebbene più problematicamente, decreto-legge);  dall’altro, rileva l’essenza stessa della delega legislativa (artt. 76 e 77, primo comma, Cost.), il cui esercizio non può ridursi ad automatica trasposizione di norme già fissate nella loro interezza nella legge delega (pena lo svilimento della legislazione delegata a normazione di stampo sostanzialmente «regolamentare») e, tuttavia, marcata dal limite invalicabile di legittimità costituzionale del rispetto dei principi e criteri direttivi fissati nella legge delega, al fine di scongiurare l’improprio svuotamento delle garanzie sottese alla riserva di legge.  Tra la copiosa giurisprudenza costituzionale in tema di eccesso di delega, possono essere richiamati i principi della sentenza n. 5 del 2014, adottata in relazione ad una ipotesi di abolitio criminis (introdotta dal decreto legislativo al di fuori della norma di delega), predicabili a fortiori nelle fattispecie in cui la norma delegata ampli una figura delittuosa già esistente, in assenza di copertura nei criteri direttivi della delega.  Il tema dell’eccesso di delega (artt. 76 e 77, primo comma, Cost.) si pone ricorrentemente in caso di introduzione di una fattispecie di reato da parte del legislatore delegato, allorché va valutato congiuntamente al rispetto della riserva di legge e del principio di stretta legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost. Se per un verso, in generale, la delega legislativa comporta una discrezionalità del legislatore delegato, più o meno ampia in relazione al grado di specificità dei «princìpi e criteri direttivi» determinati nella legge delega, tenendo anche conto della sua ratio e della finalità da quest’ultima perseguita (ex plurimis, sentenze n. 142 del 2020, n. 96 del 2020 e n. 10 del 2018); per l’altro, in particolare, il legislatore delegante deve adottare, nella materia penale, criteri direttivi e principi configurati in modo assai preciso, sia definendo la specie e l’entità massima delle pene, sia dettando il criterio, in sé restrittivo, del ricorso alla sanzione penale solo per la tutela di determinati interessi rilevanti (sentenze n. 49 del 1999 e n. 53 del 1997, ordinanza n. 134 del 2003). Infatti, nella materia penale è più elevato il grado di determinatezza richiesto per le regole fissate nella legge delega; ciò perché il controllo del rispetto, da parte del Governo, dei «princìpi e criteri direttivi», è anche strumento di garanzia della riserva di legge e del rispetto del principio di stretta legalità, spettando al Parlamento l’individuazione dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili (C. Cost. sentt. n. 174 del 2021, n. 127 del 2017 e n. 5 del 2014)

3. La definizione dei crediti inesistenti e non spettanti ai fini della fattispecie ex art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000.

3.1 Le previsioni dello schema di d.lgs. posto al vaglio delle commissioni parlamentari.

L’art. 1, comma 1, lett. a) dello schema di d.lgs. in commento innesta, tra le disposizioni premesse alla descrizione delle fattispecie penali delineate dall’art. 1 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, le definizioni di “crediti non spettanti” e di “crediti inesistenti”.

In particolare, ai sensi del nuovo art. 1, comma g-quater) «per “crediti non spettanti” si intendono quelli, diversi dai crediti previsti dalla lettera g-quinquies, fondati su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità. Sono, altresì, non spettanti i crediti utilizzati in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella prevista. Si considerano, tuttavia, spettanti i crediti fondati sulla base di fatti reali rientranti nella disciplina attributiva, nonché utilizzati in misura e con le modalità stabilite dalla medesima, ma in difetto dei prescritti adempimenti amministrativi di carattere strumentale, sempre che gli stessi non siano previsti a pena di decadenza».

L’art. 1 g-quinquies), invece, stabilisce che «per “crediti inesistenti” si intendono quelli per i quali mancano, in tutto o in parte, i presupposti costitutivi;».  

3.2 Il dissidio giurisprudenziale.

3.2.1. La giurisprudenza civile.

In tema di “credito inesistente” e “credito non spettante” in seno alla Sezione Tributaria della Cassazione si è profilato un contrasto tra un primo – più risalente e maggioritario – orientamento per il quale tra tali nozioni non vi sarebbe alcuna differenza ai fini dei termini di accertamento.  Infatti, «l’art. 27, comma 16, d.l. 185/2008, conv. l. 2/2009, non intende elevare l’”inesistenza” del credito a categoria distinta dalla “non spettanza” (distinzione, a ben vedere, priva di fondamento logico giuridico), ma intende solo garantire un margine di tempo adeguato per le verifiche talora complesse riguardanti l’investimento generatore del credito d’imposta, margine di tempo perciò indistintamente fissato in otto anni, senza che possa trovare applicazione il termine più breve stabilito dall’art. 43 d.P.R. 600/1973 per il comune avviso di accertamento» «dunque, ogniqualvolta il credito derivante dall’operato investimento non sussiste, per ciò solo deve ritenersi inesistente nel senso precisato dalla norma»[1].

In dissenso a questa interpretazione si sono poste le sentenze “gemelle” n. 34443, 34444 e 34445 del 16/11/2021 (cfr. anche Cass. n. 5243 del 20/02/2023) che, dopo aver rilevato che la nozione di credito inesistente è stata positivamente dettata con «il “nuovo” art. 13, comma 5, terzo periodo, del d.lgs. n. 471/1997, come introdotto dall’art. 15 del d.lgs. n. 158/2015», concludono nel senso di ritenere che il precedente orientamento «vada necessariamente superat[o] anche per effetto della citata novella, non tanto e non già perché quest’ultima sia direttamente applicabile alla fattispecie, ratíone temporis, bensì perché nella stessa definizione positiva di “credito inesistente” può rinvenirsi la conferma della dignità della distinzione delle due categorie in discorso, già sulla base dell’originario impianto normativo concernente la riscossione dei crediti d’imposta indebitamente utilizzati».  In tal senso, si è evidenziato che: – l’art. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008, concerne «la sola “riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241”; – la «novella del 2015 si innesta nella riscrittura della norma già contenuta nel contestualmente abrogato art. 27, comma 18, d.l. cit. e mira quindi a specificare il contenuto del precetto originario, così ancorando la nozione di “credito inesistente” ad una dimensione “non reale” o “non vera”, ossia priva di elementi giustificativi fenomenicamente apprezzabili, se non anche con connotazioni di fraudolenza».

 Le Sezioni Unite sono state chiamate a confrontarsi con la nozione di crediti d’imposta inesistenti, tenuta in conto dall’art. 27, commi da 16 a 20, d.l. 29 novembre 2008 n. 185, conv. con mod. dalla l. 28 gennaio 2009 n. 2, e, poi, a seguito delle modifiche operate con il d.lgs. n. 158 del 2015, dall’art. 13, comma 5, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471. In particolare l’esigenza nomofilattica ha riguardato la necessità di distinguere, o meno, detta nozione rispetto a quella di crediti d’imposta non spettanti, attualmente oggetto di considerazione dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471/1997. La questione refluisce sull’applicabilità del termine di decadenza  per l’esercizio della potestà accertativa da parte dell’Amministrazione finanziaria in caso di indebita compensazione (quello lungo, di otto anni, introdotto dal comma 16 dell’art. 27 d.l. 185/2008, anziché quello ordinario, previsto dell’art. 43, terzo comma, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600), e sul trattamento sanzionatorio (l’indebita compensazione con crediti inesistenti essendo soggetta alla più grave sanzione dal 100% al 200% dei crediti).

Con la sentenza n. 34419/2023[2]  le Sezioni Unite civili hanno formulato il seguente principio di diritto: «in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da  parte del contribuente, all’azione di accertamento dell’erario si applica il più lungo termine di otto anni, di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008, quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano i termini ordinari per l’attività di accertamento».   In altri termini le Sezioni Unite riconoscono che, accanto alle carenze sul piano strettamente fenomenico e a quelle sui presupposti costitutivi del singolo credito d’imposta, rileva, come elemento costitutivo strutturale autonomo e di portata generale, un elemento “procedurale” o “percettivo” di carattere obbiettivo (non rilevabilità in sede di controllo automatizzato), la cui mancanza degrada la fattispecie.

Si tratta di elemento che partecipa alla costituzione della stessa nozione di credito inesistente. L’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 – che ha solo confermato e precisato quanto già desumibile dall’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 – è chiaro nel precisare che il credito è inesistente quando manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo «e» tale inesistenza non sia riscontrabile con controlli cd. automatizzati. L’uso della congiunzione «e» rivela la necessaria contitolarità dei due requisiti – quello strutturale interno correlato ai singoli crediti e quello strutturale esterno di portata generale – per la costruzione della nozione e l’applicazione del regime più severo, che resta circoscritto alle fattispecie di maggiore gravità e offensività.  Il corollario è che, in assenza di uno dei due requisiti, il credito, ai fini qui in rilievo, non può qualificarsi come inesistente: non importa che il credito sia carente di elementi costitutivi o sia “non reale” se tale inesistenza è agevolmente rilevabile, restando la vicenda, in tale ipotesi, soggetta al regime giuridico ordinario e meno afflittivo.  In altri termini, il credito, pur inesistente in fatto, non è valutabile come tale e, dunque, esclusa la possibilità di un tertium genus tra esistente e inesistente, deve essere ricondotto, sul piano formale, ai crediti “esistenti”, sicché la sua indebita compensazione rileva come quella di credito “non spettante”, sempre escluso dal più lungo termine di accertamento, nonché, sul piano afflittivo, oggi sanzionato ai sensi del comma 4 del d.lgs. n. 471 del 1997 e, in precedenza, ai sensi del comma 1 del medesimo decreto legislativo.

La necessità che l’inesistenza del credito non sia riscontrabile mediante controlli formali impone alcune ulteriori considerazioni. La condizione del mancato riscontro formale ha valore oggettivo: non assume rilievo che, materialmente, l’inesistenza del credito sia stata rilevata a seguito di accertamento sostanziale ma solo che, in sede di controllo formale, non era possibile riscontrarne la mancanza, ancorché, in concreto, tale verifica non sia stata operata. Inoltre, al di là dell’ipotesi in cui la condotta sia palesemente connotata da fraudolenza, come tale mirata a fornire solo una fittizia rappresentazione dei presupposti di fatto e normativi del credito e/o dell’eccedenza, tra gli elementi strutturali idonei ad assumere natura costitutiva del credito, assume una particolare rilevanza l’esistenza di un obbligo di facere o di non facere.
L’adempimento di un obbligo di tal genere, infatti, se, da un lato, condiziona l’esistenza e/o il mantenimento dell’agevolazione (e del diritto di credito), dall’altro  si traduce nel compimento di una attività da parte del contribuente che, più di altre, non necessariamente è suscettibile di rilevazione in sede di controllo formale[3].

La S.C. ha chiarito come la problematica di fondo si incentra su un duplice ordine di profili: in primo luogo, se le due nozioni (credito inesistente e credito non spettante) abbiano, effettivamente, un oggetto differente e, in tal caso, quali siano i caratteri distintivi; in secondo luogo, se, con riguardo alla condotta di indebito utilizzo in compensazione di un “credito inesistente” ovvero “non spettante”, sia ravvisabile, e da quando, un regime giuridico differente e quali siano i presupposti che ne condizionano l’applicabilità.

Quanto alla prima questione, va premesso che l’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dall’art. 15, d.lgs. 24/09/2015 n. 158, ha fornito, per la prima volta, una esplicita definizione positiva di credito inesistente stabilendo che «Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633». Accanto a tale definizione, il legislatore, al comma 4 dell’art. 13 cit., parimenti modificato dalla novella del 2015, ha fornito una autonoma definizione della nozione di credito non spettante, individuato con la locuzione «utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti». Tali indicazioni postulano comunque una ricognizione di quali siano i presupposti, di fatto e normativi, per ritenere esistente un credito d’imposta; esse, inoltre, sono applicabili, in sé, alle fattispecie successive al 1° gennaio 2016 (art. 32, comma 1, d.lgs. n. 158 del 2015), rilievo quest’ultimo che, se ai fini sanzionatori trova un adeguato temperamento nell’applicazione dei principi in tema di successione di norme, condiziona l’applicabilità del maggior termine per l’esercizio della potestà accertativa da parte degli Uffici finanziari ex art. 27, comma 16, d.l. n. 185/2008. Le SSUU hanno dunque verificato se, e in quale misura, le definizioni introdotte dal legislatore nel 2015 corrispondano a nozioni già esistenti e ricavabili da principi generali dell’ordinamento tributario e quale sia il rapporto con la disciplina introdotta nel 2008.  Secondo il linguaggio comune, la nozione di “inesistenza” evoca, sul piano fenomenico, la non appartenenza alla realtà: lo specifico evento o circostanza – che determina l’insorgere del credito – non esiste o non si è mai realizzato. A tali situazioni è assimilabile l’ipotesi in cui il credito (la pretesa), pur regolarmente sorto, sia venuto meno per “consumazione” perché già utilizzato dal soggetto interessato. Queste connotazioni, infine, possono assumere rilievo assoluto, nel senso che l’inesistenza riguarda la totalità dei consociati, oppure carattere relativo in quanto condizioni riferite a specifici soggetti; in questo caso il credito o la pretesa non “esistono” per il soggetto che li invoca, senza che interferisca con questa conclusione la circostanza che essi esistano per altri soggetti o per un diverso rapporto. Sul piano giuridico tributario, la nozione è indubbiamente più sottile poiché postula, accanto ad una declinatoria fenomenica, anche la ricognizione positiva, con riguardo alle singole previsioni d’imposta, di quei requisiti – condizioni, termini e forme – normativamente imposti come elementi costitutivi dei singoli crediti d’imposta. In particolare, il credito va considerato inesistente non solo quando le attività e i presupposti fondanti non sono mai venuti in essere ma anche quando siano assenti le ulteriori condizioni essenziali – formali o sostanziali – previste dal legislatore.

Sotto questo profilo non tutti gli elementi (e gli adempimenti) che partecipano alla realizzazione della fattispecie assumono un necessario rilievo costitutivo, potendo influire su aspetti meramente formali ovvero incidere solo sull’efficacia della pretesa.  In tali ipotesi, il credito esiste ma non è utilizzabile in tutto o in parte, sicché il credito non può validamente od efficacemente esser posto in compensazione. Per tale ragione le SU ritengono che le due categorie, dunque, appaiono strutturalmente distinte e, sul piano logico, alternative: il credito è inesistente oppure esiste ma è non spettante.

In via generale, ai fini della determinazione dell’inesistenza del credito, la S.C. ha distinto le seguenti ipotesi: a) la fattispecie che fonda l’agevolazione o il credito d’imposta non è mai venuta ad esistenza ma, semplicemente, è stato solo realizzato un simulacro dei presupposti su cui si fonda la pretesa; b) la fattispecie è carente di un elemento costitutivo; in tal caso la verifica richiede l’esegesi puntuale delle norme che istituiscono l’agevolazione, tenuto conto dei principi regolatori della specifica imposta.

L’ipotesi sub a) è quella più radicale – ma anche di più semplice analisi – per la normale connotazione fraudolenta della condotta mirata a fornire solo un’ingannevole rappresentazione dei presupposti di fatto e normativi. In questo caso, l’attività svolta è fittizia perché le attività richieste non sono mai state effettuate: ad esempio, con riguardo al credito d’imposta per le spese sostenute per l’attività di ricerca e sviluppo di cui all’art. 1, commi 280 e ss, l. n. 296 del 2006, se gli studi non sono mai avvenuti. Analogamente, il credito Iva posto in compensazione è inesistente quando è generato da operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti.  Assimilabile all’evenienza sub a), poi, è l’ipotesi in cui il credito d’imposta, pur regolarmente sorto, competa, in realtà, ad un soggetto diverso, nonché quella in cui il credito si sia estinto per esser già stato utilizzato, circostanza che ne preclude – definitivamente – un nuovo impiego. In quest’ultimo caso, non è rilevante che il credito sia stato in origine utilizzato indebitamente (ad esempio, in compensazione oltre le soglie annue consentite) poiché assume rilievo il dato oggettivo della sua “consumazione” e, quindi, la fuoriuscita dalla sfera di disponibilità del contribuente. Tuttavia, va sottolineato che l’eventuale contestazione dell’Ufficio sull’originaria indebita compensazione determina una situazione di incertezza del credito, che, oltre a condizionarne l’utilizzabilità, impone una specifica concreta valutazione sulla sua effettiva esistenza.

Con riguardo all’ipotesi sub b), appare necessario in un’ottica sistematica, per la varietà di tipologie di crediti d’imposta, procedere ad un’indagine più analitica al fine di individuare – pur a fronte delle difficoltà derivanti da una normazione di settore spesso variegata e multiforme – i parametri strutturali, di carattere generale, per ritenere esistente un credito di imposta, ossia quali siano gli elementi idonei ad assumere natura costitutiva e quali, invece, abbiano carattere accessorio o riguardino la sola efficacia della pretesa. Così alla distinzione tra credito inesistente e credito non spettante viene riconosciuto carattere strutturale, con fondamento logico giuridico identificabile nel complessivo sistema ordinamentale tributario: l’una (“l’inesistenza”) ha un valore obbiettivo, mentre l’altra (la “non spettanza”) ha un carattere dinamico ancorato al presupposto, antitetico, dell’esistenza del credito.

Le Sezioni Unite hanno passato in rassegna alcuni degli elementi di rilievo strutturale, quali: 1) l’istanza del contribuente; 2) la previsione di obblighi di facere e/o di non facere: 3) l’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive.

 Sotto il primo profilo le Sezioni unite ricordano che il beneficio può essere riconosciuto ex lege per il solo fatto del ricorrere delle condizioni materiali; di frequente, tuttavia, è richiesta una istanza del contribuente, ossia la presentazione di un’apposita dichiarazione, autonoma o confluente nella dichiarazione annuale[4].

Non è in contrasto con tale rilievo – e, anzi, ne fornisce ulteriore riscontro – la circostanza che, in talune ipotesi (in ispecie, nel caso in cui il beneficio discenda direttamente da riconoscimento normativo), l’istanza del contribuente assuma rilievo solo quale sollecitazione all’applicabilità di un regime legale (v. Cass. n. 3412 del 21/02/2005). E, del resto, la generale importanza della richiesta del contribuente per la fruizione delle agevolazioni si ricava anche dall’art. 19, comma 1, lett. h), d.lgs. n. 546 del 1992 che ha esplicitamente previsto, tra gli atti impugnabili, il “diniego di agevolazioni”, «la quale, in ambedue le ipotesi dianzi prefigurate (elemento della fattispecie costitutiva del diritto relativo, ovvero mera sollecitazione a riconoscerlo) rappresenta la forma propria d’esercizio del diritto fatto valere» (v. Cass. n. 1004 del 24/01/2001).

Quanto alla previsione di obblighi di facere e/o di non facere, va ricordato che accanto all’individuazione di elementi, di fatto o normativi, in atto al momento genetico della pretesa, a delineare il riconoscimento dell’agevolazione e/o del credito d’imposta è frequentemente prevista la realizzazione di un facere (e/o di un non facere) – talvolta connotato da attività formali, talvolta da adempimenti sostanziali – da parte del destinatario della posizione soggettiva. Si tratta, invero, di una modalità operativa che riflette (e rende concreto) l’interesse che l’agevolazione mira a perseguire[5].

Quanto all’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive, la loroprevisione per la fruizione del credito d’imposta può assumere rilievo autonomo ovvero può integrare la presentazione dell’istanza da parte del contribuente o la realizzazione delle condotte richieste[6].

Non è invece idonea ad incidere, ai fini della perfezione della fattispecie costitutiva, l’inosservanza di meri adempimenti procedurali o la previsione di soglie o limiti di valore[7].

Correlativamente, va parimenti escluso che sia suscettibile di assumere rilievo quale elemento costitutivo l’eventuale previsione, nella struttura dell’agevolazione o del credito in eccedenza, di un termine di inizio, prima del quale il credito non sia utilizzabile, ovvero di una condizione sospensiva per la fruizione del credito. In queste ipotesi, la fattispecie integrativa del credito d’imposta è già perfezionata nei suoi elementi costitutivi, restando carente solo una condizione di efficacia per la fruizione del credito.  Per precisione, va sottolineato che esulano da questo ambito le eventuali condizioni sospensive o i termini che siano apposti nell’ambito del rapporto giuridico sottostante al rapporto tributario, la cui possibile rilevanza deve essere sempre valutata in relazione alle specificità delle fattispecie agevolative[8].

