1. Il mandato di arresto.

La Seconda Camera Preliminare della Corte Penale Internazionale, con un collegio composto da tre giudici, ha reso pubblica, il 17 marzo 2023, l’adozione di un ordine di arresto del Presidente della Federazione Russa, Vladimir Vladimirovich Putin, e del Commissario per i Diritti dell’Infanzia nel gabinetto del presidente, Maria Alekseyevna Lvova-Belova. Su richiesta del Procuratore, trasmessa alla Camera il 22 febbraio 2023, i tre giudici hanno deliberato l’arresto dei due indagati, riscontrando gravi indizi di colpevolezza (letteralmente ‘elementi ragionevoli per ritenere colpevoli i soggetti destinatari del mandato’) in ordine a due fattispecie di reato previste dallo Statuto della Corte Penale Internazionale. Trattasi dei crimini di guerra previsti dall’art. 8 comma 2 lettera A numero VII ed all’art. 8 comma 2 lettera B numero VIII dello Statuto, segnatamente ‘la illecita deportazione o l’illecito trasferimento, quale grave violazione delle Convenzioni di Ginevra sul diritto internazionale umanitario del 12 agosto 1949’ ed ‘il trasferimento o la deportazione, diretti o indiretti, da parte della Potenza Occupante, di parte della popolazione civile all’interno o all’esterno dei confini del territorio occupato, quale seria violazione delle leggi e degli usi applicabili in un conflitto armato internazionale, diversi dalle prescrizioni delle Convenzioni di Ginevra’. Il testo del mandato di arresto non è stato pubblicizzato per ragioni di tutela delle fonti investigative, in primo luogo delle vittime e dei testimoni. Soltanto il dato della adozione del provvedimento è stato reso noto, allo scopo esplicito di impedire la consumazione di nuovi fatti di deportazione o trasferimento illegali di popolazione civile, ed in particolare di bambini ucraini nel contesto del conflitto in corso dal 24 febbraio 2022.

Sebbene dunque allo stato non si conosca il testo del mandato, è possibile, dalle prime notizie rese pubbliche dalla Corte, svolgere alcune preliminari osservazioni. In primo luogo, dalla citazione delle due norme incriminatrici sopra richiamate, pare evidente che la Corte abbia qualificato il conflitto tra Russia ed Ucraina come un conflitto di carattere ‘internazionale’ al quale sono applicabili sia le gravi violazioni delle Convenzioni di Ginevra, costituenti crimini di guerra ai sensi del comma 2 lettera A dell’art. 8 dello Statuto, sia le altre serie violazioni delle leggi ed usi di guerra non previste dalle Convenzioni di Ginevra del 1949 ma comunque applicabili proprio nei conflitti armati internazionali, costituenti altresì crimini di guerra ai sensi del comma 2 lettera B dell’art. 8 dello Statuto. In secondo luogo, il collegio giudicante ha inquadrato la Federazione Russa come ‘Potenza Occupante’ ed il territorio ucraino dal quale sarebbe stata deportata o trasferita popolazione civile (in particolar modo, bambini) come ‘territorio occupato’, proprio ai sensi dell’art. 8 comma 2 lettera B numero VIII dello Statuto. La differenza tra i termini ‘trasferimento’ e ‘deportazione’ sta unicamente nel luogo di destinazione degli individui oggetto di spostamento coatto: nel primo caso trattasi di vittime dislocate all’interno dei confini del territorio occupato, ovviamente in località diversa da quella ove esse legittimamente vivono, nel secondo caso si fa riferimento ad un prelievo forzoso con traslocazione in ambito geografico situato all’esterno dei confini del territorio occupato. Non è poi necessario l’uso della forza, essendo sufficiente anche la coazione psicologica, posta in essere mediante minaccia da parte delle forze del potere occupante. Il capo di Stato russo ed il Commissario per i diritti del bambino del suo gabinetto sono dunque accusati (e con elementi di prova tali da aver indotto il collegio della camera preliminare a spiccare un mandato di arresto) di aver deliberato l’espulsione di bambini dal territorio ucraino dove legalmente risiedevano per esser condotti in altro luogo del medesimo Stato (presumibilmente le regioni attualmente sotto il controllo delle forze armate russe) ovvero nella stessa Russia.