Infine, merita una specifica considerazione, in tale ambito, l’ipotesi in cui il credito o l’eccedenza sia relativa all’Iva, imposta armonizzata, per la quale si deve tenere conto dei principi derivanti dalla disciplina unionale e affermati dalla Corte di giustizia. Il principio di neutralità dell’imposizione, infatti, impone che, ancorché taluni obblighi formali siano stati omessi dai soggetti passivi, non possa, per ciò solo, determinarsi la perdita del diritto di detrazione – e quindi, per quanto qui rileva, neppure la qualificazione del credito come inesistente – ove sussistano i requisiti sostanziali, che consistono nelle circostanze che gli acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’Iva attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni imponibili (v. Corte di giustizia, sentenza 11 dicembre 2014, in C-590/13, Idexx Laboratoires Italia, sentenza 17 luglio 2014, in C- 272/13, Equoland; da ultimo, sentenza 18 marzo 2021, in C-895/19, Dyrektor Krajowej Informacji Skarbowej)[9].

In materia di Iva la stessa decadenza dal diritto di detrazione (v. Sez. U, n. 17757 del 08/09/2016) non determina, in sé, l’inesistenza del credito, potendo il contribuente chiederne il rimborso.

L’importanza della definizione della nozione di crediti inesistenti o non spettanti scaturisce da convergenti evoluzioni normative. In primis, va considerato il progressivo ampliamento dello strumento della compensazione dei crediti tributari: inizialmente introdotta per crediti e debiti della medesima imposta (cd. compensazione “verticale” ex art. 11, comma 3, d.P.R. n. 917/1986) è stata estesa a tributi diversi (compensazione “orizzontale” ex art. 17 d.lgs. n. 241/1997), ed ha trovato anche un riconoscimento, quale modalità generale di estinzione dell’obbligazione tributaria (peraltro, nei limiti dei casi e alle condizioni espressamente previste: v. Cass. n. 17001 del 09/07/2013; Cass. n. 10207 del 18/05/2016), nell’art. 8 l. n. 212 del 2000. Ciò ha imposto di prevedere adeguate misure per consentire all’Amministrazione finanziaria di contrastare efficacemente l’utilizzo indebito o fraudolento della compensazione[10]. È con il d.l. 4 luglio 2006, n. 223, che, per la prima volta, emerge, sul piano positivo, l’esistenza di una dicotomia tra le due categorie concettuali. Infatti, l’art. 35 del d.l. n. 223/2006 introduce l’art. 10-quater del d.lgs. n. 74 del 2000, che prevede l’illiceità penale della condotta di colui che «non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non spettanti o inesistenti». In realtà, anche in questo caso la distinzione, pur positivamente affermata, non comportava diversità di disciplina poiché entrambe le condotte restavano soggette al medesimo regime sanzionatorio penale (ossia, alla pena da sei mesi a due anni). È solamente con il d.l. n. 185 del 2008 che l’attenzione del legislatore si concentra, limitatamente all’ambito tributario, su una differenziazione di regime giuridico[11]. La successiva evoluzione normativa conserva e rafforza la distinzione e la diversità di regime giuridico, cui si aggiunge anche una prospettiva convergente tra disciplina penale e tributaria. Con l’art. 15 del d.lgs. n. 158 del 2015 – immodificati i commi 16 e 17 dell’art. 27 cit. – il comma 18 viene abrogato (con decorrenza dal 1° gennaio 2016 ex art. 32, comma 2, d.lgs. n. 158 del 2015) e, contestualmente, vengono introdotti i nuovi commi 4 e 5 dell’art. 13 d.lgs. n. 471 del 1997[12].  Analogamente in ambito penale: l’art. 9 d.lgs. n. 158 del 2015 novella l’art. 10-quater d.lgs. n. 74/2000, che, nel nuovo testo (in vigore dal 22 ottobre 2015), ha previsto: «1. È punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti non  spettanti, per un importo annuo superiore a cinquantamila euro. 2. È punito con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni chiunque non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, crediti inesistenti per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro.».

Il rinvio operato dall’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 non solo all’art. 10-quater ma alla stessa procedura di riscossione ex art. 1, comma 421, l. n. 331/2004 – in sé rilevante per la generalità delle compensazioni indebite – è espressamente circoscritto alle sole compensazioni per crediti inesistenti. Inoltre, tale delimitazione non concerne qualsiasi indebita compensazione per crediti inesistenti ma solo quelle emergenti dal «controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato», come esplicitamente prevede il comma 16, con espressione poi ripresa dal successivo comma 17. Tale locuzione, come anche specifica la relazione illustrativa al provvedimento legislativo, si riferisce alle ipotesi in cui «dai riscontri sui dati contenuti nei modelli di pagamento unificato relativi alle compensazioni esposte» risultino «crediti d’imposta non esposti, come obbligatoriamente previsto, nelle dichiarazioni presentate, nonché relativi a periodi di formazione per i quali le dichiarazioni risultano omesse, o nei quali l’attività economica esercitata dai contribuenti risulta essere cessata», ossia in esito a verifiche dalle quali emerga «l’inesistenza dei crediti stessi, non essendo, nella maggior parte dei casi, riscontrabili partendo dal controllo delle dichiarazioni fiscali». Si tratta di ipotesi in cui il credito viene “creato” direttamente con il modello F24 pur in assenza di riscontro documentale od esposizione nella dichiarazione o, ancora, in forza di attività artificiose mediante la creazione di crediti fittizi, ancorché, in questo caso, riportati nelle dichiarazioni.  Le condotte rilevanti, dunque, sono quelle caratterizzate da profili abusivi, occulti o fraudolenti, che, in quanto tali, sono rilevabili solamente attraverso riscontri di coerenza contabile del modello di versamento e non meramente cartolari poiché non emergenti dalle dichiarazioni presentate (o da esse falsamente emergenti) o dal mero raffronto con i relativi modelli di versamento. In altri termini, il più severo regime giuridico previsto dall’art. 27, commi 16-20, ha riguardato secondo le Sezioni Unite solo la compensazione di crediti connotati da una condizione di inesistenza qualificata dalla non verificabilità in sede di controllo formale. La ratio dell’intervento legislativo del 2008 è stata individuata proprio nella volontà di perseguire, a fronte di una condotta particolarmente insidiosa, riscontrabile solo in sede di verifica e non con meri riscontri formali (in ipotesi, anzi, forieri di esiti errati), il duplice convergente scopo di fornire all’Amministrazione finanziaria un maggior tempo per gli accertamenti (perché di maggiore complessità) e, al contempo, di differenziare il trattamento sanzionatorio (tributario) rispetto a condotte di particolare offensività. Anche anteriormente all’intervento operato con il d.lgs. n. 158 del 2015, solamente a fronte della ricorrenza di entrambe le suddette condizioni il credito doveva essere considerato inesistente e poteva trovare applicazione, per l’accertamento della condotta di indebita compensazione di crediti inesistenti, il più lungo termine di otto anni di cui all’art. 27, comma 16, d.l. n. 185 del 2008 e la sanzione prevista dal successivo comma 18.

Pur prendendo atto che lo sforzo definitorio del legislatore si è concentrato sulla sola disciplina tributaria e non anche su quella penale, le Sezioni Unite hanno ritenuto che le nozioni di  “credito inesistente” e di “credito non spettante” non siano diversificate tra i due settori; anzi, proprio la contestualità delle modifiche operate con il d.lgs. n. 158 del 2015,conduce a ritenere, già in prima battuta, di valenza unitaria le nozioni introdotte con l’art. 13, commi 4 e 5; esito che oltre a discendere dal dato letterale delle norme, risponde a criteri di coerenza e di razionalità di sistema e alle
finalità, obbiettive, perseguite dal legislatore.

3.2.2. La giurisprudenza penale.

Nella giurisprudenza penale di legittimità, ancora di recente, si è mantenuto un contrasto sulla nozione di crediti inesistenti e non spettanti oltre che sulla loro portata, unitaria o meno, rispetto ai diversi settori dell’ordinamento.

In particolare la Terza Sezione penale della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 7615 del 3 marzo 2022, ha affermato che la definizione di credito inesistente deve essere tratta, anche ai fini penali, dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997, come novellato nel 2015, sicché devono ricorrere entrambi i requisiti ivi previsti per considerare il credito inesistente ossia «a) deve mancare il presupposto costitutivo (ossia, quando la situazione giuridica creditoria non emerge dai dati contabili, finanziari o patrimoniali del contribuente); b) l’inesistenza non deve essere riscontrabile attraverso controlli automatizzati o formali o dai dati in anagrafe tributaria […] se manca uno di tali requisiti, il credito deve ritenersi non spettante».

Per contro, altro orientamento della Cassazione penale ha di recente affermato che, in tema di indebita compensazione, non assume rilievo ai fini penali la definizione di “crediti inesistenti” contenuta nell’art. 13 d.lgs. 18 dicembre 1997 n. 471, escludendo il mancato richiamo di tale disposizione nella norma incriminatrice di cui all’art. 10-quater, comma 2, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 (Cass. pen.,  Sez. 3 ,n. 6 del 14/11/2023, dep. 02/01/2024,  Rv. 285731 – 01, est. Scarcella). Nell’occasione la S.C. ha rammentato che a seguito della riforma operata con il D.lgs. n. 158 del 2015, la rilevanza penale dell’indebita compensazione varia a seconda che si tratti di “crediti inesistenti” o di “crediti non spettanti”[13] e ciò rende centrale una chiara distinzione tra gli stessi. Secondo tale impostazione della giurisprudenza di legittimità (da ultimo, Cass. pen., Sez. 3, n. 16353 del 21/02/2023, Grandi, non massimata[14]), ai fini della configurabilità del delitto in esame, per credito “non spettante” si intende quel credito che, pur certo nella sua esistenza e nell’ammontare, sia, per qualsiasi ragione normativa, ancora non utilizzabile (ovvero non più utilizzabile) in operazioni finanziarie di compensazione nei rapporti fra il contribuente e l’Erario (v. anche Sez. 3, n. 36393 del 07/07/2015, Rv. 265014). Nel caso esaminato dalla sentenza n. 16353/2023, la tesi difensiva – accolta dalla Corte d’appello – aveva invece evidenziato la necessità di interpretare la locuzione “crediti inesistenti”, contenuta nel comma 2 dell’art. 10-quater del DLgs. 74/2000, alla luce dell’art. 13 del D.lgs. 471/1997, e cioè richiamando “una definizione volta ad escludere, dal novero dei crediti inesistenti, quelli per i quali la mancanza del presupposto costitutivo non era riscontrabile attraverso i controlli automatici previsti dalla normativa tributaria[15]. La sentenza 16353/2023 non ha concordato con questa impostazione, dando seguito a quel diverso indirizzo interpretativo che ritiene applicabile alla sola materia degli illeciti di natura amministrativa la definizione dell’art. 13 del D.lgs. 471/1997, imperniata sul duplice presupposto della mancanza totale o parziale del presupposto costitutivo dei crediti medesimi e della non riscontrabilità della compensazione indebita mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del DPR 600/73 e all’art. 54-bis del DPR 633/72. Sulla stessa linea Cass. n. 4/2024 ha osservato che l’art. 10-quater non richiama espressamente, a fini definitori dei “crediti inesistenti”, il citato art. 13 anche se costituisce un dato inequivocabile, che entrambe le norme sono state modificate dal medesimo D.lgs. 158/2015. Questo, da un lato, ha diversificato la reazione sanzionatoria penale in caso di indebita compensazione di crediti non spettanti (primo comma dell’art. 10-quater) o di crediti inesistenti (secondo comma); dall’altro ha modificato proprio l’art. 13 del D.lgs. 471/1997, estrapolando dall’originaria indistinta fattispecie sanzionatoria dell’omesso versamento, in tutto o in parte, alle prescritte scadenze, dei versamenti in acconto, dei versamenti periodici, del versamento di conguaglio o a saldo dell’imposta risultante dalla dichiarazione, le specifiche condotte di “utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute”, fornendo, al contempo, la definizione di “crediti inesistenti” nei termini specificati dal comma 5 della norma (così Sez. 3, n. 23083 del 22/02/2022, Rv. 283236). La sentenza n. 16353 del 21/02/2023 evidenzia che, proprio perché le norme sono state modificate con lo stesso testo normativo, il mancato richiamo dell’art. 13 nella fattispecie penale di indebita compensazione costituisce un forte argomento a sostegno della inapplicabilità della definizione di “credito inesistente” contenuta nella normativa tributaria.  A tale considerazione se ne aggiunge un’altra di ordine sistematico. L’art. 13 del D.Lgs.. 471/1997 non definisce il “credito non spettante” e di certo non negli stessi termini indicati dal comma 5 della stessa norma, non richiedendone gli stessi presupposti di fatto (l’emersione, cioè, da una delle procedure di accertamento “semplificate”). Ciò comporta che, seguendo una tesi differente e “ampliativa”, nella stessa disposizione convivrebbero irragionevolmente due diversi presupposti della medesima condotta: nel caso di utilizzazione di crediti non spettanti, non sarebbe richiesto il requisito della loro facile rilevabilità a seguito di uno dei controlli citati; nel caso di compensazione con crediti inesistenti, tale requisito sarebbe invece richiesto, “con l’ulteriore, assurda conseguenza che la condotta più grave avrebbe un margine di applicazione (in conseguenza di presupposti non richiesti in caso di crediti non spettanti) addirittura meno ampio di quella meno grave” (in termini cfr. Cass. 16353/2023).

3.3.   Profili critici.

L’articolo 1 del provvedimento, al comma 1, lettera a), introduce all’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, la definizione di crediti non spettanti (nuova lettera g-quater) e di crediti inesistenti (nuova lettera g-quinquies).

Nello specifico la disposizione prevede che per crediti non spettanti si intendono quelli, diversi dai crediti inesistenti, fondati su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità o utilizzati in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella prevista. Al contrario, si considerano spettanti i crediti fondati sulla base di fatti reali rientranti nella disciplina attributiva, nonché utilizzati in misura e con le  modalità stabilite dalla  medesima, ma  in  difetto  dei  prescritti adempimenti amministrativi di carattere strumentale, sempre che gli stessi non siano previsti a pena di decadenza. I crediti inesistenti sono quelli per i quali mancano, in tutto o in parte, i presupposti costitutivi.

Come rileva la relazione illustrativa «La prospettiva perseguita è quella di offrire al contribuente un quadro normativo chiaro in merito agli elementi costituitivi delle due fattispecie di reato punite all’articolo 10-quater del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74; la definizione è coordinata con la nuova formulazione con cui il legislatore delegato si accinge a modificare anche l’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471 (recante disciplina delle sanzioni tributarie non penali)».

A fronte di un quadro giurisprudenziale non risolto, il criterio della delega (“introdurre, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali, una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta non spettanti e inesistenti”)impone una scelta tra le diverse posizioni emerse nel diritto vivente, la cui varietà aveva ingenerava incertezza quantomai perniciosa nella materia penale giungendo a porre in crisi l’esigenza di chiara predeterminazione del precetto. Le conclusioni della sentenza 4/2024 si pongono in contrasto con quanto asserito dalle Sezioni Unite civili con le sentenze n. 34419 e n. 34452 del 2023 e con l’opinione di quest’ultima, secondo cui la nozione di crediti inesistenti e non spettanti, come definita dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997, sarebbe unitaria sia in ambito penale che tributario. La divergenza fra la presa di posizione della Cassazione penale e le Sezioni Unite civili ha determinato una criticità significativa, sulla quale il legislatore delegato si appresta opportunamente ad intervenire evitando che la medesima condotta – relativa all’utilizzo di crediti inesistenti o non spettanti – sia definita in modo diverso in sede penale ed in sede civile.

In definitiva, se da un lato si opta per una definizione unitaria delle nozioni, rilevanti sia in ambito tributario che ai fini penali, la nozione di credito inesistente prescelta, in particolare, è quella meno selettiva proposta dalla giurisprudenza di legittimità penalistica che non ritiene criterio identitario dell’inesistenza del credito indebitamente compensato la non rilevabilità in sede di controlli formali o automatici. Ne consegue che la nozione risulta meno ristretta di quella, per contro, avallata sinora dalle Sezioni Unite civili della Cassazione. Come rilevato da Cass. n. 4/2024 seguendo la tesi differente e “ampliativa”, nella stessa disposizione sarebbero convissute irragionevolmente due diversi presupposti della medesima condotta: nel caso di utilizzazione di crediti non spettanti, non sarebbe stato richiesto il requisito della loro facile rilevabilità a seguito di uno dei controlli citati; nel caso di compensazione con crediti inesistenti, tale requisito sarebbe invece stato richiesto, «con l’ulteriore, assurda conseguenza che la condotta più grave avrebbe un margine di applicazione (in conseguenza di presupposti non richiesti in caso di crediti non spettanti) addirittura meno ampio di quella meno grave». 

Difformemente da alcuni primi commenti, si ritiene che la definizione di crediti inesistenti, centrale nella ricostruzione esegetica non risulta né indeterminata né generica in quanto la nozione di mancanza dei presupposti costitutivi  richiama il difetto di elementi strutturali interni secondo quanto già declinato nell’insegnamento delle Sezioni Unite civili. Se poteva essere auspicabile traslare una sintesi dello stesso già nel dettato normativo (per contro assai denso), può ritenersi sufficientemente predeterminato che il credito va considerato inesistente non solo quando le attività e i presupposti fondanti non sono mai venuti in essere ma anche quando siano assenti le ulteriori condizioni essenziali – formali o sostanziali – previste dal legislatore . Se non tutti gli elementi (e gli adempimenti) che partecipano alla realizzazione della fattispecie assumono un necessario rilievo costitutivo, potendo influire su aspetti meramente formali ovvero incidere solo sull’efficacia della pretesa, ai fini della determinazione dell’inesistenza del credito, restano riconoscibili le seguenti ipotesi di difetto di elementi costitutivi : a) la fattispecie che fonda l’agevolazione o il credito d’imposta non è mai venuta ad esistenza ma, semplicemente, è stato solo realizzato un simulacro dei presupposti su cui si fonda la pretesa; b) la fattispecie è carente di un elemento costitutivo, ipotesi che richiede l’esegesi puntuale delle norme che istituiscono l’agevolazione, tenuto conto dei principi regolatori della specifica imposta.  L’ipotesi sub a) è quella più radicale per la normale connotazione fraudolenta della condotta, mirata a fornire solo un’ingannevole rappresentazione dei presupposti di fatto e normativi. In questo caso, l’attività svolta è fittizia perché le attività richieste non sono mai state effettuate. Restano esemplificative il caso del credito d’imposta per le spese sostenute per l’attività di ricerca e sviluppo di cui all’art. 1, commi 280 e ss, l. n. 296 del 2006, se gli studi non sono mai avvenuti. Analogamente, come visto in precedenza, il credito Iva posto in compensazione è inesistente quando è generato da operazioni soggettivamente od oggettivamente inesistenti.  Assimilabile all’evenienza sub a), poi, è l’ipotesi in cui il credito d’imposta, pur regolarmente sorto, competa, in realtà, ad un soggetto diverso, nonché quella in cui il credito si sia estinto per esser già stato utilizzato, circostanza che ne preclude – definitivamente – un nuovo impiego.  Con riguardo all’ipotesi sub b), appare necessario in un’ottica sistematica, per la varietà di tipologie di crediti d’imposta, procedere ad un’indagine più analitica al fine di individuare – pur a fronte delle difficoltà derivanti da una normazione di settore spesso variegata e multiforme – i parametri strutturali, di carattere generale, per ritenere esistente un credito di imposta, ossia quali siano gli elementi idonei ad assumere natura costitutiva e quali, invece, abbiano carattere accessorio o riguardino la sola efficacia della pretesa.  Così alla distinzione tra credito inesistente e credito non spettante viene riconosciuto carattere strutturale, con fondamento logico giuridico identificabile nel complessivo sistema ordinamentale tributario: l’una (“l’inesistenza”) ha un valore obbiettivo, mentre l’altra (la “non spettanza”) ha un carattere dinamico ancorato al presupposto, antitetico, dell’esistenza del credito. Le Sezioni Unite hanno passato in rassegna alcuni degli elementi di rilievo strutturale, quali: 1) l’istanza del contribuente; 2) la previsione di obblighi di facere e/o di non facere: 3) l’indicazione di termini finali e di condizioni risolutive. A tale ricostruzione, in precedenza già anticipata, occorre necessariamente far riferimento.

 La scelta di non esigere il requisito congiunto della agevole non rilevabilità in sede di controlli formali e automatizzati appare lineare applicazione di criteri di discrezionalità tecnica; tale requisito supplementare, infatti, non appare imposto da ragioni di ordine strutturale intrinseco essendo, anzi, suscettibile di originare irrazionali rischi di limitazione della repressione delle condotte intrinsecamente più gravi. Non appare, perciò,  sussistente alcun pericolo di vizio di eccesso di delega rispetto al criterio della legge delega (che richiedeva di “introdurre, in conformità agli orientamenti giurisprudenziali, una più rigorosa distinzione normativa anche sanzionatoria tra le fattispecie di compensazione indebita di crediti di imposta non spettanti e inesistenti”);  come detto, il legislatore delegato si appresta ad optare  tra uno degli orientamenti giurisprudenziali già emersi e la soluzione prescelta si colloca entro l’alveo di uno dei percorsi già emersi a livello pretorio.