Interessanti sono anche i criteri di imputazione soggettiva sulla scorta dei quali è stata fondata la (presunta) responsabilità, naturalmente ai fini della adozione del mandato, per i gravi crimini di guerra contestata. Per entrambi gli indagati si discorre di fattispecie commesse ‘personalmente, insieme con altri ovvero attraverso altri’. Trattasi delle tre forme di imputabilità previste dall’art. 25 comma 3 lett. A dello Statuto di Roma, che non conosce l’istituto del concorso di persone nel reato ma esclusivamente ipotesi di plurisoggettività diversificata, sulla scorta del modello tedesco (in punto soprattutto di ‘autoria mediata’). Soltanto per Vladimir Vladimirovic Putin, inoltre, viene riconosciuta una diversa forma di imputazione personale del crimine: la responsabilità c.d. ‘da comando’ o ‘del superiore’. Quello descritto all’art. 28 (B) dello Statuto della Corte Penale Internazionale è un modello di ascrizione para-colposo, atteso che, nel caso di specie, punisce il superiore (anche in ambito gerarchico non militare) che ‘abbia fallito nell’esercizio dell’idoneo controllo sui subordinati (civili o militari), i quali ultimi hanno consumato i crimini direttamente, ovvero abbia autorizzato la relativa consumazione, purché egli avesse effettiva autorità e possibilità di supervisione’.

Dinanzi alla Corte Penale Internazionale non vale alcun principio di immunità per i capi di stato o di governo, come prescritto all’art. 27 dello Statuto di Roma. Questa è la ragione normativa in base alla quale è stato possibile spiccare un mandato di arresto oggi contro il presidente della Federazione Russa, ieri contro il presidente del Sudan o contro quello della Costa D’Avorio ovvero ancora contro quello libico. Naturalmente la Corte non possiede però una forza di polizia propria che può essere incaricata di eseguire coattivamente il mandato, ma deve contare sulla cooperazione degli Stati Parte (che sono vincolati da un positivo obbligo di collaborazione ex art. 86 dello Statuto) ovvero di quelli che hanno comunque accettato la sua giurisdizione. In molti Stati che sono parte del sistema fondativo della Corte si discute però oggi se il vincolo di cooperazione (e dunque l’obbligo di eseguire i provvedimenti giurisdizionali) prevalga sul criterio di immunità per i capi di stato e di governo come fissato nella Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961. In altre parole, ci si pone il dubbio su quale sia la norma pattizia internazionale prevalente tra quella che impone un arresto (e la successiva consegna alle carceri dell’Aja) deliberato dai giudici della Corte e quella che invece garantisce un sostanziale ‘lasciapassare’ ai vertici politici degli Stati. Il tema è, sotto il profilo concreto, tanto più spinoso in quanto, come già accaduto per il presidente del Sudan (sul quale pure pende un mandato di arresto da parte della Corte), l’indagato Vladimir Putin si troverà nel prossimo futuro a doversi recare in visita presso Paesi che sicuramente fanno parte del sistema della Corte e, teoricamente, in quell’ambito, dovrebbe esser fermato dalle autorità interne ospitanti ed estradato all’Aja. Sul punto, in verità, si è già pronunciata, con la sentenza del 14 febbraio 2002, la Corte Internazionale di Giustizia nel caso che vedeva quali parti contrapposte il Belgio e la Repubblica Democratica del Congo. Il cosiddetto ‘caso del mandato di arresto’ concerneva i profili di legittimità internazionale dell’operato di un giudice (quello belga) che aveva chiesto l’arresto del ministro degli esteri congolesi, accusato di gravi violazioni della Convenzione di Ginevra. Ebbene, la Corte, in quella sede, ha stabilito che, sebbene i capi di stato e di governo (in uno ai ministri) godano di piena immunità e di inviolabilità dinanzi alle giurisdizioni straniere, questi possano comunque esser perseguiti dinanzi a determinati ‘tribunali penali internazionali’ (quali il Tribunale per l’ex Jugoslavia o per il Rwanda, prima, e la Corte Penale Internazionale oggi).  

2. L’antefatto.

Il Procuratore della Corte Penale Internazionale aveva comunicato, il 2 marzo 2022, di aver aperto un’indagine per l’ipotesi di crimini internazionali consumati sul territorio ucraino a partire dal 21 novembre 2013.