Residuali le nozioni di crediti non spettanti o spettanti ma utilizzati in forme irregolari. Per  crediti non spettanti si intendono quelli, diversi dai crediti inesistenti, fondati su fatti reali non rientranti nella disciplina attributiva per il difetto di specifici elementi o particolari qualità o utilizzati in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti ovvero, per la relativa eccedenza, quelli fruiti in misura superiore a quella prevista. Al contrario, si considerano spettanti i crediti fondati sulla base di fatti reali rientranti nella disciplina attributiva, nonché utilizzati in misura e con le   modalità stabilite dalla medesima, ma  in  difetto  dei  prescritti adempimenti amministrativi di carattere strumentale, sempre che gli stessi non siano previsti a pena di decadenza. In tal caso l’irregolarità – di nuovo conio – non è tale da rendere non spettante – a fini sanzionatori e penali – il credito utilizzato in compensazione. Vengono anche in tal evenienza in rilievo orientamenti di giurisprudenza che hanno enucleato l’esistenza di adempimenti di carattere strumentale o accessorio, suscettibili di connotare l’utilizzo del credito ed incidenti, in ipotesi, sull’attività di controllo dell’Ufficio, ma non anche, se carenti, di inficiarne l’esistenza. In tal senso, si è ritenuto validamente utilizzato il credito di imposta, maturato per l’anno 2007, previsto per le attività di ricerca e sviluppo dall’art. 1, commi 280-283, l. n. 296 del 2006 in forza della diretta compensazione, anche solo parziale, con gli importi dovuti a titolo di imposte dirette, quand’anche lo scomputo della somma in compensazione non fosse stato per errore indicato nel modello F24 (modello il cui uso a pena di decadenza del beneficio era previsto solo per i crediti maturati successivamente al 2008) (v. Cass. n. 11614 del 04/05/2021).

Merita condivisione l’osservazione che i crediti d’imposta di solito sono disciplinati da disposizioni normative e da disposizioni amministrative, rimesse a provvedimenti che operano sul piano procedimentale. Gli adempimenti amministrativi possono operare sul piano procedimentale, sicché l’organo amministrativo non potrebbe stabilire decadenze che non siano previste per legge. Conseguentemente, la norma contenuta nell’art. 1 comma 1 lett. a) dello schema di decreto legislativo, relativo alla definizione di credito spettante, laddove esclude dalla nozione di credito spettante la violazione di adempimenti amministrativi di carattere strumentale “sempre che gli stessi non siano previsti a pena di decadenza”, dovrebbe essere integrata stabilendosi che la sanzione della decadenza debba essere quella prevista dalla legge, non apparendo ammissibile che un termine avente naturale legale possa essere superato da una diversa previsione temporale di natura amministrativa (Cass.19627 dell’11.09.2009 n. 199, n. 29616 del 29.12.2011, n. 199 del 9.01.2014, n. 3578 del 13.02.2009)[16].

A fronte di questo sforzo definitorio può risultare distonica oltre che ultronea la previsione dell’articolo 1, comma 1, lett. d) del provvedimento con cui si ipotizza di introdurre la causa di non punibilità del reato di indebita compensazione di crediti non spettanti (art. 10-quater, comma 1, d.lgs. n 74/200) nel caso di obiettiva incertezza circa la spettanza del credito. A tal fine, la disposizione in commento, per la sola fattispecie di indebita compensazione di un credito non spettante, enuclea una causa di non punibilità qualora, anche per la natura tecnica delle valutazioni, sussistono condizioni di obiettiva incertezza in ordine agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito.

Secondo la relazione illustrativa del provvedimento «La norma dà ulteriore attuazione al principio di delega recepito all’articolo 1, lett. a) (art. 20, comma 1, lett. a), n. 5) e non interferisce con l’articolo 15 del decreto legislativo n. 74 del 2000 (Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie), né con i principi stabiliti in relazione all’articolo 5 del codice penale dalla nota sentenza 364/88 della Corte costituzionale, non incidendo sul tema delle condizioni qualitative della fattispecie obbiettivamente controverse, ma limitandosi a stabilire una regola di giudizio che è mera espressione di specificazione del canone “in dubio pro reo».  

Pare di dover rilevare che la previsione sia, piuttosto, il segno della complessità di incriminare interpretazioni sulla spettanza dei crediti, implicanti anche valutazioni tecniche di elementi e qualità previste dalle norme tributarie. Nondimeno, si tratta di soluzione che andrà coordinata con l’insegnamento giurisprudenziale per cui il rilievo penale assiste anche le condotte dell’agente tenute in consapevole disallineamento da criteri di valutazione normativamente fissati o dai criteri tecnici generalmente accettati in difetto di adeguata informazione giustificativa (cfr. Cass. Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016 Ud.   dep. 27/05/2016 Rv. 266803 – 01). Va riconosciuto che la previsione, opportunamente limitata alla fattispecie penale dell’indebita compensazione di crediti non spettanti –  quella a base giuridica extra-penale più sviluppata per la quale, quindi, la prospettiva di  errori di valutazione e di interpretazioni di elementi e qualità normative risulterà più frequente  – vive un’area di problematica sovrapposizione con il disposto dell’art. 15, d.lgs. n. 74 del 2000[17], del quale richiama la condizione di obiettiva incertezza, pur focalizzata rispetto «agli specifici elementi o alle particolari qualità che fondano la spettanza del credito». 

L’art. 15 cit., sotto la rubrica «Violazioni dipendenti da interpretazione delle norme tributarie», recita «1. Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale, non danno luogo a fatti punibili ai sensi del presente decreto le violazioni di norme tributarie dipendenti da obiettive condizioni di incertezza sulla loro portata e sul loro ambito di applicazione». Come è stato osservato[18], l’attuale art. 15 si pone quale «prescrizione che disciplina chiaramente una situazione ascrivibile alla categoria dell’errore di diritto. Il legislatore precisa immediatamente come lo spazio di applicazione della stessa non debba farsi coincidere con quello delineato dall’ultimo comma dell’art. 47 del codice penale. La precisazione può apparire banale, ma tale non è»[19].  Se l’abrogato art. 8 della L. n. 516/82 era stato interpretato dalla giurisprudenza come ripetitivo del contenuto della disciplina codicistica , addivenendo, assimilando le norme in materia di imposte dirette ed Iva alla nozione di “legge diversa da quella penale” di cui all’ultimo comma dell’art. 47 del codice penale, alla conclusione, in ragione del principio d’integrazione della fattispecie, dell’irrilevanza dell’errore ex art. 5 del codice penale, salvo i casi d’ignoranza “inevitabile” ai sensi della sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, l’art. 15 supera questa interpretazione e costituisce una deroga rispetto all’art. 5 del codice penale, imponendo  la conclusione che in tutte le ipotesi in cui la normativa tributaria sia considerata integratrice del divieto penale, l’errore sulla stessa può scusare, anche a prescindere dal carattere inevitabile dello stesso, se la violazione sia determinata da obiettive condizioni d’incertezza sulla portata delle disposizioni tributarie e sul loro ambito di applicazione.   In definitiva, quanto al “nuovo” art. 15 è stato rimarcato, in sintesi, che  la norma  esordisce con una clausola che limita la propria efficacia ai casi che non rientrano nell’ipotesi di cui all’art. 47, comma 3, del codice penale. Orbene, se la disposizione tributaria, su cui si è verificato l’errore da cui è derivata la violazione, non integra il precetto penale, allora non sarà necessario dare rilievo allo stato di incertezza oggettiva per escludere la punibilità del contribuente, posto che a tal fine sarà sufficiente applicare le disposizioni generali del codice penale in tema di errore;  indi, l’art. 15 è destinato a operare nei casi in cui, al contrario, si ritenga che la disposizione extrapenale integri il precetto penale: in simili ipotesi, è – oggi – possibile affermare che, nel settore dei reati tributari, il legislatore abbia ritenuto opportuno mitigare il severo precetto dell’art. 5 del codice penale e garantire la non punibilità delle violazioni poste in essere in presenza di “obiettive condizioni di incertezza” sull’interpretazione delle disposizioni fiscali, rilevanti per l’applicazione delle fattispecie penali [20]. L’interpretazione più corretta della predetta disposizione è nel senso che solo “l’obiettiva incertezza” della norma tributaria integrativa del precetto penale rileva, in quanto la ratio di quanto affermato nella iniziale clausola di riserva (“Al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’articolo 47, terzo comma, del codice penale”) è frutto di una precisa scelta del legislatore, che ha inteso ampliare lo spettro dell’ignoranza inevitabile ex art. 5 c.p., sganciandola dall’elemento soggettivo sotteso all’errata cognizione del precetto stesso. Quanto sopra, del resto, è confermato dall’esistenza dello specifico precedente normativo dell’art. 6, co. 2, d.lgs. n. 472 del 1997, individuato nell’art. 8, d.lgs. n. 546 del 1992 (che, in tema di “Errore sulla norma tributaria”, prevede la non applicabilità delle sanzioni non penali previste dalle leggi tributarie da parte della commissione tributaria “quando la violazione è giustificata da obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni alle quali si riferisce”), disposizione che è stata interpretata dall’Erario (cfr. Circolare Min. Econ. e Finanze, n. 98/E del 23.04.1996) nel senso che per “incertezza oggettiva” deve ritenersi quella “non derivante dalle condizioni soggettive del ricorrente[21].  

Ora, in tale assetto, la nuova la causa di non punibilità del reato di indebita compensazione di crediti non spettanti ex art. 10-quater comma 2 bis pare specificazione inessenziale della predetta regola generale dell’art. 15 d.lgs. n. 74/2000 il cui innesto nel medesimo testo normativo meriterebbe di essere ripensato. Tanto più che l’innovazione segue un intervento che ha, quale scopo dichiarato, la miglior definizione del precetto e potrebbe piuttosto evocare un’insicurezza di fondo sulla possibilità stessa di presidiare penalmente la compensazione indebita dei crediti non spettanti per una ritenuta impossibilità ontologica di predefinire con chiarezza la spettanza medesima.   

4. Il prolungamento dei termini previsti per il perfezionamento e le nuove cause di esclusione della punibilità dei reati di omesso versamento di ritenute dovute o certificate, nonché di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto.

4.1 Le previsioni dello schema di provvedimento e le ragioni delle innovazioni secondo la relazione illustrativa.

Il comma 1, lettera b), sostituisce l’articolo 10-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74 e, pur confermando la soglia di punibilità a 150.000 euro, prolunga i termini previsti per l’applicazione della sanzione nelle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e introduce alcune cause di esclusione, non previste nel testo vigente.  Nello specifico la norma stabilisce che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni, chiunque non versa, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta (nel testo vigente “entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta”), ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti per un ammontare superiore a centocinquantamila euro per ciascun periodo d’imposta, sempre che: a) il debito tributario non sia in corso di estinzione mediante pagamenti rateali, ai sensi dell’articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 462[22]; b) si verifichi la decadenza dal beneficio della rateazione, ai sensi dell’articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602[23] e l’ammontare del debito residuo sia comunque superiore a cinquantamila euro.

Il comma 1, lettera c), sostituisce l’articolo 10-ter, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, e, pur confermando la soglia di punibilità a 250.000 euro, prolunga i termini previsti per l’applicazione della sanzione di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto e introduce alcune cause di esclusione non previste nel testo vigente. Nello specifico, la norma stabilisce che è punito con la reclusione da sei mesi a due anni chiunque non versa, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale (nel testo vigente “entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale”), l’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla medesima dichiarazione, per un ammontare superiore a euro duecentocinquantamila per ciascun periodo d’imposta, sempre che: a) il debito tributario non sia in corso di estinzione mediante pagamenti rateali, ai sensi dell’articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 462; b) si verifichi la decadenza dal beneficio della rateazione, ai sensi dell’articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 e l’ammontare del debito residuo sia comunque superiore a settantacinquemila euro.

Come annuncia la relazione illustrativa, con le lettere b) e c) si interviene sulla disciplina dei “reati riscossivi”, ovvero l’omesso versamento di ritenute e l’omesso versamento di iva, attraverso un coordinamento della punibilità con i piani di estinzione dei debiti tributari.  L’intervento attua il criterio di delega di cui all’art. 20, comma 1, lett. a), n.3), teso a «rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario (…) adeguando i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale». Viene, dunque, introdotta per entrambi i delitti una condizione obbiettiva di punibilità, costituita dalla manifestazione inequivoca della volontà del contribuente di sottrarsi, sin da principio, al pagamento dell’obbligazione tributaria, da ritenersi integrata allorquando, all’atto della consumazione del reato, siano decorsi i termini per la rateizzazione delle somme dovute senza che la stessa sia stata richiesta (a), ovvero vi sia stata decadenza dalla rateizzazione già concessa (b). Il reato, dunque, non sarà punibile fintantoché sia in corso di estinzione il pagamento delle rate ai sensi dell’articolo 3-bis del decreto legislativo 18  dicembre  1997,  n.  462 e sempre che il contribuente non incorra in decadenza dal beneficio della rateazione ai sensi dell’articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 laddove, in tal caso, l’ammontare del debito residuo sia superiore, rispettivamente, a euro cinquantamila (per il reato di cui all’art. 10- bis) e settantacinquemila (per il reato di cui all’articolo 10-ter). 

Il differimento della data di consumazione di entrambi i reati al 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale (sostituto di imposta o iva) risponde alla volontà di rendere effettivi i presupposti per l’avverarsi delle condizioni così descritte, e in particolare per l’accesso alla rateizzazione del debito relativo all’imposta evasa. Il reato sarà punibile al ricorrere delle condizioni obbiettive di nuova introduzione, con conseguente insorgenza solo a quella data dell’obbligo di denuncia, da parte dell’Agenzia delle entrate, o di informativa, da parte della Guardia di finanza, all’autorità giudiziaria.

4.2 L’adesione e la rateizzazione nella disciplina vigente.

In vigenza del d.l. 10 luglio 1982, n. 429, conv. dalla L. 7 agosto 1982, n. 516, ai fatti oggetto dell’accertamento definito con adesione, era riconnessa la causa di esclusione della punibilità (art. 2, c.3 d.lgs. n. 218/1997), con effetto retroattivo (in deroga all’articolo 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4)  per tutti i periodi di imposta per i quali era intervenuta la definizione, con esclusione dei reati considerati più gravi dalla legge penale tributaria previsti dall’art. 2, comma 3, e dall’art. 4 dello medesimo decreto; tra le ipotesi nelle quali non si applicava  tal causa di non punibilità era annoverato il mancato versamento, entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione di sostituto di imposta, di ritenute per almeno dieci milioni di vecchie lire risultanti dalla dichiarazione rilasciata ai percipienti[24].   L‘art. 25 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 ha abrogato l’intero sistema penale tributario disciplinato dal titolo I del citato D.L. n. 429/82, sostituendolo con illeciti aventi diversa struttura, così determinando l’inefficacia delle disposizioni che al primo sistema facevano riferimento, tra le quali il citato art. 2, c. 3, d.lgs. n. 218 del 1997[25].  Il d.lgs. n. 74/2000 aveva previsto nella sua versione originaria due circostanze attenuanti ad effetto speciale: il pagamento del debito tributario (art. 13) e la riparazione dell’offesa nel caso di estinzione per prescrizione del debito tributario (art. 14)[26].  Successivamente, con le modifiche apportate dal d.lgs. n. 158/2015, è stata anche prevista una particolare causa di non punibilità per i reati tributari di omesso versamento e indebita compensazione (art. 13, c.1) e per alcuni reati dichiarativi ritenuti meno gravi (dichiarazione infedele ed omessa presentazione) nel caso in cui, entro una determinata tempistica, venga effettuato l’integrale pagamento del debito tributario (art. 13, c.2). Tale causa di non punibilità è stata da ultimo (d.l. n. 124/2019) estesa anche agli altri reati dichiarativi connotati da fraudolenza. 

Perciò, la definizione per adesione non esclude più la punibilità ai sensi dell’art. 13, comma  2, d.lgs. 74 del 2000, come sostituito dall’art. 11 d.lgs. 158/2015 e dal d.l. n. 124/2019 che per i reati ex art.2, 3  4 e 5 d.lgs. n. 74/2000 prevede ora quell’effetto soltanto «se i debiti tributari, comprese sanzioni e interessi, sono stati estinti mediante integrale pagamento degli importi dovuti, a seguito del ravvedimento operoso o della presentazione della dichiarazione omessa entro il termine di presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo, sempreché il ravvedimento o la presentazione siano intervenuti prima che l’autore del reato abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali». A differenza di quanto previsto dal novellato art. 13, comma 1, d.lgs. 74 del 2000 per i reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter, 10-quater, c.1 d.lgs. n. 74/2000 – che, presupponendo una fedele dichiarazione cui consegua soltanto l’omesso versamento dell’imposta dovuta, non sono punibili se l’integrale pagamento del debito tributario, comprensivo anche di sanzioni ed interessi, pur se intervenuto a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado – per i reati previsti dagli artt. 2, 3, 4 e 5 d.lgs. 74 del 2000 l’integrale pagamento del dovuto deve avvenire ancor prima che l’autore del reato abbia formale conoscenza dell’inizio di procedimenti amministrativi o penali.  Al di là della diversa disciplina connessa al tipo di illecito circa l’individuazione del termine entro cui il ravvedimento deve intervenire, gli effetti della nuova causa di non punibilità si producono soltanto al momento dell’integrale pagamento del debito e degli accessori, non essendo sufficiente il mero accertamento con adesione. Del resto, già con riferimento all’analoga, previgente, disposizione contenuta nell’art. 13, c. 1 e 2, d.lgs. 74/2000, che contemplava una mera circostanza attenuante applicabile a tutti i delitti previsti dal decreto (oggi sostanzialmente riprodotta, ampliando la forbice di riduzione della pena, nell’art. 13 bis, comma 1, d.lgs. 74 del 2000) il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità era nel senso che essa non fosse applicabile in caso di mera adesione all’accertamento, il suo riconoscimento essendo subordinato all’integrale estinzione dell’obbligazione tributaria mediante il pagamento anche in caso di espletamento delle speciali procedure conciliative previste dalla normativa fiscale[27].

La Corte di Cassazione ha anche chiarito che «in tema di reati tributari, la causa di non punibilità dei reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 opera solo a seguito dell’integrale pagamento, anche rateale, dell’importo dovuto a titolo di debito tributario, comprese sanzioni amministrative e interessi, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, e non consegue al mero accordo intervenuto tra debitore e amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito e la rimodulazione della sua scadenza»[28]. In motivazione, la S.C. ha precisato che l’effetto novativo dell’obbligazione che deriva dall’accordo tra il contribuente e l’amministrazione rimane circoscritto all’ambito tributario, non producendo conseguenze sul piano penale. La giurisprudenza di legittimità non ha condiviso l’opinione per cui l’accordo raggiunto tra i debitori e l’erario realizzerebbe una novazione del debito che, se concluso antecedentemente alla scadenza del termine per l’adempimento, determinerebbe l’inapplicabilità della fattispecie di cui all’art. 10-ter d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, precludendo la configurabilità della condotta omissiva sanzionata, escludendo la permanenza dell’obbligazione tributaria omessa per effetto dell’accordo novativo (che all’obbligazione originaria sostituirebbe quella oggetto dell’accordo). Il reato di omesso versamento dell’Iva è unisussistente, consumandosi al momento della scadenza del termine per l’adempimento del versamento (attualmente entro il termine del versamento dell’acconto per il periodo di imposta dell’anno successivo). Sotto il profilo della qualificazione dell’accordo tra debitore e Amministrazione finanziaria, la S.C.  aveva affermato, prima della modifica legislativa del 2015, che, in tema di omesso versamento dei contributi previdenziali, la rateizzazione, rimodulando la scadenza dei debiti che viene scansionata nel tempo in corrispondenza ai termini di scadenza delle singole rate, comporta l’estinzione dell’obbligazione originaria e la contestuale costituzione di una nuova obbligazione che viene a sostituirsi a quella preesistente secondo lo schema civilistico della novazione[29]; con successiva sentenza, il principio è stato ribadito con riferimento alla fattispecie di omesso versamento dell’Iva ed è stato affermato che la rateizzazione per effetto dell’accordo intervenuto con l’Agenzia delle Entrate, quantunque comporti, attraverso la rimodulazione della scadenza del debito che viene scansionata nel tempo in corrispondenza ai termini delle singole rate, l’estinzione dell’obbligazione originaria e la contestuale costituzione di una nuova obbligazione che viene a sostituirsi a quella preesistente secondo lo schema civilistico della novazione, non interferisce, tuttavia, sul profilo penale in cui l’esistenza del reato si perfeziona con il mancato versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta in base alla dichiarazione annuale nel termine previsto per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Soltanto nell’ipotesi in cui attraverso il pagamento rateale ovvero in unica soluzione venga integralmente saldato il debito tributario anteriormente all’apertura del dibattimento opera la speciale causa di non punibilità di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. 74/2000, introdotta con il 4 d.lgs.158/2015 quale beneficio premiale per la condotta di quei contribuenti che provvedano alla piena soddisfazione dell’erario prima del processo penale (Sez. 3, n. 16297 del 27/02/2018, De Sarlo, non mass.).  Anche a seguire l’indirizzo ermeneutico che attribuisce l’effetto novativo dell’obbligazione a seguito dell’accordo[30], la S.C.  ha ritenuto che tale novazione dell’obbligazione rimane consegnata nell’ambito tributario e resta priva di effetto nell’ambito penale e ciò trova dimostrazione nella previsione legislativa della speciale causa di non punibilità, introdotta per effetto di una disposizione di legge nel 2015, in forza della quale il pagamento integrale, per effetto dell’accordo con l’Amministrazione finanziaria, costituisce una causa di non punibilità. In altri termini, solo per effetto dell’espressa previsione normativa, il pagamento integrale del debito tributario, alle condizioni previste, è causa di non punibilità dell’omissione del versamento dell’imposta che si è consumata alla data di scadenza per l’adempimento. Lecause di non punibilità, a differenza delle cause di giustificazione che elidono l’illiceità o antigiuridicità della condotta rendendo inapplicabile qualsiasi tipo di sanzione, rappresentano una causa sopravvenuta di esclusione della punibilità di un reato già consumato del quale vengono eliminati gli effetti (irrogazione della sanzione). Conseguentemente, il reato di omesso versamento dell’Iva è integrato dall’omissione del versamento dalla data di scadenza e l’integrale pagamento del debito tributario, per effetto dell’accordo con l’Amministrazione finanziaria, sia con pagamento integrale che rateale, costituisce causa di non punibilità del fatto commesso esentando gli autori dall’irrogazione della sanzione penale prevista dalla norma incriminatrice.  La previsione della non punibilità del fatto lascia immutata illiceità della condotta di reato; non configura né l’assenza di lesione del bene giuridico, né  scrimina la condotta in relazione all’esercizio del diritto ex art. 51 cod. pen[31].