E’ da precisare che né la Federazione Russa né la Repubblica d’Ucraina sono Stati Parte dello Statuto della Corte Penale Internazionale: non hanno cioè ratificato il trattato internazionale, siglato a Roma nel 1998, che ha dato vita alla prima forma di giurisdizione penale internazionale a vocazione universale.

Prima del cosiddetto ‘Statuto di Roma’, e dopo l’esperienza del Tribunale di Norimberga e di quello di Tokyo, le Nazioni Unite avevano istituito, con due distinte risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, due Tribunali ad hoc, vale a dire destinati ad investigare e processare i crimini di genocidio, i crimini contro l’umanità ed i crimini di guerra commessi nei territori dell’ex Jugoslavia e del Rwanda in un lasso temporale circoscritto (dall’1 gennaio 1991 il primo e tra l’1 gennaio 1994 ed il 31 dicembre dello stesso anno il secondo). Viceversa, con la firma dello Statuto della Corte Penale Internazionale, un gruppo di Stati, senza l’egida del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ha deciso di attribuire una giurisdizione penale internazionale, avente natura complementare rispetto a quella interna, in favore di una Corte unica, con sede all’Aja in Olanda, per crimini di genocidio, contro l’umanità e di guerra consumati, a decorrere dall’1 luglio 2002, nel territorio degli stessi Stati Parte del trattato ovvero, anche sul suolo di Paesi diversi, purché commessi da soggetti aventi la nazionalità degli Stati che hanno ratificato l’accordo di Roma. Come è intuibile, dunque, la Corte Penale Internazionale non giudica atti penalmente rilevante inerenti situazioni di conflitto interno o internazionale occasionatesi in periodi e luoghi ben circoscritti, come avvenuto per l’ex Jugoslavia ed il Rwanda. Può processare individui resisi responsabili delle condotte più atroci, sotto il profilo del diritto penale internazionale, all’unica condizione che si tratti di cittadini degli Stati Parte dello Statuto fondativo della Corte ovvero di fatti posti in essere sul suolo dei Paesi che hanno firmato e ratificato il medesimo Statuto. Purtroppo, proprio la circostanza che lo Statuto di Roma sia stato siglato sulla scorta del consenso di un gruppo di Paesi ‘volenterosi’, nella classica veste di un trattato internazionale fondato sul consenso, e senza l’ombrello vincolante del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (come invece avvenuto per i Tribunali ad hoc prima menzionati), non ha consentito sinora all’Ufficio del Procuratore ed ai giudici della Corte di occuparsi di crimini commessi al di fuori dei perimetri geografici o di nazionalità dei presunti autori già descritti. Attualmente sono 123 gli Stati Parte dello Statuto della Corte Penale Internazionale: ancora non hanno proceduto alla ratifica numerose Nazioni, dal preminente rilievo geopolitico, quali gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’India, Israele, l’Arabia Saudita.

3. L’attivazione della giurisdizione della Corte nella situazione ucraina. Un parallelismo con il caso palestinese

E’ bene allora comprendere, sulla scorta di queste premesse, come abbia potuto prima l’Ufficio del Procuratore della Corte Penale Internazionale aprire una indagine in ordine a quanto accaduto sul territorio ucraino a partire dal novembre 2013 e sino ad oggi, e una Camera Preliminare poi deliberare l’arresto di due indagati. Esiste in realtà una clausola eccezionale nello Statuto di Roma che consente di superare i richiamati criteri di giurisdizione ratione loci o ratione personarum. L’art. 12 comma 3 dello Statuto, in particolare, prevede che anche uno Stato che non sia Parte del sistema inaugurato a Roma nel 1998 abbia titolo a richiedere alla Corte di investigare (ed eventualmente giudicare) crimini internazionali commessi sul proprio suolo, sulla scorta di una dichiarazione ad hoc inoltrata alla Cancelleria della Corte, e senza una formale ratifica dello Statuto. Questa eccezionale ‘accettazione della giurisdizione della Corte’ permette all’Ufficio del Procuratore di imbastire una preliminare inchiesta e, qualora ritenga fondata l’opportunità di investigare su concrete ipotesi di reato, di richiedere ad una Camera Giudicante Preliminare l’autorizzazione per iniziare una autentica indagine.