Va anche ricordato che, nell’elaborazione giurisprudenziale, è stabile l’affermazione del principio dell’autonoma determinazione dell’imposta evasa in ambito penale rispetto a quella definita in sede amministrativa.  In base allo stesso, in materia di reati tributari, «spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta e non versata, suscettibile dapprima di sequestro e, poi, di confisca, in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria»[32]. Infattiin tema di reati tributari, «il giudice non è vincolato, nella determinazione del profitto confiscabile, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra l’amministrazione finanziaria ed il contribuente anche se, per potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tener invece conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’Erario, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano maggiormente attendibile l’originaria quantificazione dell’imposta dovuta»[33]. Perciò, il compito di accertare l’ammontare dell’imposta evasa è rimesso al giudice penale, al quale spetta di compiere una verifica che, privilegiando il dato fattuale reale rispetto ai criteri di natura meramente formale che caratterizzano l’ordinamento fiscale, può sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata in sede amministrativa o dinanzi al giudice tributario[34].  Ne consegue che il giudice penale non è vincolato, nella determinazione del profitto confiscabile, all’imposta risultante a seguito dell’accertamento con adesione o del concordato fiscale tra l’amministrazione finanziaria ed il contribuente, anche se, per potersi discostare dal dato quantitativo convenzionalmente accertato e tener invece conto dell’iniziale pretesa tributaria dell’erario, occorre che risultino concreti elementi di fatto che rendano  maggiormente attendibile l’iniziale quantificazione dell’imposta dovuta[35]. L’autonomia del processo penale da quello  amministrativo, sancita dall’art. 20, d.lgs. n. 74 del 2000 (secondo cui “Il procedimento amministrativo di accertamento ed il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente ad oggetto i medesimi fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”) vale anche ai fini dell’individuazione dell’ammontare dell’imposta evasa per l’adozione e il mantenimento del provvedimento cautelare in funzione della confisca, nei casi di raggiunti accordi conciliativi con l’erario.

4.3 Profili  critici.  

La modifica normativa che si annuncia è assai significativa e si inserisce nel quadro di un raccordo sempre più stretto tra vicende estintive, ora anche parziali, del debito tributario di rilievo amministrativo, cause di non punibilità e condizioni obiettive di punibilità dei reati tributari riscossivi previsti dagli artt. 10-bis e  10-ter del d.lgs. 74/2000. Un rapporto che supera i tradizionali principi di autonomia del processo penale da quello amministrativo e che configura la rateazione delle somme dovute (istituto previsto dall’art.  3-bis d.lgs. n. 462/1997) in esito ai controlli automatici e formali quale causa di (momentanea) non punibilità dei predetti reati purché regolarmente in essere al momento dell’integrazione del nuovo termine di  consumazione dei reati (31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta o delle dichiarazione annuale IVA)  e mantenuto sino ad importare una riduzione sotto soglia dellammontare del debito residuo, ricondotta ad importo non superiore, rispettivamente, a euro cinquantamila per il reato di cui all’art. 10- bis e a settantacinquemila per il reato di cui all’articolo 10-ter.  Ove il debito residuo sia così ridimensionato, neppure la decadenza dalla rateazione potrà impedire di riconoscere l’intervento di un causa sopravvenuta di non punibilità  non più collegata all’integrazione delle previsioni dell’art. 13, comma 1, d.lgs. 74 del 2000, che prevede, per i reati di cui agli artt. 10-bis, 10-ter, 10-quater, comma 1 d.lgs. n. 74/2000, la non punibilità  in presenza  di integrale pagamento del debito tributario, comprensivo anche di sanzioni ed interessi, pur se intervenuto a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie, ove avvenga prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado.  Per contro la decadenza dal beneficio della rateazione, ai sensi dell’articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 si configura quale condizione obiettiva (sopravvenuta) di punibilità se intervenuta dopo il termine di consumazione ora differito in presenza di un debito residuo di consistenza superiore alle soglie minori dianzi indicate.  

Emerge, anche per questa via, una chiara funzionalizzazione del diritto penale alle esigenze erariali o, se si vuole, una subordinazione del primo agli obiettivi del diritto tributario. Come si è rilevato, la definizione della pretesa erariale in sede amministrativa ha avuto diversi valori nel contesto degli assetti storicamente assunti, in un arco temporale recente, dal diritto penale tributario, segnato da un’evoluzione che  registra una dilatazione progressiva del significato immunizzante ad essa attribuito via via che la tutela penale si è progressivamente trasferita dal momento dichiarativo a quello propriamente riscossivo e  la  rinuncia alla pena in ottica premiale ha guadagnato importanti spazi a scapito della tradizionale impostazione punitiva-repressiva; opzione di politica criminale in sé non criticabile, se accompagnata da una organizzazione razionale dello statuto della non punibilità e  non ridotta a presa d’atto dell’impotenza nel contrastare su larga scala le dimensioni, parimenti estese, del fenomeno[36].     

 Prima del progettato intervento in commento,  la giurisprudenza di legittimità penale ha affermato che  «In tema di reati tributari, l’accordo tra il contribuente e l’amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito, quantunque comporti la rimodulazione della sua scadenza, che viene scansionata nel tempo in corrispondenza ai termini delle singole rate, non esclude che, al verificarsi di detta scadenza senza la soddisfazione totale del debito, il reato resti comunque configurabile, in quanto la previsione di una causa sopravvenuta di non punibilità del fatto lascia immutata l’illiceità della condotta, che non può ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 51 cod. pen. Né ai sensi dell’art. 59, comma quarto, cod. pen., cadendo l’errore del contribuente su norme penali (nella specie gli artt. 10-ter e 13, d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), con conseguente applicazione dell’art. 5 cod. pen.»[37]; in queste ipotesi, allo stare del diritto vigente, potrebbe operare soltanto la causa di non punibilità di cui all’art. 13 D.lgs. n. 74/2000, qualora il debito d’imposta venga integralmente soddisfatto nei termini ivi indicati (Cass., Sez. 3, 13 luglio 2018, n. 48375) [38]. L’accordo di rateizzazione, dunque, produce senz’altro i suoi effetti nell’ambito tributario e, nei limiti indicati dal legislatore dall’art. 13, comma terzo, d.lgs. n. 74 del 2000, anche in quello penal-tributario. Ciò trova dimostrazione nella previsione legislativa della speciale causa di non punibilità sopra richiamata: solo per effetto della espressa previsione normativa, il pagamento integrale del debito tributario, alle condizioni previste, esclude l’applicazione della sanzione penale al reato di omesso versamento dell’imposta, consumatosi alla data di scadenza per l’adempimento.[39]

Ora la previsione progettata immagina l’esistenza di diverse situazioni: i) l’assenza alla nuova data di consumazione dei reati riscossivi dell’art. 10-bis e 10-ter  cit. della pendenza di un valido piano di rateazione in corso di validità; ii) la presenza alla nuova data di consumazione dei reati riscossivi in argomento  di una condizione (momentanea)  di non punibilità (o esimente provvisoria), rappresentata dalla pendenza di un piano di rateazione dal quale il contribuente non sia decaduto, a cui corrisponde una causa obiettiva di punibilità (la decadenza dal beneficio della rateazione, ai sensi dell’articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973,  intervenuta dopo il termine di perfezionamento ora differito in presenza di un debito residuo di consistenza superiore alle soglie dianzi indicate), che vale a differire la decorrenza della prescrizione del reato dal giorno in cui si detta condizione obiettiva si verifica (arg. ex art. 158, comma 2, c.p.); iii) una possibile condizione sopravvenuta di non punibilità, rappresentata  dalla riduzione rateale del debito tributario sotto nuova soglia, intervenuta anche dopo il termine di perfezionamento ora differito. Nelle ultime due evenienze appena descritte la vicenda penale risulterà condizionata da quella estintiva – anche solo parziale – maturata in sede amministrativa. Nel primo caso la scelta del debitore di adottare tempestivamente (entro il 31 dicembre dell’anno successivo alla dichiarazione qualificante) un piano di rateazione precluderà la punibilità sino termine massimo di 5 anni (in caso di regolare pendenza del piano rateale), o comunque sino alla decorrenza del tempo necessario a ridurre sotto soglia minore il debito residuo.

 In tal senso, va anche considerati che il differimento della data di perfezionamento di entrambi i reati al 31 dicembre dell’anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione annuale (di sostituto di imposta o iva) difficilmente renderà effettivi i presupposti per l’avverarsi delle condizioni così descritte, e in particolare per l’accesso alla rateizzazione del debito relativo all’imposta evasa. Come è stata notato «la previsione della presenza di un piano di rateizzazione nei termini previsti dalla norma è molto difficile, difatti l’emissione di avvisi bonari -o addirittura di cartelle di pagamento- è sottoposta a termini ordinatori molto spesso non rispettati dall’Agenzia delle Entrate. Sarebbe quindi opportuno indicare una tempistica diversa che trovi la decorrenza proprio dalla effettiva notifica di tali atti»[40].

In presenza di un piano di rateazione tempestivamente attivato e regolarmente mantenuto il reato sarà (o tornerà) punibile al ricorrere delle condizioni obbiettive di punibilità  di nuova introduzione (decadenza dal beneficio della rateazione senza riduzione sottosoglia “minore”); ad avviso della relazione illustrativa l’insorgenza dell’obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria da parte dell’Agenzia delle entrate, o di informativa, da parte della Guardia di finanza sarebbe ricollegato a quella data. In proposito merita considerare che in giurisprudenza si è affermato che il pubblico ufficiale non può dirsi vincolato all’obbligo di denuncia sino a quando non sia in grado di individuare gli elementi di un reato e di acquisire ogni altro elemento utile per la formazione della denuncia stessa (Cass., Sez. 6, 8.5-21.6.2019, n. 27715; Id. , 3.7-31.10.2018, n. 49833; id.  7.5-6.7.2009, n. 27508; Cass., Sez. 5, 4.4.2008; Cass., Sez. I, 19.2.1988). Si è stabilito, inoltre, che non integra il reato di cui all’art. 361 la condotta del pubblico ufficiale che, dinanzi alla segnalazione di un fatto avente connotazioni di possibile rilievo penale, disponga i necessari approfondimenti all’interno del proprio ufficio, al fine di verificare l’effettiva sussistenza di una notitia criminis, e non di elementi di mero sospetto (Cass., Sez. 6, 23.1-16.4.2019, n. 16577. In senso analogo, Cass., Sez. 6, 6.2-16.3.2014, n. 12021). In passato, tuttavia, si è affermato che, perché sussista l’obbligo di denuncia ai sensi dell’art. 361, è sufficiente che il pubblico ufficiale ravvisi nel fatto il fumus di un reato (C., Sez. VI, 24.5.1978). Si è poi specificato che le cause di estinzione del reato o di non punibilità diverse dall’insussistenza del fatto, di cui il pubblico ufficiale abbia avuto notizia nell’esercizio ed a causa delle sue funzioni, non esentano dall’obbligo del rapporto, perché esse possono essere valutate e riconosciute solo dall’autorità giudiziaria (Cass., Sez. 6, n. 1244 del 04/12/1985 Ud., dep. 03/02/1986 Rv. 171777 – 01).

5. Le “nuove” cause di non punibilità dei reati tributari riscossivi e il nuovo favore verso la circostanza attenuante del pagamento del debito per i delitti tributari. 

5.1 Le previsioni del provvedimento e la relazione illustrativa

Il comma 1, lett. f) dello schema di d.lgs., reca alcune integrazioni all’articolo 13 del decreto legislativo n. 74 del 2000 al fine di estendere il perimetro di applicazione delle cause di non punibilità di alcuni delitti tributari. In virtù delle modifiche recate dalla disposizione in commento, vengono introdotti i commi 3-bis e 3-ter nonché una conseguente modifica di coordinamento al comma 3  del  citato  articolo  13,  conseguentemente modificando la rubrica dell’articolo (sostituita dalla seguente: “Cause di non punibilità. Pagamento del debito tributario”). 

In particolare, il nuovo comma 3-bis prevede un’ulteriore causa di non punibilità dei delitti di omesso versamento di ritenute dovute o certificate (art. 10-bis) e omesso versamento di IVA (art. 10-ter) qualora il fatto dipenda da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’IVA. Si prevede che ai fini del riconoscimento di tale causa di non punibilità il giudice tenga conto della crisi non transitoria di liquidità dovuta: i) all’inesigibilità   dei    crediti    per    accertata    insolvenza    o sovraindebitamento di terzi; ii) al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di amministrazioni pubbliche; iii) alla non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi.

Il nuovo comma 3-ter, invece, reca una disposizione comune ai delitti di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e omesso versamento di IVA di cui ai citati articoli 10-bis e 10-ter del d.lgs. 74/2000, volta a prevedere, ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p.[41], specifici indici che debbono essere, singolarmente o congiuntamente, valutati dal giudice in modo prevalente. Tali indici sono i seguenti: i) entità dello scostamento rispetto alla soglia di  punibilità (lett. a del nuovo comma 1-ter); ii)  il pagamento integrale del debito secondo il piano di rateizzazione concordato (qualora non costituisca autonoma causa di non punibilità ai sensi del comma 1 dell’art. 13) (lett. b del nuovo comma 1-ter);  iii)  l’entità del debito residuo, qualora il debito sia in fase di estinzione mediante rateizzazione (lett. c del nuovo comma 1-ter); iv) lo stato di crisi del debitore, come definito dall’art. 2, comma 1, lett. a) del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs. 14/2019) (lett. d del nuovo comma 1-ter). 

Il comma 1, lett. g), interviene sull’art. 13-bis del decreto legislativo n. 74 del 2000 (Circostanze del reato), sostituendo il comma 1 con i commi 1 e 1-bis e modificando il comma 2[42]. Il nuovo comma 1 mantiene la previsione contenuta nel testo vigente relativa alla circostanza attenuante prevedendo però che essa si applichi qualora, prima della chiusura del dibattimento, il debito sia in fase di estinzione, anche a seguito di procedure conciliative o di adesione, l’imputato ne dia comunicazione al giudice e informi contestualmente del procedimento penale l’Agenzia delle entrate. Rispetto alla formulazione vigente il termine rilevante ai fini dell’applicazione della circostanza attenuante, pertanto, non è più quello della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, bensì la chiusura dello stesso.  Il nuovo comma 1-bis prevede, invece, la sospensione del processo a partire dalla ricezione della predetta comunicazione. La sospensione è revocata decorso un anno; se, tuttavia, l’Agenzia delle entrate ha comunicato che il pagamento delle rate è regolarmente in corso, la sospensione è prorogata per tre mesi, prorogabili dal giudice fino a un massimo di ulteriori tre mesi. Durante la sospensione del processo è altresì sospesa la prescrizione. La sospensione è revocata prima del  decorso dei  predetti termini qualora l’Agenzia delle entrate attesti l’integrale versamento delle somme dovute o comunichi la decadenza dal beneficio della rateizzazione. La disposizione in commento reca altresì una modifica di coordinamento al comma 2 dell’articolo 13-bis, prevedendo che l’applicazione della pena ai sensi dell’art. 444 c.p.p. (c.d. “patteggiamento”) possa essere richiesta dalle parti, prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, solo quando il debito tributario, comprese le sanzioni amministrative e interessi, è estinto, nonché quando ricorre il ravvedimento operoso, fatte salve le cause di non punibilità  previste  all’articolo 13, commi 1 e 2.

Come osserva la relazione illustrativa con la lettera f), si interviene sulla disciplina della causa di non punibilità prevista all’art. 13, in attuazione del criterio di delega di cui all’art. 20, comma 1, lett. a), n.3), teso a «rivedere i rapporti tra il processo penale e il processo tributario (…) adeguando i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale».

5.2. La crisi di liquidità nell’elaborazione giurisprudenziale relativa ai reati riscossivi.

5.2.1. I limitati spazi di configurabilità della forza maggiore e dello stato di necessità da crisi di liquidità rispetto al reato ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000.

 

Tradizionalmente assai limitata è la rilevanza esimente della crisi di liquidità ai fini della non punibilità del reato ex art. 10-bis d.lgs. n. 74/2000. Come notato dalla giurisprudenza ormai risalente   «In tema di reati tributari, il delitto di omesso versamento di ritenute dovute o certificate di cui all’art. 10-bis del d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 differisce da quello previsto dall’art. 10-ter del medesimo d.lgs. per l’oggetto, che solo nel primo caso è costituito da somme già nella disponibilità del debitore; ne consegue che, in caso di carenza di liquidità di impresa, se l’omesso versamento dell’IVA può astrattamente derivare dall’inadempimento altrui, l’impossibilità di adempiere all’obbligazione di versamento delle ritenute non può essere giustificata, ai sensi dell’art. 45 cod. pen., dalla insolvenza dei debitori, essendo di pertinenza del sostituto d’imposta la decisione di distrarre a scopi diversi le somme di denaro dovute all’erario»[43].  Più diffusamente la S.C. ha annotato[44]: «Quanto ai criteri per la valutazione circa la configurabilità dell’elemento soggettivo e circa l’applicabilità delle circostanze scriminanti della forza maggiore e dello stato di necessità, la giurisprudenza di questa Corte ha preso le mosse dalla considerazione che l’introduzione della norma penale risponde all’esigenza che l’organizzazione economica dell’impresa, per il pagamento dei tributi, si articoli su base annuale. Non può, quindi, essere invocata, per escludere la colpevolezza, la crisi di liquidità del soggetto attivo al momento della scadenza del termine, ove non si dimostri che la stessa non dipenda dalla scelta di non far debitamente fronte all’esigenza predetta. Né può ovviamente escludersi, in astratto, che siano possibili casi – il cui apprezzamento è devoluto al giudice del merito ed è, come tale, insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato – nei quali possa invocarsi l’assenza del dolo o l’assoluta impossibilità di adempiere all’obbligazione tributaria. È tuttavia necessario che siano assolti gli oneri di allegazione che, per quanto attiene alla crisi di liquidità, dovranno riguardare non solo l’aspetto della non imputabilità al sostituto di imposta della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non possa essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e a lui non imputabili (ex plurimis, Sez. 3, n. 3 Ak 42432 del 5/05/2015; Sez. 3, n. 8352, del 24/06/2014, dep. 2015, Rv. 263128; Sez. 3, n. 40795 del 24/06/2014; Sez. 3, n. 15416 del 8/01/2014; Sez. 3, n. 5467 del 5/12/2013, dep. 2014, Rv. 258055). Né il fatto che le obbligazioni tributarie siano rimaste inadempiute per l’esigenza di adempiere prioritariamente alle obbligazioni di pagamento delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti è di per sé idoneo a configurare la circostanza scriminante dello stato di necessità. E anzi, la prova inequivocabile del dolo del reato è rappresentata proprio dalla consapevole scelta di non pagare il tributo. In relazione all’eventuale configurabilità della forza maggiore deve premettersi che la stessa rileva solo come causa esclusiva dell’evento e mai quale causa concorrente di esso; essa sussiste, cioè, nei soli casi in cui la realizzazione dell’evento stesso o la consumazione della condotta antigiuridica sono dovute all’assoluta ed incolpevole impossibilità dell’agente di uniformarsi al comando, mai quando egli si trovi già in condizioni di illegittimità (ex plurimis, Sez. 3, n. 8352, del 24/06/2014, dep. 2015). In altri termini, nei reati omissivi, integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di porre in essere il comportamento omesso. In conclusione: a) l’esistenza di un margine di scelta per l’agente esclude sempre la forza maggiore perché non esclude la suitas della condotta; b) la mancanza di provvista necessaria all’adempimento dell’obbligazione tributaria penalmente rilevante non può pertanto essere addotta a sostegno della forza maggiore quando sia comunque il frutto di una scelta imprenditoriale volta a fronteggiare una crisi di liquidità; c) l’inadempimento tributario penalmente rilevante può essere attribuito a forza maggiore solo quando derivi da fatti non imputabili all’imprenditore che non ha potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà»[45].  

 5.2.2.  Crisi di liquidità in tema di omessi versamenti IVA.  

Fortemente restrittiva sinora anche la portata immunizzante rispetto al reato di omesso versamento dell’IVA ex art. 10-ter d.lgs. n. 74/2000 ricollegata alla crisi di liquidità dalla giurisprudenza di legittimità. Per laCassazione, infatti, «In tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’IVA dipeso dal mancato incasso per inadempimento contrattuale dei propri clienti non esclude la sussistenza del  dolo richiesto dall’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, atteso che l’obbligo del predetto versamento prescinde dall’effettiva riscossione delle relative somme e che il mancato adempimento del debitore è riconducibile all’ordinario rischio di impresa, evitabile anche con il ricorso alle procedure di storno dai ricavi dei corrispettivi non riscossi»[46];  in motivazione: «Come è stato, infatti, ancora di recente ricordato in sede tributaria, in tema di IVA, ai fini della variazione dell’imponibile in senso favorevole al contribuente, devono ricorrere i seguenti presupposti: a) la realizzazione di un’operazione imponibile, per la quale sia stata emessa fattura; b) il sopravvenire di una causa di scioglimento del contratto; c) la sussistenza di un titolo idoneo a realizzare gli effetti risolutori del precedente contratto; d) l’identità delle parti dell’accordo risolutorio e del negozio oggetto di risoluzione consensuale; e) il regolare adempimento degli obblighi di registrazione previsti dal dPR n. 633 del 1972; f) un lasso di tempo infrannuale, entro il quale deve verificarsi la vicenda risolutiva, qualora essa trovi titolo in un accordo di mutuo dissenso (Corte di cassazione, Sezione V civile, 18 gennaio 2019, n. 1303) […] La giurisprudenza di questa Corte ha, ancora di recente, ribadito che il reato omissivo previsto dall’art. 10-ter del dlgs n. 74 del 2000 è integrato già dal semplice mancato versamento all’erario delle somme che risultino dovute sulla base della dichiarazione annuale che sia stata a tal fine presentata; siffatto obbligo, si è osservato, è ordinariamente svincolato, tranne i casi di applicabilità del regime di “IVA per cassa”, dall’effettiva riscossione delle somme di cui il contribuente è creditore in quanto rappresentano il corrispettivo delle prestazioni che costituiscono il presupposto per l’applicabilità  della imposta (Corte di cassazione, Sezione III penale, 9 febbraio, 2018, n. 6220; idem Sezione III penale, 3 maggio 2013, n. 19099).  […] ritiene questo Collegio, discostandosi da una recente pronunzia resa in materia, che l’omesso versamento dei corrispettivi dovuti dal consumatore finale del bene o del servizio la cui prestazione costituisce il presupposto della imposta, neppure vale ad escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato ora contestato. Al proposito si rileva come sia stato, invece, recentemente sostenuto che ai fini dell’accertamento del dolo generico del delitto di omesso versamento di IVA di cui all’art. 10-ter del d.lgs. n. 74 del 2000 occorre ravvisare la concreta possibilità di adempiere il pagamento nei termini di legge, che costituisce il presupposto della sussistenza della volontà del soggetto obbligato di non effettuare il versamento dovuto, con la ulteriore precisazione che va escluso il dolo generico nell’ipotesi in cui l’omesso versamento derivi dalla assenza della necessaria liquidità dovuta al mancato incasso delle fatture emesse con l’addebito d’imposta (Corte di cassazione, Sezione III penale, 3 luglio 2018, n. 29873). Siffatto principio, appare non in linea con le dianzi riportate indicazioni, cui invece si ritiene opportuno dare continuità, derivanti sia dalla giurisprudenza propriamente tributaria, la quale, per come dianzi osservato, non risulta affatto ancorare la sussistenza del presupposto per l’affermazione della dovutezza del pagamento dell’IVA da parte del contribuente tributariamente inciso da essa all’avvenuta rimessa della relativa provvista da parte del soggetto finanziariamente tenuto a tenere indenne il suo dante causa dagli effetti dell’imposta, che con la ampiamente prevalente giurisprudenza di questa stessa Corte penale che, oltre a disancorare, come sopra rilevato, la struttura del reato dall’effettiva riscossione da parte del contribuente delle somme che egli sarà tenuto a versare a titolo di Iva, ha, in svariate occasioni, anche assai prossime nel tempo, ribadito che la colpevolezza del contribuente, in caso di omesso versamento dell’IVA risultante dalla dichiarazione presentata non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, anche se derivante dall’omesso versamento da parte dei fruitori dei suoi beni o servizi della necessaria provvista finanziaria, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate da quello tutte le iniziative  per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l’omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell’IVA per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo (Corte di cassazione, Sezione III penale, 29 maggio 2019, n. 23796; idem Sezione III penale, 29 ottobre 2015, n. 43599)»[47]. Sez. 3, Sentenza n. 41061 del 2019, est. Liberati, in motivazione ha ricordato il consolidato orientamento interpretativo della S.C. «secondo cui, al fine della dimostrazione della assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorre l’allegazione e la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262). Per escludere la volontarietà della condotta è, dunque, necessaria la dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento alla obbligazione verso l’Erario a fatti non imputabili all’imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico» (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; conf. Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).  Sez. 3, Sentenza n. 52971 del 06/07/2018 Ud.  (dep. 26/11/2018 ) Rv. 274319 – 01, est. Scarcella: «In tema di reati tributari, l’omesso versamento dell’Iva cui all’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non può essere giustificato, ai sensi dell’art. 51 cod. pen., dal pagamento degli stipendi dei lavoratori dipendenti, posto che l’ordine di preferenza in tema di crediti prededucibili, che impone l’adempimento prioritario dei crediti da lavoro dipendente (art. 2777 cod. civ.) rispetto ai crediti erariali (art. 2778 cod civ.), vige nel solo ambito delle procedure esecutive e fallimentari e non può essere richiamato in contesti diversi, ove non opera il principio della “par condicio creditorum”, al fine di escludere l’elemento soggettivo del reato». 

  In difformità da tale orientamento maggioritario viene sovente invocata isolata pronuncia che ad una lettura più attenta non ha mancato di porre limiti assai rigorosi alla potenzialità esimente della sopravvenuta impossibilità di adempiere al versamento IVA. La Cassazione ha stabilito che: «Ai fini dell’accertamento del dolo generico del delitto di omesso versamento di IVA di cui all’art. 10-ter del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74 occorre ravvisare la concreta possibilità di adempiere il pagamento nei termini di legge, che costituisce il presupposto della sussistenza della volontà del soggetto obbligato di non effettuare il versamento dovuto. (In motivazione la S.C. ha affermato che va escluso il dolo generico nell’ipotesi in cui l’omesso versamento derivi dalla mancanza della necessaria liquidità dovuta al mancato incasso delle fatture emesse con l’addebito d’imposta)»[48]. In motiv.: «va rilevato che il delitto di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10-ter, (Omesso versamento dell’IVA), non è un reato con condotta di natura esclusivamente omissiva, presupponendo il mancato versamento dell’imposta, nel termine previsto per il pagamento dell’acconto dell’anno successivo, la presentazione della dichiarazione annuale IVA da parte di chi è  obbligato a tale adempimento, da cui emerga un debito di imposta superiore alla soglia di Euro duecentocinquantamila, che consente all’obbligato comunque l’accantonamento delle somme già incamerate a titolo di IVA al fine del futuro adempimento tributario. Da ciò discende che in tanto possa profilarsi l’insussistenza del dolo, richiesto a titolo generico, quale mera consapevolezza dell’illiceità della condotta omissiva finale, senza cioè essere caratterizzato da una specifica finalità di evasione (non richiedendo la norma, quale ulteriore requisito, un atteggiamento antidoveroso di volontario contrasto con il precetto violato: Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014 – dep. 25/02/2015, Schirosi, Rv. 263127), in quanto l’obbligato si trovi nell’impossibilità di adempiere per mancanza della necessaria liquidità, e cioè per mancato incasso delle fatture emesse, con l’addebito dell’imposta. È invero l’esistenza concreta della possibilità di adempiere il pagamento che costituisce, come già affermato da questa Corte, indefettibile presupposto della sussistenza della volontà in capo al soggetto obbligato di non effettuare nei termini il versamento dovuto (Sez. 3, n. 40352 del 16.7.2015, Dono, non mass.; v. anche Sez. 3 n.15176 del 6.2.2014, PG c. Iaquinangelo, non mass.). Nulla di tutto ciò risulta tuttavia essere stato eccepito dal ricorrente che, lungi dall’addurre il mancato incasso delle fatture relative all’anno di imposta 2013, si è limitato a censurare l’ordinanza impugnata fornendo elementi irrilevanti: la circostanza che in esercizi precedenti, l’ultimo dei quali riferito all’anno di imposta 2011 e dunque risalente a due anni addietro, gli amministratori allora in carica fossero stati prosciolti dall’analoga contestazione di omesso versamento IVA per non aver commesso il fatto, non offre alcuna specifica indicazione, come logicamente ritenuto dai giudici del riesame, sulla situazione finanziaria della società in relazione all’anno di imposta contestato. Né a diversa conclusione può portare l’assegnazione da parte del Tribunale Fallimentare di un termine alla medesima società per la presentazione di una proposta di concordato: e ciò non soltanto perché la proposta depositata il 21.2.2015 è successiva al periodo di consumazione del reato (27 dicembre 2014), ma soprattutto perché se, come già affermato da questa Corte, l’ammissione alla procedura di concordato preventivo, seppure antecedente alla scadenza del termine previsto per il versamento dell’imposta, non esclude il reato previsto dall’art. 10-ter D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 in relazione al debito IVA scaduto e da versare (Sez. 3, n. 12912 del 04/02/2016 – dep. 31/03/2016, Ugolini, Rv. 266708), a fortiori deve esserne esclusa la rilevanza allorquando si verta nell’ambito di una proposta concordataria non ancora accolta. Neppure i suddetti elementi possono ritenersi idonei a comprovare l’eccepito stato di necessità, posto che, secondo l’univoco orientamento giurisprudenziale, è necessario che siano a tal fine assolti precisi oneri di allegazione che devono investire non solo l’aspetto della non imputabilità al contribuente della crisi economica che improvvisamente avrebbe investito l’azienda, ma anche la circostanza che detta crisi non potesse essere adeguatamente fronteggiata tramite il ricorso ad idonee misure da valutarsi in concreto. Occorre cioè la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014; Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055). Per contro, il ricorrente non ha dedotto né di aver fatto vanamente ricorso al credito bancario, né di aver cercato altre forme di finanziamento, né di aver tentato di fronteggiare la crisi dismettendo beni personali, il che porta necessariamente ad escludere che le difficoltà economiche in cui si sia trovato possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante, concettualmente costruita come un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, indipendentemente dalla condotta da costui posta in essere (Sez. 3, n. 4529 del 04/12/2007, Cairone, Rv. 238986; Sez 3, n. 24410 del 05/04/2011, Bolognini, Rv. 250805)».

5.2.3. Profili critici della novella progettata in punto di causa di non punibilità per crisi non transitoria di liquidità.

Il progettato art. 13, comma 3-bis d.lgs. n. 74/2000 prevede che «I reati di cui agli articoli 10-bis e 10-ter non sono punibili se il fatto dipende da cause non imputabili all’autore sopravvenute, rispettivamente, all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto. Ai fini di cui al primo periodo, il giudice tiene conto della crisi non transitoria di liquidità dell’autore dovuta alla inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi o al mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di Amministrazioni pubbliche e della non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi».

Si tratta di una rilevanza esimente della crisi di liquidità ben più estesa di quella sinora dibattuta in sede giurisprudenziale e che forse oltrepassa per taluni aspetti anche quella ipotizzata in dottrina.  Da quest’ultima sono provenute sovente critiche alla rigidità di un sistema normativo che non consideri come causa di esclusione dell’antigiuridicità l’ipotesi in cui l’omesso versamento del tributo derivi da un’impossibilità di risorse finanziarie che abbia messo il contribuente nella condizione di non poter correttamente assolvere agli obblighi di pagamento, giacché le scarse risorse disponibili sono state dirottate per assicurare la fornitura dei mezzi di produzione vitali per l’immediata sopravvivenza dell’impresa[49].  Tale orientamento è stato talora condiviso dai giudici di merito cercando di valorizzare le particolari condizioni nelle quali si trova a operare l’imprenditore, pur certamente consapevole del debito tributario gravante su di lui. L’accento è stato posto non tanto sulla coscienza e volontà dell’omesso versamento, quanto sulla assenza di volontarietà dell’omissione, che non discenderebbe da una scelta libera, bensì da circostanze esterne: una decisione determinata da un costringimento inevitabile e riconducibile, sotto il profilo dell’antigiuridicità della condotta, alla “forza maggiore” (art. 45 c.p.) [50] o allo “stato di necessità” (art. 54 c.p.)[51], nonché incompatibile, sul piano dell’elemento soggettivo, con il dolo della fattispecie criminosa. Pertanto, la carenza di liquidità sopravvenuta è stata talora ritenuta idonea ad escludere la volontà di non adempiere, sulla base del ragionamento per cui la mancata organizzazione di risorse finanziarie sarebbe integrativa al più di una violazione di condotta sanzionabile penalmente a mero titolo colposo, e non certo di una fattispecie punita esclusivamente a titolo di dolo[52].  

La giurisprudenza ha per lo più ricollegato l’ambito di praticabilità della ipotesi di non punibilità all’evenienza più limitata di mancato incasso dei corrispettivi. Nell’attuale strutturazione della novella, la crisi non transitoria di liquidità del debitore, invece, segue all’effettuazione delle ritenute o all’incasso dell’imposta sul valore aggiunto e non dipende dalla loro impossibile realizzazione; anzi, l’effettuazione delle ritenute e l’incasso dell’IVA ne costituiscono, almeno letteralmente, i presupposti storici. Detta crisi non transitoria di liquidità dipende, alternativamente da cause sopravvenute all’acquisizioni delle risorse con destinazione erariale non imputabili al debitore ed addirittura esterne al fatto generatore del debito erariale,  quali, alternativamente  i) l’inesigibilità dei crediti per accertata insolvenza o sovraindebitamento di terzi, ii) il mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di Amministrazioni pubbliche e iii) la non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi”. Si immagina, dunque, un debitore erariale che dopo aver trattenuto le somme a titolo di ritenute o incassato l’IVA e aver impiegato tali somme, per distinte cause tipizzate sopravvenute, si trova nell’impossibilità di effettuare i versamenti dovuti. Tra esse sorprendentemente è annoverato il “mancato pagamento di crediti certi ed esigibili da parte di Amministrazioni pubbliche”, evidentemente diversi da quelli cui accede l’IVA per cui opera il meccanismo di split payment dell’art. 17-ter d.p.r. n. 633/1972.  Quasi ad autorizzare una compensazione sostanziale, celata sotto le vesti di causa di non punibilità, tra un’omissione di versamento e il mancato incasso di altri e diversi crediti nei confronti della PA. Un’immunizzazione punitiva che in termini economici rischia di traslare, almeno nel settore penale, gli effetti del rischio di impresa dall’imprenditore allo Stato. 

Di tali cause sopravvenute della crisi di liquidità viene richiesta la non imputabilità ma – almeno letteralmente – non il carattere improvviso né quello imprevedibile (salvo che non si ritengano requisiti impliciti della non imputabilità).     

Non è chiarito, neppure, se sia richiesta implicitamente l’adozione di tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo, requisito che non pare consustanziale alla “non esperibilità di azioni idonee al superamento della crisi”.   In proposito, in linea con l’insegnamento giurisprudenziale sinora maturato, potrebbe ritenersi auspicabile esigere la prova (oltre che l’allegazione) che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse economiche e finanziarie necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di un’improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili; si pensi alla verificata impossibilità di far  ricorso al credito bancario o di ricorrere ad altre forme di finanziamento, o di fronteggiare la crisi dismettendo beni personali. Circostanze che parrebbero quantomeno esigibili da parte di un soggetto che, in principio,  si è arricchito di risorse destinate all’erario.  

Se la non imputabilità al contribuente della crisi economica non implica il carattere imprevedibile  né improvviso della crisi non transitoria di liquidità le conseguenze sono forse inattese dallo stesso riformatore; solo tali congiunti caratteri, come visto,  portano a ritenere che le difficoltà economiche in cui si sia trovato il debitore possano integrare la forza maggiore penalmente rilevante, concettualmente costruita come un fatto imponderabile, imprevisto ed imprevedibile, che esula del tutto dalla condotta dell’agente, sì da rendere ineluttabile il verificarsi dell’evento, indipendentemente dalla condotta da costui posta in essere. In altre parole, la crisi di liquidità   progettata quale causa di non punibilità dei reati ex art. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/2000 risulta disancorata dai requisiti costitutivi della forza maggiore.  Del resto, nei reati omissivi, va ribadito che integra la causa di forza maggiore l’assoluta impossibilità, non la semplice difficoltà di tenere il comportamento doveroso; laddove vi è un margine di scelta non può essersi forza maggiore così come la tardività nell’assumere iniziative per rimediare allo stato di impotenza ne esclude la non imputabilità. Si tratta di caratteri dei quali allo stato non è dato riscontrare la compresenza nel “novellando” art. 13, comma 3-bis d.lgs. n. 74/2000, con pericoli di allentamento della capacità repressiva delle fattispecie penali ex art. 10-bis e 10-ter d.lgs. n. 74/2000.

5.2.4. La causa non punibilità per tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p.; osservazioni.   

Sinora l’applicabilità della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto è stata affermata in relazione al reato di omesso versamento dell’IVA laddove l’ammontare dell’imposta non corrisposta sia di pochissimo superiore a quello fissato dalla soglia di punibilità; ciò muovendo dalla considerazione che  la previsione di quest’ultima evidenzia che il grado di offensività della condotta ai fini della configurabilità dell’illecito penale è stato già valutato dal legislatore[53].

Come detto, il progettato comma 3-ter dell’art. 13 del d.lgs. n. 74/2000, invece, reca una disposizione comune ai delitti di omesso versamento di ritenute dovute o certificate e omesso versamento di IVA di cui ai citati articoli 10-bis e 10-ter del d.lgs. 74/2000, volta a prevedere, ai fini della non punibilità per particolare tenuità del fatto ex art. 131-bis c.p., specifici indici che debbono essere, singolarmente o congiuntamente, valutati dal giudice in modo prevalente.

Tali indici sono i seguenti: i) l’entità dello scostamento rispetto alla soglia di  punibilità (lett. a del nuovo comma 1-ter); ii)  il pagamento integrale del debito secondo il piano di rateizzazione concordato (qualora non costituisca autonoma causa di non punibilità ai sensi del comma 1 dell’art. 13) (lett. b del nuovo comma 1-ter);  iii)  l’entità del debito residuo, qualora il debito sia in fase di estinzione mediante rateizzazione (lett. c del nuovo comma 1-ter); iv) lo stato di crisi del debitore, come definito dall’art. 2, comma 1, lett. a) del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza (d. lgs. 14/2019) (lett. d del nuovo comma 1-ter). 