E’ esattamente quanto accaduto per il caso ucraino: pur non essendo l’Ucraina Stato Parte dello Statuto della Corte Penale Internazionale, i vertici governativi interni hanno deciso, prima con i disordini del 2013 e poi con l’occupazione della Crimea da parte dell’esercito russo nel 2014, di inoltrare due formali dichiarazioni di accettazione della giurisdizione penale internazionale della Corte circa ipotesi di fattispecie criminali commesse a partire dal 21 novembre 2013 e da chiunque poste in essere (ivi compresi militari russi) nel proprio territorio.

Medesimo meccanismo di attivazione della giurisdizione della Corte era avvenuto per il caso della Palestina che, l’1 gennaio 2015, aveva dichiarato di accettare le regole statutarie, col classico meccanismo eccezionale e ad hoc dell’art. 12 comma 3, chiedendo all’Ufficio del Procuratore di aprire una preliminare inchiesta circa fattispecie criminali asseritamente consumate a Gaza, nella Cisgiordania ed a Gerusalemme Est a decorrere dal 13 giugno 2014 (anche ad opera di soggetti stranieri, ed israeliani in particolar modo). In verità, le autorità palestinesi, il giorno successivo questa dichiarazione ad hoc, vale a dire il 2 gennaio 2015, decisero di ratificare lo Statuto della Corte e divenire, così, a tutti gli effetti, Stato Parte.

Gli Stati Parte hanno difatti una prerogativa più ampia rispetto a quella concessa a qualsiasi Paese ex art. 12 comma 3 dello Statuto. Essi possono denunziare al Procuratore la perpetrazione di atti criminali previsti nelle fattispecie statutarie poste in essere anche nel territorio (ovvero da soggetti aventi la nazionalità) di diversi Stati Parte, facoltà che invece non è concessa agli Stati non-Parte, i quali, come già precisato, possono soltanto accettare la giurisdizione della Corte su una limitata base ad hoc e per ipotesi che coinvolgano il proprio territorio.

Altra differenza che sussiste tra il caso della denunzia ad opera dello Stato Parte e quello della dichiarazione occasionale dello Stato Non-Parte risiede in un preciso vincolo statutario imposto, in questo secondo caso, sul Procuratore: egli è obbligato a richiedere ad una Camera Preliminare della Corte (composta da tre giudici) una formale autorizzazione per aprire una indagine. Al contrario, nel caso di esposto inoltrato da uno Stato Parte, la Procura può imbastire una vera e propria indagine senza l’onere di una autorizzazione giudiziaria preventiva.

Nel caso della Palestina, il problema è consistito piuttosto nello stabilire se si trattasse di un autentico Stato, secondo i crismi del diritto internazionale, in grado di accettare la giurisdizione della Corte e poi addirittura di divenire membro a tutti gli effetti dello Statuto di Roma. Sulla questione si è pronunziata, a maggioranza, la Prima Camera Preliminare che, il 5 febbraio 2021, ha ritenuto la sussistenza della natura di Stato in capo alla Autorità Nazionale Palestinese, seppur ai limitati fini di cui alla giurisdizione penale della Corte, così consentendo al Procuratore di aprire, il 3 marzo 2021, una formale indagine su quanto avvenuto a Gaza, in Cisgiordania ed a Gerusalemme Est a decorrere dal 13 giugno 2014.

L’Ucraina, al contrario della Palestina, non ha invece ancora ratificato lo Statuto e dunque non può considerarsi, ad oggi, uno Stato Parte. Il Procuratore, dopo le dichiarazioni di accettazione ad hoc della giurisdizione della Corte del 2013 e 2014, e dopo aver condotto una preliminare inchiesta, ha così dovuto chiedere ad una Camera Preliminare l’autorizzazione per aprire una formale indagine su quanto avvenuto durante il conflitto in Crimea e su quanto sta oggi accadendo a seguito dell’invasione russa.

A partire dall’1 marzo 2022, tuttavia, un consistente numero di Stati Parte ha deciso di denunziare la perpetrazione di crimini internazionali sul territorio ucraino, il che ha consentito alla Procura di bypassare il vaglio giudicante e di iniziare direttamente una indagine formale, che ha poi condotto alla richiesta ed alla concessione di due mandati di arresto.