La definizione degli indici sopra evidenziati appare apprezzabile rispetto all’aspirazione di orientare il giudice lungo un perimetro più chiaro rispetto all’applicazione di una causa di non punibilità che sinora ha segnalato disomogenee prassi, per i reati tributari riscossivi quasi tutte confrontatesi rispetto alla sola entità dello scostamento rispetto alla soglia di punibilità.  Coerenti con la struttura dell’istituto, come rinnovato da d.lgs. n. 150/2022, anche le condotte susseguenti   al reato (pagamento integrale e parziale), pur in sé distanti dalle caratteristiche oggettive della offesa originaria.   

Distonica, invece, la considerazione isolata di una situazione successiva come lo stato di crisi qualificata del debitore; la stessa che già assume  – sostanzialmente –  rilievo autonomo quale crisi di liquidità  non transitoria nei termini di  causa di non punibilità ai sensi del progettato art. 13, comma 3 bis d.lgs. n. 74/2000, nulla sembra condividere rispetti ai caratteri oggettivi dell’offesa, rivelati dalle modalità della condotta e dall’esiguità del danno o del pericolo, valutati ai sensi dell’articolo 133, primo comma anche in considerazione della condotta susseguente al reato.  

Sebbene non richiamato nella progettata novella, deve inoltre ritenersi operante il limite della non abitualità del comportamento, quali confine generale delineato dall’art. 131 bis c.p.

5.2.5. La circostanza attenuante dell’art. 13 bis d.lgs. n. 74/2000: analisi e critica.  

Il comma 1, lett. g), interviene sull’art. 13-bis del decreto legislativo n.74 del 2000 (Circostanze del reato), sostituendo il comma 1 con i commi 1 e 1-bis e modificando il comma 2. Con la lettera g) si riforma la disciplina delle circostanze del reato di cui all’articolo 13-bis, il cui primo comma viene sostituito prevedendo la possibilità di diminuire la pena fino alla metà in caso di estinzione del debito tributario, comprensivo di sanzioni e interessi, prima della chiusura del dibattimento, disciplinando altresì un meccanismo di sospensione del processo nel caso in cui sia in corso la rateizzazione del debito. Viene prevista al nuovo comma 1-bis, in tal caso, la sospensione del processo per un anno, salva la preventiva comunicazione di estinzione del debito, o decadenza  dalla  rateazione,  da  parte dell’Agenzia  delle  entrate,  e  la  possibilità  per  il  giudice  di  sospendere  per  tre  mesi  la  nuova decorrenza,  ed  eventualmente  prorogare  la  sospensione  per  ulteriori  tre  mesi,  quando  ciò  sia necessario a consentire l’integrale pagamento del debito. Secondo la relazione illustrativa anche tale modifica realizza il criterio di delega di cui all’art. 20, comma 1, lett. a), n.3), teso a adeguare «i profili processuali e sostanziali connessi alle ipotesi di non punibilità e di applicazione di circostanze attenuanti all’effettiva durata dei piani di estinzione dei debiti tributari, anche nella fase antecedente all’esercizio dell’azione penale».

L’incidenza dell’estinzione integrale del debito tributario viene differita dall’apertura del dibattimento sino alla chiusura dello stesso; la funzionalizzazione della durata del processo penale alla soddisfazione di esigenze amministrative erariali si dilata e raggiunge livelli sinora mai toccati, se si esclude, probabilmente, l’art. 23 del d.l. 34/2023[54]. Quest’ultima disposizione assicurava una ritardata prospettiva non punitiva (sino alla pronuncia della sentenza di appello) limitata ai reati riscossivi a bassa carica fraudolenta; peraltro, per la giurisprudenza di legittimità (Cass. pen. Sez. 3, 27/10/2023, n. 43569)   integrava un’ipotesi di non punibilità degli illeciti tributari diversa da quella prevista, in via generale, dall’art. 13 del D.Lgs. n. 74/2000, da cui si differenzia avendo un ambito di applicazione più ristretto, sia con riferimento ai periodi di imposta presi in considerazione che in relazione ai presupposti per la sua operatività. Tale differenza fra la sfera di operatività delle due cause di non punibilità non può ritenersi costituzionalmente illegittima, rientrando nella sfera di discrezionalità del legislatore stabilire per quali periodi fiscali ed a quali condizioni possa riconoscersi rilievo al pagamento del debito tributario.

Per contro, l’ipotizzato nuovo art. 13 bis d.lgs n. 74/2000  si delinea come attenuante per tutti i reati tributari descritti dal d.lgs. n. 74/2000 e rischia di rivestire impatti temporalmente pregiudizievoli su moltissimi processi di primo grado, la cui celebrazione verrà  ritardata (in ipotesi sino ad 18 mesi) non per assicurare la non punibilità ma solo per cercare di mitigare il trattamento sanzionatorio consentendo l’eventuale integrazione di circostanza attenuante attraverso una integrale estinzione del debito tributario prima della chiusura del dibattimento. Anche per questa via si profila, dunque, una nuova declinazione della cd. “amministrativizzazione” del diritto penale segnato dall’arretramento della sanzione punitiva, in maniera decisa funzionalizzata essenzialmente a compiti promozionali, quali l’enforcement al mero adempimento, pur tardivo, nel versamento delle imposte[55].

6. Preclusioni al sequestro finalizzato alla confisca in caso di rateizzazione del debito secondo lo schema di d.lgs. in commento: critica fenomenologica.   

L’articolo 1, comma 1, lett. e) del provvedimento reca la previsione dell’esclusione del sequestro a fini di confisca qualora sia in corso l’estinzione del debito tributario mediante rateizzazione anche a seguito di procedure conciliative o di accertamento con adesione, a condizione che il contribuente sia in regola con i relativi pagamenti e che non sussista il concreto pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale (desunto dalle condizioni reddituali, patrimoniali o finanziarie del reo, tenuto altresì conto della gravità del reato).

A tal fine, la disposizione in commento interviene sull’art. 12-bis del decreto legislativo n. 74 del 2000. Viene, conseguentemente, sostituita la rubrica del vigente art. 10-bis (Confisca) con la seguente: Sequestro e confisca. Il comma 6 dell’art. 1 prevede, infine, che le disposizioni in materia di confisca, di cui all’articoli 12-bis, comma 2 (come quelle in materia di circostanze di reato, di cui all’articolo 13-bis, commi 1 e 1-bis, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, come modificati dal comma 1, lettere e), numero 1) e g), numero 1), si applicano anche quando il debito tributario è in fase di estinzione mediante rateizzazione a seguito di regolarizzazione, ai sensi dell’articolo 1, commi da 174 a 178, della legge 29 dicembre 2022, n. 197  (c.d. ravvedimento speciale)[56].

Più in dettaglio, la lettera e), interviene sull’articolo 12-bis in materia di confisca, sostituendo il comma 2 con una disposizione che tempera le iniziative di sequestro preventivo finalizzate alla confisca obbligatoria del profitto dell’evasione, precludendole nei casi in cui non sussista un rischio di dispersione della garanzia patrimoniale e, conseguentemente, non risulti necessario un intervento di natura anticipatoria rispetto alla misura di sicurezza patrimoniale. In particolare, il nuovo comma 2 dispone che il sequestro non possa essere disposto se il debito tributario è in corso di estinzione mediante rateizzazione, anche a seguito di procedure conciliative o di accertamento con adesione, sempre che, in detti casi, il contribuente risulti in regola con i relativi pagamenti. Fa eccezione, come si diceva, il caso in cui sussista il concreto pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale che si può desumere dalle condizioni reddituali, patrimoniali o finanziarie del reo, tenuto anche conto della gravità del reato.

Rispetto al quadro normativo vigente la giurisprudenza penale di legittimità ha statuito che «in tema di reati tributari, la disposizione di cui all’art.12-bis, comma 2, d.lgs. n. 74 del 2000, introdotta dal d.lgs. n.158 del 2015, secondo cui la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prezzo del reato «non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro», deve essere intesa nel senso che la confisca – così come il sequestro preventivo ad essa preordinato – può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito»[57]. In motivazione, la Corte ha precisato che il sequestro e la conseguente confisca devono essere conservati fino all’integrale effettivo pagamento della somma evasa, potendo le rate già versate essere considerate solo ai fini della riquantificazione della misura. L’art. 12-bis, comma 2 cit. prevede che la confisca diretta o di valore dei beni costituenti profitto o prezzo  del reato «non opera per la parte che il contribuente si impegna a versare all’erario anche in presenza di sequestro»; e la stessa deve essere intesa nel senso che la confisca (così come il sequestro preventivo ad essa preordinato) può essere adottata anche a fronte dell’impegno di pagamento assunto, producendo tuttavia effetti solo ove si verifichi l’evento futuro ed incerto costituito dal mancato pagamento del debito (Sez. 3, n. 33389 del 08/06/2018; Sez. 3, n. 42470 del 13/07/2016, Rv. 268384; Sez. 3, n. 5728 del 14/01/2016, Rv. 266038).

La soluzione del rapporto tra rateizzazione e sequestro preventivo viene adesso completamente ribaltata; l’esistenza di un valido piano di rateizzazione, regolarmente osservato con puntuali pagamenti, inibisce il sequestro preventivo con finalità confiscatoria che tornerà praticabile ove sussista «il concreto pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale (desunto dalle condizioni reddituali, patrimoniali o finanziarie del reo, tenuto altresì conto della gravità del reato)».  Sotto questo profilo va ricordato che, rispetto al quadro normativo già in essere, per la giurisprudenza di legittimità (da ultimo cfr.Cass., Sez. 3, n. 4920/2023, Rv. 284313) «il provvedimento di sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria, diretta o per equivalente, ex art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, deve contenere la concisa motivazione anche del “periculum in mora“, da rapportare alle ragioni che rendono necessaria l’anticipazione dell’effetto ablatorio rispetto alla definizione del giudizio, dovendosi escludere ogni automatismo decisorio che colleghi la pericolosità alla mera natura obbligatoria della confisca, in assenza di previsioni di segno contrario». Sotto questo profilo, il pericolo di dispersione costituisce già attualmente, per tutte le evenienze di attivazione delle iniziative cautelari rispetto a tutti i reati tributari, premessa necessaria dell’anticipazione dell’effetto ablatorio rispetto alla definizione del giudizio.

La revisione mira a procedimentalizzare più marcatamente il riconoscimento giudiziale di detto pericolo di dispersione della garanzia patrimoniale, per quanto i contenuti non possano dirsi sconosciuti all’elaborazione pretoria; da un lato, infatti,  viene  imposta la considerazione delle condizioni reddituali, patrimoniali o finanziarie del reo e della gravità del reato, dovendosi ritenere che le prime e quest’ultima, anche alternativamente, possano avvalorare il rischio di dispersione della garanzia patrimoniale utile a garantire la fruttuosità della successiva confisca del profitto del reato, esigendo l’anticipazione dell’ablazione con il sequestro; dall’altro, la previsione àncora il giudizio positivo alla concreta ricorrenza di detto pericolo, da calibrare sulla specifica vicenda, senza astratte presunzioni.

Se in termini teorici la soluzione può dirsi razionale rispetto alla funzionalità del piano di rateazione, nell’esperienza giudiziaria quasi sempre il pagamento rateale segue – e non precede – l’adozione dei vincoli cautelari reali di natura penale, che finiscono per fungere da formidabile stimolo all’adempimento tardivo; per favorire la praticabilità dei piani di pagamento rateale, infatti,  dopo l’applicazione della misura penale,  presso gli uffici giudiziari sono state sperimentate procedure su base volontaria – ossia su diretta richiesta dell’indagato proprietario delle somme vincolate penalmente  –  che presuppongono la cedevolezza progressiva degli sequestri preventivi  funzionali a consentire, con lo smobilizzo funzionalizzato delle risorse, l’estinzione rateale del debito erariale.   In base al disposto dell’art. 85 disp. att. c.p.p.  e tenuto conto della lettura venuta emergendo per via giurisprudenziale (Cass. n. 18034/2019), infatti, «l’interessato, dunque, può [..] domandare il dissequestro per la parte che dimostri di avere versato, ex art. 321, comma terzo, c.p.p., ovvero invocare l’applicazione dell’art. 85 disp. att. c.p.p. il quale consente che le cose sequestrate (nella specie, il denaro) possano essere restituite previa esecuzione di specifiche prescrizioni che, nel caso di specie, consistono nella destinazione a favore dell’erario a titolo di pagamento del debito. Analogamente qualora siano stati sequestrati beni mobili ed immobili, il contribuente-indagato potrebbe procedere versando all’erario la somma di valore corrispondente (recentemente, in termini, cfr. Cass., 21 giugno 2018, n.28745)». Soluzione che il legislatore avrebbe potuto convenientemente positivizzare, eventualmente permettendo, su istanza della persona sottoposta a indagini o dell’imputato e previa autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria procedente, di effettuare il pagamento con le risorse originariamente sottoposte a sequestri preventivo per il tramite del Fondo Unico Giustizia (F.U.G.), d’intesa con l’Agenzia delle entrate. Tale soluzione si porrebbe in ossequio al principio di proporzionalità della misura cautelare e   assicurerebbe tutela alle ragioni erariali, probabilmente più di quanto potrà scaturire dall’applicazione del divieto disporre il sequestro (tranne i casi eccezionali ricordati) in presenza di piani rateali. Non può escludersi che gli stessi piani possano essere strumentalmente allestiti al solo fine di creare una ragione formale di inibizione all’iniziativa cautelare rispetto a risorse che costituiscono, al fondo, il profitto o il prezzo del reato o il loro corrispondente valore economico.  Sarebbe necessario prevedere in termini normativi (in tal senso il provvedimento non sembra immaginarne l’introduzione) e comunque allestire in termini organizzativi una pronta relazione informativa tra gli uffici dell’agenzia delle entrate o della riscossione, da un lato, e le Procure, d’altro lato, affinché ogni successiva inattuazione del piano di rateizzazione possa essere solertemente veicolata dai primi alle seconde e favorire iniziative di cautela reale.

Resta evidente, infine, la scelta valoriale sottesa all’opzione di voler calibrare la considerazione  del pericolo di dispersione che rende praticabile il sequestro preventivo sulla garanzia patrimoniale (secondo la logica del sequestro conservativo) e non (almeno) direttamente sul profitto (o il  prezzo)  dei reati tributari, che si sostanzia nel risparmio indebito di spesa collegato al mancato pagamento dell’imposta; ne risulta avvalorata una considerazione esclusivamente economica di quest’ultimo ed in genere  del provento di reato (e dei beni suscettibili di ablazione preventiva per valore corrispondenti)  quale componente patrimoniale che garantisce,  essa stessa, il pagamento del debito erariale, insuscettibile di essere sequestrata se funzionalizzata all’estinzione del debito erariale, secondo logica esclusivamente reintegrativa e con abbandono di qualsiasi funzione dissuasiva-sanzionatoria ricollegata alla confisca.  Anche sotto questo profilo le misure cautelari penali vengono assimilate a quelle amministrative dell’ipoteca e del sequestro conservativo sui beni del trasgressore e dei soggetti obbligati in solido (disciplinate dal combinato disposto dell’art. 27, comma 5, del D.L. 29 novembre 2008, n. 185  e dell’art. 22 del D. Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472), a garanzia dei crediti dell’A.F. nei confronti dei contribuenti in presenza di presupposti di fatto e di diritto che avvalorano la sostenibilità della pretesa tributaria (fumus boni iuris) e il timore di perdere la garanzia del proprio credito (periculum in mora).

Una opzione valoriale –  è bene considerare –  non priva di problematicità tenuto conto dell’evoluzione del quadro normativo complessivo, anche unionale[58], di contrasto alla ricchezza di origine illecita e dell’importanza riconosciuta dall’Unione europea alla confisca dei proventi di reato.     


[1] [1] E’ il testo revisionato dell’audizione svolta in data 3 aprile 2024 dall’autore dinanzi alle Commissioni riunite II Giustizia e VI Finanza della Camera dei Deputati nell’ambito del ciclo di audizione sillo schema di decreto legislativo recante revisione del sistema sanzionatorio tributario A.G. 144. Il documento è stato pubblicato in data 18 aprile 2024  sulla rivista online https://www.sistemapenale.it

[2] Cass. n. 10112 del 21/04/2017 e Cass. n. 19237 del 02/08/2017; seguite poi da Cass. 24093 del 30/10/2020; Cass. n. 354 del 13/01/2021; Cass. n. 31859 del 05/11/2021; Cass. n. 25436 del 29/08/2022.

[3] Per un commento cfr. Renda, Termine decadenziale più lungo per l’accertamento dei crediti inesistenti, Rivista ci Giurisprudenza Tributaria, 2024, fasc. 2 , pag. 114. Nello stesso senso cfr. Cass. SU, n.  34452 del 2023  per la quale «in tema di compensazione di crediti o eccedenze d’imposta da parte del contribuente, è applicabile la sanzione di cui all’art. 27, comma 18, d.l. n. 185 del 2008, vigente ratione temporis, ovvero, se più favorevole, quella prevista dall’art. 13, comma 5, d.lgs. n. 471 del 1997 quando il credito utilizzato è inesistente, condizione che si realizza – alla luce anche dell’art. 13, comma 5, terzo periodo, d.lgs. n. 471 del 1997, come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 – allorché ricorrano congiuntamente i seguenti requisiti: a) il credito, in tutto o in parte, è il risultato di una artificiosa rappresentazione ovvero è carente dei presupposti costitutivi previsti dalla legge ovvero, pur sorto, è già estinto al momento del suo utilizzo; b) l’inesistenza non è riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter d.P.R. n. 600 del 1973 e all’art. 54-bis d.P.R. n. 633 del 1972; ove sussista il primo requisito ma l’inesistenza sia riscontrabile in sede di controllo formale o automatizzato, la compensazione indebita riguarda crediti non spettanti e si applicano le sanzioni previste dall’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 ovvero dall’art. 13, comma 4, d.lgs. n. 471 del 1997 come modificato dal d.lgs. n. 158 del 2015 qualora ratione temporis applicabile. cfr. Massimario, Rel. n. 12, Roma, 24 gennaio 2024.

[4] Ad esempio, in tema di agevolazioni per gli investimenti nelle aree svantaggiate, il mantenimento del beneficio è condizionato dalla materiale adibizione «del bene oggetto dell’investimento alla funzione produttiva sua propria entro due anni da quando lo stesso si è reso disponibile all’impresa», situazione la cui verificabilità si sottrae, di norma, ad un riscontro meramente formale. In tale ipotesi, peraltro, la condotta rilevante potrà riguardare l’uso in compensazione del credito successivo all’inutile scadenza del biennio e non anche l’utilizzo del credito per il periodo anteriore, quando, sia pure condizionato, era esistente. Va escluso, del resto, che l’ipotesi  determini un allargamento dei presupposti di rilevanza per l’applicazione del più rigoroso regime giuridico: il credito non solo è  inesistente al momento del suo utilizzo in compensazione ma tale inesistenza, quando gli adempimenti richiesti si traducano in attività non meramente formali, non è neppure rilevabile in sede di controllo automatizzato, restando la condotta del contribuente – che ha posto in compensazione il credito nonostante l’inosservanza degli obblighi, di facere o non facere, su di lui ricadenti – indubbiamente valutabile come abusiva e fraudolenta.

[5] È il caso, ad esempio, del credito d’imposta per l’attività di ricerca ex art. 14 d.m. n. 593 del 2000 che va indicato, a pena di decadenza, nella dichiarazione dei redditi relativa al periodo d’imposta nel corso del quale il beneficio è concesso: v. Cass. n. 389 del 13/01/2016; analogamente per il credito d’imposta per la riqualificazione della rete distributiva ex art. 11 l. n. 449 del 1997: v. Cass. n. 610 del 12/01/2018; disposizione analoga è prevista in tema di agevolazioni per l’acquisto della prima casa ex art. 1, nota II bis, della Tariffa, Parte Prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986. La domanda (i.e. la dichiarazione) rileva, in queste ipotesi, quale elemento costitutivo del credito d’imposta poiché le agevolazioni sono, per loro natura, generalmente condizionate ad una dichiarazione di volontà dell’avente diritto di avvalersene e, peraltro, l’Amministrazione finanziaria deve poter verificare la sussistenza dei presupposti del beneficio come evocato nella richiesta e in forza della quale esso viene provvisoriamente riconosciuto (v. Cass. n. 6501 del 16/03/2018). Non di rado, il carattere cogente è identificabile dalla previsione, esplicita o implicita, di un termine decadenziale per la formulazione della richiesta, la cui mancata osservanza è idonea a determinare la perdita del diritto. 

[6] Ad esempio, in tema di benefici fiscali cd. “prima casa” l’acquirente è tenuto, ai sensi dall’art. 1, nota II bis, comma 1, lett. a), della Tariffa allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, a trasferire – al di là dell’ipotesi riconnessa all’attività lavorativa esercitata – la propria residenza (destinata ad assurgere ad abitazione della parte) entro i diciotto mesi dall’acquisto nel comune ove è ubicato l’immobile (v. Cass. n. 28860 del 01/12/2017; Cass. n. 667 del 12/01/2023). In altre fattispecie, l’attività richiesta è più complessa: l’art. 33, comma 3, l. n. 388 del 2000 – agevolazione prevista per il trasferimento di terreni edificabili – postula un facere da parte dell’acquirente, che, in attuazione degli strumenti urbanistici, entro i cinque anni successivi deve procedere all’edificazione (v. Cass. n. 14891 del 20/07/2016). Analoga complessa regolamentazione si rinviene nella disciplina sul credito per gli investimenti nelle aree svantaggiate ex art. 8 l. n. 388 del 2000: se, da un lato, l’art. 62, comma 1, lett. f) e g), della l. n. 289 del 2002, stabilisce che la fruizione del beneficio è consentita entro il secondo anno successivo a quello di presentazione di autonoma istanza (sicché, in parte qua, vale quanto su precisato al punto 1)), dall’altro, l’art. 8, comma 7, l. n. 388 cit. impone di «materialmente adibire il bene oggetto dell’investimento alla funzione produttiva sua propria entro due anni da quando lo stesso si è reso disponibile all’impresa», in rispondenza alla ratio legis di tutelare i nuovi investimenti in quanto portati a compimento ed effettivamente immessi nel ciclo economico e produttivo delle aree svantaggiate (Cass. n. 8086 del 29/03/2017). In tema di benefici fiscali per gli interventi di riqualificazione ed efficientamento energetico, l’art. 1, comma 349, l. n. 296 del 2006, impone un obbligo di facere poiché assegna rilevanza costitutiva alla preventiva comunicazione all’Enea dell’elenco delle spese; si tratta di adempimento in sé formale, che, tuttavia assolve allo scopo di impedire eventuali frodi e di consentire la verifica che i lavori, in quanto diretti a salvaguardare l’ambiente risparmiando energia, siano meritevoli dei vantaggi fiscali (v. Cass. n. 34151 del 21/11/2022).  Integra un non facere, invece, l’obbligo, in tema di agevolazioni cd. prima casa di cui all’art. 1, nota II bis, comma 4, della Tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, di non cedere l’immobile per un quinquennio dall’acquisto, la cui violazione (salvo che il soggetto non provveda ad un nuovo acquisto di altro immobile da adibire ad abitazione entro un anno) determina la decadenza del beneficio con l’estinzione del credito d’imposta. Rientra in questo ambito anche  l’art. 8, comma 2, lett. a), legge 7 marzo 2001, n. 62, che, infatti, dispone che «Gli investimenti per i quali è previsto il credito di imposta di cui al comma 1 hanno ad oggetto: a) beni strumentali nuovi, ad esclusione degli immobili, destinati esclusivamente alla produzione dei seguenti prodotti editoriali in lingua italiana: giornali, riviste e periodici, libri e simili, nonché prodotti editoriali multimediali», sicché, in tale ipotesi, è imposto l’obbligo di non impiegare i beni acquistati per la stampa in altre lingue.

[7] Come sopra evidenziato, ad esempio, la mancata edificazione nel quinquennio dall’acquisto di terreni edificabili determina – e assume rilievo giuridico come condizione risolutiva – la perdita dell’agevolazione ex art. 33, comma 3, l. n. 388 del 2000, con estinzione del credito d’imposta e obbligo di restituzione di quella anteriormente fruita. In altre ipotesi, invece, l’indicazione del termine è oggettivamente rilevante: è il caso del credito di imposta per il trasporto merci di cui al d.l. n. 265 del 2000, che deve essere esercitato, ai sensi dell’art. 4, comma 3, d.P.R. n. 277 del 2000, entro l’anno solare in cui è sorto, attraverso la compensazione prevista dall’art. 17 del d.lgs. n. 241 del 1997 (salva la possibilità, in caso di eccedenza, di chiedere il rimborso entro i sei mesi successivi a tale anno) (Cass. n. 6937 del 17/03/2017; Cass. n. 29130 del 13/11/2018)

[8] Sotto il primo profilo, vengono in rilievo adempimenti di carattere strumentale o accessorio, suscettibili di connotare l’utilizzo del credito ed incidenti, in ipotesi, sull’attività di controllo dell’Ufficio, ma non anche, se carenti, di inficiarne l’esistenza. In tal senso, si è ritenuto validamente utilizzato il credito di imposta, maturato per l’anno 2007, previsto per le attività di ricerca e sviluppo dall’art. 1, commi 280-283, l. n. 296 del 2006 in forza della diretta compensazione, anche solo parziale, con gli importi dovuti a titolo di imposte dirette, quand’anche lo scomputo della somma in compensazione non fosse stato per errore indicato nel modello F24 (modello il cui uso a pena di decadenza del beneficio era previsto solo per i crediti maturati successivamente al 2008) (v. Cass. n. 11614 del 04/05/2021 L’esistenza di limiti e soglie di valore postula, invece, l’esistenza del credito nella sua integrità: questo, semplicemente, non è utilizzabile per l’intero, restando l’operazione, per la parte eccedente, priva di efficacia nei confronti dell’erario. L’individuazione di soglie di fruibilità del credito assolve ad una funzione esterna al credito d’imposta in vista delle esigenze di equilibrio del bilancio dello Stato, esigenze che, tuttavia, non interferiscono con i presupposti di esistenza (v. anche, con riguardo ai crediti per le spese di ricerca e di sviluppo, l’art. 29, comma 1, del d.l. n. 185 del 2008, conv., con modif., in l. n. 2 del 2009, che ha introdotto un tetto massimo anche con riguardo ai crediti maturati prima della sua entrata in vigore: v. Cass. n. 5733 del 09/03/2018).

[9] Non a caso, ad esempio, l’art. 27 del TU n. 131/1986 sull’imposta di registro («non sono considerati sottoposti a condizione sospensiva le vendite con riserva di proprietà e gli atti sottoposti condizione che ne fanno dipendere gli effetti dalla mera volontà dell’acquirente o del creditore») esclude l’incidenza della cessione con riserva di proprietà, mentre, in caso di agevolazione cd. prima casa, si deve escludere che possa assumere rilievo l’apposizione, nel contratto di compravendita, di una clausola sospensiva «dell’efficacia del nuovo acquisto alla rivendita entro un dato termine di quello precedente già acquistato», posto che si porrebbe in contrasto con il requisito dell’impossidenza di altri immobili (v. Cass. n. 10513 del 21/04/2021).

[10] È il caso, dunque, della compensazione orizzontale dei crediti Iva: l’art. 34 l. n. 388 del 2000 prevede una soglia annua limite (più volte modificata nel tempo), al di là della quale non è consentita la compensazione del credito. In tale evenienza il (maggior) credito esiste ed è effettivo ma non è utilizzabile, nell’anno, in compensazione ex art. 17 d.lgs. 9 luglio 1997, n. 241 (v. Cass. n. 31706 del 07/12/2018; Cass. n. 26926 del 22/10/2019). Analoga conclusione vale con riguardo all’istanza prevista dall’art. 8, commi 2 e 3, d.P.R. n. 542 del 1999, come modificato dall’art. 11, comma 5, d.P.R. n. 435 del 2001, per poter accedere alla compensazione di un credito Iva infrannuale, la quale dunque non può mai essere elevata a condizione costitutiva del credito.

[11] Sul piano procedimentale, con l’art. 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (legge di bilancio 2005), è stata introdotta la possibilità per l’Agenzia delle entrate di operare «la riscossione dei crediti indebitamente utilizzati in tutto o in parte, anche in compensazione ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241» attraverso un «apposito atto di recupero motivato», ossia con una modalità idealmente più agile e di più lata applicazione, che si aggiungeva all’ordinario avviso di accertamento e concorreva con quelle del recupero attraverso l’accertamento automatizzato ex artt. 36 bis e 36, ter d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis, d.P.R. n. 633 del 1972. La disposizione, priva in sé di natura sanzionatoria, mirava solo a rendere più agevole l’intervento degli uffici rispetto alla generalità delle condotte di indebita compensazione, a prescindere dalla qualificazione del credito come inesistente o non spettante.  La giurisprudenza, a sua volta, si era orientata per ritenere che la condotta di indebita compensazione dei crediti – senza, però, distinguere tra le diverse ipotesi – fosse soggetta alla sanzione di cui all’art. 13, comma 1, d.lgs. n. 471 del 1997 poiché l’indebita compensazione comportava un minor versamento delle imposte dovute (pari a quelle illegittimamente compensate) e, quindi, si traduceva in una ipotesi di omesso versamento d’imposta (v., tra le molte, Cass. n. 8681 del 15/04/2011; Cass. n. 8247 del 04/04/2018).

[12] L’art. 27, commi da 16 a 18, nel testo ratione temporis vigente, testualmente ha previsto: «16. Salvi i più ampi termini previsti dalla legge in caso di violazione che comporta l’obbligo di denuncia ai sensi dell’articolo 331 del codice di procedura penale per il reato previsto dall’articolo 10-quater, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, l’atto di cui all’articolo 1, comma 421, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, emesso a seguito del controllo degli importi a credito indicati nei modelli di pagamento unificato per la riscossione di crediti inesistenti utilizzati in compensazione ai sensi dell’articolo 17, del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, deve essere notificato, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre dell’ottavo anno successivo a quello del relativo utilizzo. 17. La disposizione di cui al comma 16 si applica a decorrere dalla data di presentazione del modello di pagamento unificato nel quale sono indicati crediti inesistenti utilizzati in compensazione in anni con riferimento ai quali alla data di entrata in vigore della presente legge siano ancora pendenti i termini di cui al primo comma dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e dell’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633. 18. L’utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è punito con la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi.»

[13] Le nuove disposizioni, in particolare, hanno stabilito quanto segue: «4. Nel caso di utilizzo di un’eccedenza o di un credito d’imposta esistenti in misura superiore a quella spettante o in violazione delle modalità di utilizzo previste dalle leggi vigenti si applica, salva l’applicazione di disposizioni speciali, la sanzione pari al trenta per cento del credito utilizzato. 5. Nel caso di utilizzo in compensazione di crediti inesistenti per il pagamento delle somme dovute è applicata la sanzione dal cento al duecento per cento della misura dei crediti stessi. Per le sanzioni previste nel presente comma, in nessun caso si applica la definizione agevolata prevista dagli articoli 16, comma 3, e 17, comma 2, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472. Si intende inesistente il credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante controlli di cui agli articoli 36-bis e 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633.»

[14] Su tale delitto, in generale, Raimondi, “Il delitto di indebita compensazione: la struttura e la recente querelle giurisprudenziale in ordine alla sua portata applicativa“, in Riv. Pen., 2021, pag. 110; Zanotti, “L’incerto ambito di applicazione del reato di indebita compensazione“, in Dir. prat. trib., 2021, pag. 1424; Franzetti, “Delitto di indebita compensazione (art. 10 quater D.Lgs. 74/2000) e rilevanza delle ‘compensazioni orizzontali‘”, in Sistemapenale.it del 15 dicembre 2021; Andò, “Le indebite compensazioni con finalità extrafiscali: la dispersione del bene giuridico e l’applicazione analogica dell’art. 10-quater D.Lgs. n. 74/2000“, in Cass. Pen., 2021, pag. 3724; Colaianni, “Art. 10 quater“, in Falsitta – Fantozzi – Marongiu – Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie, Padova, 2011, pag. 608.

[15] Santoriello, Reato di indebita compensazione: rilevanza penale differente tra crediti “inesistenti” e “non spettanti”, Fisco, 2023, 19, 1879.

[16] La definizione di “credito inesistente” fornita dall’art. 13 del D.Lgs. n. 471/1997 fa riferimento al «credito in relazione al quale manca, in tutto o in parte, il presupposto costitutivo e la cui inesistenza non sia riscontrabile mediante i controlli di cui agli artt. 36-bis e 36-ter del D.P.R. n. 600/1973 e all’art. 54-bis del D.P.R. n. 633/1972».

[17] In tal senso cfr. il documento elaborato dall’Unione  Nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi ed illustrato in sede di audizioni parlamentari rispetto all’atto A.G. 144.

[18] La “ratio” della norma sarebbe “tout court” quella di evitare la criminalizzazione di  comportamenti che, al di fuori dei casi ex art. 47, comma 3, del codice penale e pur essendo contrari a norme tributarie, traggono origine da errori di interpretazione delle norme stesse, causati dalla complessità e farraginosità (“rectius”: incertezza) della legislazione fiscale (“rectius”: delle norme tributarie e del loro ambito di applicazione). Secondo l’orientamento prevalente e come osservato, “in altri termini, è da ritenere che lo stesso Legislatore, consapevole delle gravi difficoltà interpretative che caratterizzano la normativa tributaria, con la disposizione in questione abbia inteso attribuire al fenomeno dell’errore una portata scriminante più ampia di quella della generale scusante dell’errore di fatto prevista dall’art. 47 del codice penale; Traversi, in Caraccioli-Giarda-Lanzi, Diritto e procedura penale tributaria, Padova 2001, pag. 431.

[19] Nannucci, in AA.VV, “La riforma del diritto penale tributario”, Padova 2000, pagg. 217 e seguenti.

[20] Di Siena, La nuova disciplina dei reati tributari, Milano 2000, pagg. 202-203

[21] Graziano,  L’ignoranza e l’errore nel diritto penale tributario: l'”impatto” della riforma ex d.lgs. n. 74/2000 sulla “vexata quaestio”, inRass. Tributaria, 2002, 3, 936;  Tarantini-Esposito, La nuova disciplina dei reati tributari, Padova 2001,, pagg. 109-110 Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano 2000,pag. 230,  assume che per quanto attiene all’incasellamento del disposto normativo fra i diversi «comportamenti della disciplina dell’errore, nessun dubbio è lecito: anche al di là della valenza interpretativa dei lavori preparatori, la clausola di riserva ‘al di fuori dei casi in cui la punibilità è esclusa a norma dell’art. 47, terzo comma, del codice penale‘, con cui la disposizione esordisce, rende assolutamente incontestabile – come la stessa relazione ministeriale (n. 4.3) sottolinea – che la disposizione stessa ‘è destinata ad operare in ambito distinto ed ulteriore rispetto alla generale regola codicistica in tema di errore su legge extrapenale, e cioè nei casi in cui le norme tributarie vengono a partecipare della natura di legge penale, in quanto integrative del precetto sanzionato. Ergo, una “regola di civiltà” volta ad ampliare gli spazi di rilevanza dell’errore di diritto e sul precetto già aperti dalla sentenza della Corte costituzionale sull’art. 5 del codice penale e che non dovrebbe offrire più il destro a letture abrogatrici giurisprudenziali».

[22] Va ricordato che ai fini dell’integrazione del reato di dichiarazione infedele, previsto dall’art. 4 d.lgs. 74 del 2000, la mancata conoscenza, da parte dell’operatore professionale, della norma tributaria posta alla base della violazione penale contestata, costituisce errore sul precetto che non esclude il dolo ai sensi dell’art. 5 cod. pen., salvo che sussista una obiettiva situazione di incertezza sulla portata applicativa o sul contenuto della norma fiscale extra-penale, tale da far ritenere l’ignoranza inevitabile (Sez. 7, n.44293 del 13/07/2017 – dep. 26/09/2017, Hu, Rv. 271487). La Cassazione ha avuto modo di precisare, proprio in materia tributaria, che il principio secondo il quale l’ignoranza, della legge penale scusa quando si versi in caso di ignoranza inevitabile, affermato dalla Corte costituzionale con sentenza 24 marzo 1988, n. 364, non può non valere – ed a maggior ragione – per ogni difficoltà interpretativa che si presenti per il “comune cittadino” come “inevitabile” (Sez. 3, n. 14657 del 24/09/1990 – dep. 08/11/1990, Monti, Rv. 185695). Il che comporta, per l’operatore professionale, l’inoperatività dell’errore scusabile, tanto di diritto quanto di fatto, quando lo stesso cada non solo sulla norma extra-penale integratrice del precetto penale, ma anche sulla norma tributaria non predisposta ai fini della definizione dei reati e quindi non integrante la norma penale (Cass., Sez. 3, n.  23810/19).

[23] Art. 3-bis (Rateazione delle somme dovute) d.lgs. n. 462/1007 «1. Le somme dovute ai sensi dell’articolo 2, comma 2 (a seguito dei controlli automatici ovvero dei controlli eseguiti dagli uffici, effettuati ai sensi degli articoli 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e 54-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1972, n. 633), e dell’articolo 3, comma 1 (a seguito dei controlli formali effettuati ai sensi dell’articolo 36-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600), possono essere versate in un numero massimo di venti rate trimestrali di pari importo.  2. L’importo della prima rata deve essere versato entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. Sull’importo delle rate successive sono dovuti gli interessi, calcolati dal primo giorno del secondo mese successivo a quello di elaborazione della comunicazione. Le rate trimestrali nelle quali il pagamento è dilazionato scadono l’ultimo giorno di ciascun trimestre. 3. In caso di inadempimento nei pagamenti rateali si applicano le disposizioni di cui all’articolo 15-ter del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602. 4. Le disposizioni di cui ai commi 1, 2 e 3 si applicano anche alle somme da versare a seguito del ricevimento della comunicazione prevista dall’articolo 1, comma 412, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, relativamente ai redditi soggetti a tassazione separata».

[24] Art. 15-ter (Inadempimenti nei pagamenti delle somme dovute a seguito dell’attività di controllo dell’Agenzia delle entrate): «1. In caso di rateazione ai sensi dell’articolo 3-bis del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 462, il mancato pagamento della prima rata entro il termine di trenta giorni dal ricevimento della comunicazione, ovvero di una delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, comporta la decadenza dal beneficio della rateazione e l’iscrizione a ruolo dei residui importi dovuti a titolo di imposta, interessi e sanzioni in misura piena. 2. In caso di rateazione ai sensi dell’articolo 8 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, il mancato pagamento di una delle rate diverse dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva comporta la decadenza dal beneficio della rateazione e l’iscrizione a ruolo dei residui importi dovuti a titolo di imposta, interessi e sanzioni, nonché della sanzione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, aumentata della metà e applicata sul residuo importo dovuto a titolo di imposta. 3. E’ esclusa la decadenza in caso di lieve inadempimento dovuto a: a) insufficiente versamento della rata, per una frazione non superiore al 3 per cento e, in ogni caso, a diecimila euro;  b) tardivo versamento della prima rata, non superiore a sette giorni.  4. La disposizione di cui al comma 3 si applica anche con riguardo a: a) versamento in unica soluzione delle somme dovute ai sensi dell’articolo 2, comma 2, e dell’articolo 3, comma 1, del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 462;  b) versamento in unica soluzione o della prima rata delle somme dovute ai sensi dell’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218.  5. Nei casi previsti dal comma 3, nonché in caso di tardivo pagamento di una rata diversa dalla prima entro il termine di pagamento della rata successiva, si procede all’iscrizione a ruolo dell’eventuale frazione non pagata, della sanzione di cui all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 471, commisurata all’importo non pagato o pagato in ritardo, e dei relativi interessi. 6. L’iscrizione a ruolo di cui al comma 5 non è eseguita se il contribuente si avvale del ravvedimento di cui  all’articolo 13 del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, entro il termine di pagamento della rata successiva ovvero, in caso di ultima rata o di versamento in unica soluzione, entro 90 giorni dalla scadenza».

[25]  Altre ipotesi cui non si applicava la causa di non punibilità erano l’occultamento e la distruzione delle scritture e documenti contabili e tutte le altre ipotesi di falso e frode fiscale.

[26] Cass. Sez. 3, n. 51038/2018,  Rv. 274094;   all’indomani della riforma dei reati tributari la S.C. ha affermato che tra la contravvenzione di omessa presentazione delle dichiarazioni ai fini delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, già prevista dall’art. 1, comma 1, d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito con L. 7 agosto 1982, n. 516, ed il delitto di omessa dichiarazione, introdotto dall’art. 5 d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non sussiste, stante la disomogeneità strutturale fra le due fattispecie, alcuna continuità di illecito (Cass. Sez. U, n. 35/2001, Sagone, Rv. 217374). Che l’accertamento con adesione non spieghi alcun effetto penalmente rilevante, del resto, risulta con evidenza dalla disciplina tributaria delineata nel d.lgs. 74 del 2000, sia prima, sia dopo le modifiche ad essa apportare dal d.lgs. 24 settembre 2015, n. 158.

[27] Per un commento sull’istituto cfr.  Manoni, Riparazione dell’offesa: non si estende ai compartecipi e non giustifica la confisca per equivalente, inFisco, 2021, 39, 3750 ss.

[28] Cass. Sez. 3, n. 11352 del 10/02/2015, Murari, Rv. 262784; Id., n. 37748 del 16/07/2014, Di Febo, Rv. 260189; Id., n. 26464 del 19/02/2014, Manzoni, Rv. 259299, che ha ritenuto irrilevante l’avvenuta sottoscrizione del verbale di adesione e la stipulazione di una fideiussione bancaria a favore dell’Amministrazione finanziaria.

[29] Cass., Sez. 3,  n. 48375/2018, Rv. 274701, est. Gai, P.M. Canevelli (Diff.).

[30] Cass. Sez. 3, n. 32598 del 16/05/2014, PG in proc. Guercio, non mass.

[31] Altro orientamento esclude il carattere novativo dell’accordo Cass. Sez. 5, n. 13244/2015; id. n. 23051/2015.

[32]  Su questa linea cfr. Cass. Sez. 3, n. 16472 del 28/02/2020, Rv. 279012; id. n. 48375 del 13/07/2018, Rv. 274701; Cass., III, n 10730/2023 per le quali  in tema di reati tributari, l’accordo tra il contribuente e l’Amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito, quantunque comporti la rimodulazione della sua scadenza, che viene scansionata nel tempo in corrispondenza ai termini delle singole rate, non esclude che, al verificarsi di detta scadenza senza la soddisfazione totale del debito, il reato resti comunque configurabile, in quanto la previsione di una causa sopravvenuta di non punibilità del fatto lascia immutata l’illiceità della condotta, che non può ritenersi scriminata ai sensi dell’art. 51 cod. pen. né ai sensi dell’art. 59, comma quarto, cod. pen., per cui l’effetto novativo dell’obbligazione che deriva dall’accordo tra il contribuente e l’Amministrazione rimane circoscritto all’ambito tributario, non producendo conseguenze sul piano penale.

[33] Cass.,  Sez. 3 , n. 50157/2018, Rv. 275439, est. Gai, P.M. Filippi (Diff.);  Conf. Cass-. Sez. 3, n. 28710 del 19/04/2017, P.G. in proc. Mantellini, Rv. 270476; Id., n. 15899 del 02/03/2016, Colletta, Rv. 266817; Id., n. 38684 del 04/06/2014, Agresti, Rv. 260389; Id., n. 37335 del 15/07/2014, Buonocore, Rv. 260188; id., n. 36396 del 18/05/2011, Mariutti, Rv. 251280; Id. n. 5490 del 26/11/2008, Crupano, Rv. 243089.

[34] Cass.,  Sez. 3, n. 29091/2019,  Rv. 276756 – 03, est. Di Nicola, P.M. Seccia (Parz. Diff.).

[35] Cass., Sez. 3, n. 38684 del 04/06/2014, Agresti, Rv. 260389.

[36] Cass., Sez. 3, n. 5640/2012, Manco, Rv. 251892.

[37] Di Vizio, Nuovi statuti della premialità tributaria ai tempi della amministrativizzazione del diritto penale, in https://www.dirittogiustiziaecostituzione.it/ 3 aprile 2023.

[38] Cass. Sez. 3 ,  n. 16472 del 28/02/2020 Ud.  (dep. 29/05/2020 ) Rv. 279012 – 02, est. Scarcella, P.M. Spinaci (parz. Diff): la pronuncia si confronta con l’art. 3bis D.Lgs.. n. 462/1997 che  prevede la possibilità per il contribuente, successivamente al ricevimento della comunicazione di cui all’art. 36bis D.P.R. 600/73 e all’art. 54bis D.P.R. 633/72, di procedere al pagamento dell’imposta non precedentemente versata mediante un determinato numero massimo di rate trimestrali, a seconda dell’importo (dal 22.10.2015, 8 o 20 rate qualora la somma superi i 5.000 euro). Tale facoltà viene pertanto esercitata successivamente ai controlli operati dall’Amministrazione finanziaria e, dunque, in un momento successivo all’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto»;  in motiv.: «Il ricorrente ha invocato l’art. 51 c.p., asserendo l’esistenza di una contraddizione interna all’ordinamento giuridico ove, in estrema sintesi, se da un lato concede al contribuente la possibilità di estinguere il debito tributario mediante rateizzazione successivamente all’omissione del versamento, dall’altro non esclude la rilevanza penale di tale ultima condotta nonostante l’impegno assunto. Subordinatamente, il ricorrente sostiene l’applicabilità del comma quarto dell’art. 59 c.p. in quanto la richiesta del pagamento rateale, e la sua concessione da parte dell’Amministrazione competente, sarebbe idonea ad ingenerare nel contribuente la convinzione, seppure errata, di esercitare una facoltà lecita, immune pertanto da possibili sanzioni penali. La Corte ha notato in senso contrario:  in tema di omesso versamento dell’IVA, infatti, l’accordo fra il contribuente e l’amministrazione finanziaria per la rateizzazione del debito, anche ove precedente alla scadenza del termine entro il quale l’adempimento dovrebbe essere effettuato, quantunque comporti la rimodulazione della scadenza del debito la quale viene scansionata nel tempo in corrispondenza ai termini delle singole rate, non esclude che, una volta verificatasi detta scadenza senza la soddisfazione totale del debito tributario, il reato resti comunque configurabile, e ciò indipendentemente dalla riconoscibilità o meno di un’efficacia novativa all’accordo medesimo».

[39] In motivazione, la Corte ha precisato che l’effetto novativo dell’obbligazione che deriva dall’accordo tra il contribuente e l’amministrazione rimane circoscritto all’ambito tributario, non producendo conseguenze sul piano penale.

[40] La S.C. ha evidenziato, infatti, che, a seguito della riforma legislativa del 2015, quanto costituiva una circostanza attenuante è stato elevato a causa di non punibilità del reato, la quale tuttavia non incide sulla struttura della fattispecie incriminatrice né sulla illiceità della condotta tipica, rappresentando piuttosto una causa sopravvenuta in ragione della quale – sulla base di valutazioni di opportunità di politica legislativa – un reato già consumato non viene punito. In altri termini, la previsione della non punibilità del fatto lascia immutata l’illiceità della condotta, di talché non può sostenersi l’assenza di una lesione del bene giuridico, né potrebbe ritenersi scriminata la condotta ai sensi dell’art. 51 c.p.

[41]  Così il documento elaborato dall’Unione Nazionale delle Camere degli avvocati tributaristi in sede di audizioni parlamentari  rispetto all’atto A.G. 144.

[42] Si ricorda che ai sensi dell’art. 131-bis c.p., primo comma, nei reati per i quali è prevista la pena detentiva non superiore nel minimo a due anni, ovvero la pena pecuniaria, sola o congiunta alla predetta pena, la punibilità è esclusa quando, per le modalità della condotta e per l’esiguità del danno o del pericolo anche in considerazione della condotta susseguente al reato, l’offesa è di particolare tenuità e il comportamento risulta non abituale.

[43] L’art. 13-bis del d. lgs. 74/2000 nel testo attualmente vigente prevede, al comma 1, una circostanza attenuante a effetto speciale, per cui le pene per i delitti di cui al medesimo d. lgs. sono diminuite fino alla metà e non si applicano le pene accessorie indicate nell’articolo 12 se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, i debiti tributari, compresivi di sanzioni amministrative e interessi, sono stati integralmente estinti, anche a seguito delle speciali procedure conciliative e di adesione all’accertamento previste dalle norme tributarie. Il comma 2 limita per i medesimi delitti la possibilità di ricorrere all’applicazione della pena su richiesta delle parti ex art. 444 c.p.p. (cd. “patteggiamento” ai soli casi in cui ricorra la predetta attenuante o il ravvedimento operoso.

[44] Cass., Sez.3, n. 36471/2018,  Rv. 272073 – 01, est.  Aceto,  P.M. Corasaniti Diff.

[45] Cass. Sez. 3, n. 28488 del 2020, est. Andronio, in motivazione.

[46] Nello stesso senso cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 8784 del 29/11/2019 Ud.  (dep. 04/03/2020 ),  est. Scarcella, in motiv: «questa stessa Sezione ha affermato che, in tema di reato di omesso versamento dell’IVA, la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità del debitore alla scadenza del termine fissato per il pagamento, a meno che non venga dimostrato che siano state adottate tutte le iniziative per provvedere alla corresponsione del tributo e, nel caso in cui l’omesso versamento dipenda dal mancato incasso dell’IVA per altrui inadempimento, non siano provati i motivi che hanno determinato l’emissione della fattura antecedentemente alla ricezione del corrispettivo (Sez. 3, n.  23796 del 21/03/2019 – dep. 29/05/2019, Minardi, Rv. 275967). Infine, è costante la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare che, in materia tributaria, la colpevolezza del contribuente non è esclusa dalla crisi di liquidità intervenuta al momento della scadenza del termine per il versamento (27 dicembre del successivo periodo di imposta), a meno che l’imputato non dimostri che le difficoltà finanziarie non siano a lui imputabili e che le stesse, inoltre, non possano essere altrimenti fronteggiate con idonee misure anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale (v., ad esempio, in tema di violazione dell’art. 10- bis, d.lgs. n. 4 del 2000: Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013 – dep. 04/02/2014, Mercutello, Rv. 258055)»; Sez. 3, n. 13610/2019, est. Scarcella,  in motiv., sulla crisi di liquidità: «è utile richiamare la giurisprudenza di questa Sezione secondo cui in tema di omesso versamento delle ritenute fiscali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, la situazione di difficoltà finanziaria dell’impresa non esclude la responsabilità per il reato previsto dall’art. 10-bis del D. Lgs. n. 74 del 2000 (Sez. 3, n. 3124 del 27/11/2013 – dep. 23/01/2014, Murari, Rv. 258842). Ciò, come è noto, deriva dall’assoluta irrilevanza del fine concretamente perseguito dal soggetto agente: infatti se il legislatore avesse previsto come elemento soggettivo il dolo specifico avrebbe delimitato l’area dei soggetti punibili ed, in particolare, avrebbe escluso il reato in quei casi in cui il sostituto d’imposta non possa effettuare il versamento delle ritenute perché costretto a fronteggiare una crisi di liquidità. E’ ben nota al Collegio l’esistenza di un orientamento contrario, secondo il quale in alcuni la crisi di liquidità integrerebbe un’ipotesi di forza maggiore, tale da escludere il reato in esame. Tuttavia, come già chiarito nel caso in esame dai giudici di merito, è necessario che il ricorrente assolva alcuni oneri di allegazione che riguardano sia il fatto che la crisi economica non sia a lui imputabile, sia che essa non possa essere fronteggiata tramite il ricorso, da parte dell’imprenditore, ad idonee misure da valutarsi in concreto. In altre parole occorre, cioè, la prova che non sia stato altrimenti possibile per il contribuente reperire le risorse necessarie a consentirgli il corretto e puntuale adempimento delle obbligazioni tributarie, pur avendo posto in essere tutte le possibili azioni, anche sfavorevoli per il suo patrimonio personale, dirette a consentirgli di recuperare, in presenza di una improvvisa crisi di liquidità, quelle somme necessarie ad assolvere il debito erariale, senza esservi riuscito per cause indipendenti dalla sua volontà e ad egli non imputabili (Sez. 3, n. 5467/2014, Mercutello, Rv. 58055)»; Sez. 3, Sentenza n. 58442 del 02/10/2018 Ud.  (dep. 28/12/2018 ), est Gentili,  in motiv.: «Nei reati di omesso versamento di ritenute certificate, previsto dall’art. 10-bis del dlgs n. 74 del 2000, l’imputato può invocare la assoluta impossibilità di adempiere il debito di imposta, quale causa di esclusione della responsabilità penale, solo in quanto egli abbia provveduto ad assolvere gli oneri di allegazione concernenti sia il  profilo della non imputabilità a lui medesimo della crisi economica che ha investito l’impresa da lui condotta (dovendosi al riguardo confermare che l’inadempimento della obbligazione tributaria può essere attribuito a forza maggiore, e quindi tale da costituire elemento scriminante rispetto alla responsabilità del soggetto astretto dal dovere nascente dalla obbligazione in questione, solo quando esso derivi da fatti non imputabili all’imprenditore cui egli non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico: Corte di cassazione, Sezione III penale, 22 febbraio 2015, n. 8352), sia l’aspetto della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità tramite il ricorso a misure idonee la cui valutazione è da operarsi in concreto secondo il singolo atteggiarsi della fattispecie (Corte di cassazione, Sezione III penale, 15 maggio 2014, n. 20266). [….]la fattispecie contestata al prevenuto, si tratta infatti della violazione dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 74 del 2000, si caratterizza, rispetto ad altre ipotesi di omissioni tributarie, in quanto essa si realizza a causa del fatto che il sostituto di imposta sia venuto meno all’obbligo di accantonare la provvista necessaria per l’adempimento della obbligazione tributaria, formalmente gravante sul sostituito. Osserva il Collegio sul punto che tale operazione di “messa in riserva“, in un’ottica di doverosa gestione prudenziale delle risorse finanziarie, sarebbe da eseguirsi da parte del sostituto ogni qual volta egli abbia effettuato le erogazioni oggetto di tassazione in favore del sostituito; la circostanza che invece, onde fare fronte ad altri impegni, il sostituto abbia, anche solo temporaneamente, diversamente utilizzato tali risorse, nella convinzione di potere, al momento della scadenze delle obbligazioni tributarie su di lui gravanti, “ricoprire” le “scoperture” finanziarie in tal modo determinatesi, seppure possa andare ascritto ad una sua legittima opzione in relazione alla organizzazione finanziaria dell’impresa, comporta che egli debba assumersi l’onere, anche in termini di rilevanza penale delle eventuali conseguenze, degli eventuali rischi ad essa connessi».

[47] CassSez. 3, Sentenza n. 6506 del 24/09/2019 Ud., dep. 19/02/2020, Rv. 278909 – 01, est. Gentili.

[48] Massime precedenti Conformi: n. 6220 del 2018 Rv. 272069 – 01, est. Scarcella;   n. 19099 del 2013 Rv. 255327 – 01. Cass. Sez. 3, n. 41070 del 27/06/2019 Ud.  (dep. 07/10/2019 ) Rv. 277939 – 01, est. Di Stasi, P.M. Lignola (parz. Diff.):  «In tema di reato di omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto di cui all’art. 10-ter d.lgs. 20 marzo 2000, n. 74, l’emissione della fattura, se antecedente al pagamento del corrispettivo delle prestazioni effettuate, espone il contribuente, per sua scelta, all’obbligo di versare comunque la relativa imposta, poiché l’obbligo di indicazione nella dichiarazione e di versamento della relativa imposta non deriva dall’effettiva riscossione di tale corrispettivo». Massime precedenti Conformi: n. 38594 del 2018 Rv. 273958 – 01.

[49] Cass.,   Sez. 3, Sentenza n. 29873 del 01/12/2017 Cc.  (dep. 03/07/2018) Rv. 273690 – 01, est. Galterio.

[50] Cfr. Tomasinelli, Omesso versamento delle ritenute fiscali e crisi di liquidità dell’imprenditore. La Cassazione alle prese con un’omissione necessitata, tra mancanza di dolo e causa di forza maggiore, in Giurisprudenza Penale Web, n. 4/2018; Cuomo, Omesso versamento di imposte e crisi di liquidità dell’imprenditore, in Gazzetta Forense.it, maggio-giugno 2014.

[51] Cfr. Trib. Bergamo, 2 ottobre 2017 (ud. 7 luglio 2017), n. 1907, con nota critica di Biligotti, Crisi di liquidità e omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto ex art. 10-ter D.Lgs. 74/2000: le molteplici declinazioni di un’esimente, in Giurisprudenza Penale Web, n. 3/2018.

[52] Cfr. Bellagamba, Ai confini dello stato di necessità, in Cass. Pen., 2000, pag. 1832 ss.; ex pluribus, Ufficio Indagini preliminari Firenze, 27 luglio 2012, in Riv. dott. comm., n. 4/2013, pag. 978, secondo cui il dolo richiesto dall’art. 10-ter deve escludersi quando, a causa della crisi di liquidità in cui l’imputato si sia trovato, anche in conseguenza di condotte inadempienti di soggetti terzi, non si possa rinvenire la volontarietà della condotta omissiva.

[53] Cfr. Romoli, Omesso versamento di IVA e crisi di liquidità, in www.archiviopenale.it.; Loconte, Crisi di liquidità e reati di omesso versamento di ritenute certificate e iva, inFisco, 2022, 16, 1546.

[54] Cass., Sez. 3, n. 40774/2015, rv. 265079 ha escluso l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. per insussistenza dei presupposti sul piano oggettivo con riferimento ad un omesso versamento pari a poco più di 112.000 euro, a fronte della soglia di punibilità fissata in euro 103,291,30; Cass. Sez.3, n. 12906/2019, rv. 276546 ha ritenuto, in assenza di ulteriori elementi ostativi, l’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. stante l’omissione eccedente la soglia di punibilità per un ammontare inferiore ad euro 10.000 e pari al 4% circa dell’importo della soglia stessa; Cass. Sez. 3, n. 16599/2020, rv. 278946 ha escluso la causa di non punibilità con riferimento ad una evasione di imposta eccedente la soglia di legge per un ammontare di euro 5.825,21, superiore all’11% dell’importo della soglia stessa; Cass. Sez. 3, n. 13218/2016, rv. 266570 ha ritenuto non particolarmente tenue, sul piano oggettivo, l’omesso versamento di 270.703 euro; Cass., Sez. 3, n. 58442/2018, rv. 275458 ha precisato che, nel caso di reati tributari, l’applicazione della causa di non punibilità deve essere valutata non in rapporto all’intero ammontare dell’imposta evasa, ma con riferimento alla sola eccedenza dello stesso rispetto alla soglia di legge.

[55] Art. 23. Causa speciale di non punibilità dei reati tributari (In vigore dal 31 marzo 2023: « 1. I reati di cui agli articoli 10-bis, 10-ter e 10-quater, comma 1, del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, non sono punibili quando le relative violazioni sono correttamente definite e le somme dovute sono versate integralmente dal contribuente secondo le modalità e nei termini previsti dall’articolo 1, commi da 153 a 158 e da 166 a 252, della legge 29 dicembre 2022, n. 197, purché le relative procedure siano definite prima della pronuncia della sentenza di appello. 2. Il contribuente dà immediata comunicazione, all’Autorità giudiziaria che procede, dell’avvenuto versamento delle somme dovute o, in caso di pagamento rateale, del versamento della prima rata e, contestualmente, informa l’Agenzia delle entrate dell’invio della predetta comunicazione, indicando i riferimenti del relativo procedimento penale. 3. Il processo di merito è sospeso dalla ricezione delle comunicazioni di cui al comma 2, sino al momento in cui il giudice è informato dall’Agenzia delle entrate della corretta definizione della procedura e dell’integrale versamento delle somme dovute ovvero della mancata definizione della procedura o della decadenza del contribuente dal beneficio della rateazione. 4. Durante il periodo di cui al comma 3 possono essere assunte le prove nei casi previsti dall’articolo 392 del codice di procedura penale».

[56] Cavallini, La non punibilità nel prisma del diritto penale tributario: coerenza o lassismo di sistema? In Diritto penale contemporaneo, Rivista trimestrale, 3/2020, 271.

[57] In sintesi, il ravvedimento speciale delle violazioni tributarie (di cui ai sopracitati commi da 174 a 178) consente – in deroga all’ordinaria disciplina del ravvedimento operoso – di regolarizzare le dichiarazioni relative al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2021 e a quelli precedenti, purché le relative violazioni non siano state già contestate alla data del versamento del dovuto (in unica soluzione o alla prima rata) mediante la rimozione dell’irregolarità o dell’omissione e il pagamento dell’imposta, degli interessi e delle sanzioni, queste ultime ridotte a un diciottesimo del minimo edittale irrogabile. Gli effetti della regolarizzazione sono circoscritti alle sole dichiarazioni validamente presentate. Con il decreto-legge n. 215 del 2023 la possibilità di usufruire del cosiddetto ravvedimento speciale (disciplinato dalla legge di bilancio 2023) è stata prevista anche per le violazioni riguardanti le dichiarazioni validamente presentate relative al periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2022.

[58] Cfr. Cass, Sez. 3,   n. 28488/2020,  Rv. 280014 – 01; Cass. SU, n. 36959/2021,  Rv. 281848 – 01.

[59] Tra le fonti che mirano a garantire un approccio comune alla confisca nell’UE si considerino le decisioni quadro sul congelamento e la confisca dei proventi (2001, 2005),  sull’applicazione del principio del reciproco riconoscimento delle decisioni di confisca,  sul congelamento e la confisca dei proventi di reato (2003); cfr.,  ancora, la decisione del Consiglio sugli uffici per il recupero dei beni  e la direttiva (2014)  per i facilitare agli Stati membri dell’UE la confisca dei proventi di attività criminali organizzate e pericolose, sino al regolamento del 2018 per il riconoscimento reciproco dei provvedimenti di congelamento e di confisca.

Scarica il pdf

Condividi