4. Gli altri meccanismi di attivazione della giurisdizione della Corte: il caso del Darfur ed il potere illimitato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite

Tornando ai meccanismi generali che consentono l’attivazione della giurisdizione della Corte, oltre alla denunzia ad opera di uno Stato Parte (ed alla dichiarazione ad hoc di accettazione ad opera di uno Stato non-Parte), sussiste anche la possibilità che lo stesso Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite chieda agli organi della Corte di occuparsi di una determinata ipotesi criminale, sempre per fatti di genocidio, di crimini contro l’umanità o di crimini di guerra. Anzi, in questo particolare caso, non sussistono nemmeno i limiti di carattere geografico o personale che vincolano l’esercizio della giurisdizione internazionale: il Consiglio di Sicurezza può, cioè, denunziare al Procuratore anche fattispecie commesse sul suolo di Stati non-Parte e/o da soggetti che non hanno la nazionalità di Stati Parte. Si tratta cioè di una facoltà di deferimento senza limiti, che pretermette il consenso dello Stato che non abbia ratificato lo Statuto.

E’ esattamente quanto accaduto nel caso del Darfur: nonostante il Sudan non sia uno Stato Parte, né abbia mai deciso di accettare con una dichiarazione ad hoc la giurisdizione della Corte, il deferimento operato dal Consiglio di Sicurezza il 31 marzo 2005 ha consentito all’Ufficio del Procuratore, anche in questa ipotesi senza l’onere di una preventiva autorizzazione giudiziale, di investigare sui gravissimi crimini commessi nella regione del Darfur a partire dall’1 luglio 2002. L’indagine ha sinora prodotto ben 5 mandati di arresto internazionale avverso vertici politici e militari africani, ivi compresi l’ex Presidente Omar Al Bashir. Purtroppo 4 dei 5 mandati di arresto spiccati sono allo stato rimasti inadempiuti, il che implica l’impossibilità di esercitare l’azione penale e di iniziare il dibattimento, atteso che la Corte non può processare in absentia.

Il Procuratore della Corte Penale Internazionale ha altresì la facoltà di iniziare una indagine proprio motu, senza cioè né la preventiva denunzia ad opera di uno Stato Parte, né una dichiarazione occasionale di accettazione della giurisdizione ad opera di uno Stato Non-Parte, né il deferimento proveniente dal Consiglio di Sicurezza O.N.U. E però in tale ipotesi, successivamente alla inchiesta preliminare, sempre per fatti concernenti esclusivamente il territorio o i soggetti aventi la nazionalità di Stati membri, deve richiedere ai tre giudici della Camera Preliminare l’autorizzazione a cominciare ad investigare.

Come è intuibile, i meccanismi statutari che consentono l’apertura di una vera e propria indagine sui crimini internazionali sono tutt’altro che spediti: l’unico soggetto che può bypassare il consenso di Stati che non sono Parte dello Statuto di Roma è il Consiglio di Sicurezza, che può essere però ostaggio dell’esercizio, spesso reciproco, del potere di veto da parte dei cd. Membri Permanenti (Stati Uniti, Russia, Cina, Regno Unito, Francia).

Proprio tale circostanza, con l’evidente netta opposizione da parte della Federazione Russa, ha impedito un deferimento formale nel caso dell’Ucraina. E tuttavia, grazie alla eccezione relativa alla dichiarazione di accettazione ad hoc, utilizzata dalla stessa Ucraina, cui ha fatto seguito la denunzia di numerosi Stati Parte, oggi il Procuratore ha potuto iniziare ad investigare sulle ipotesi di crimini internazionali (specie sui crimini di guerra) consumati in quel territorio, senza nemmeno dover attendere l’autorizzazione dei giudici, per poi, da ultimo domandare ed ottenere due mandati di arresto.

5. Una ipotesi di reato non perseguibile nella situazione ucraina: il crimine di aggressione (si riaffaccia, solo in astratto, l’imputazione di Norimberga)

Purtroppo l’Ufficio del Procuratore, oltre alle teoriche ipotesi di genocidio (improbabile nel caso di specie), di crimini contro l’umanità (che tuttavia richiedono la prova di un attacco esteso e sistematico diretto contro la popolazione civile) e di crimini di guerra (tra i quali proprio la deportazione ed il trasferimento coatto di civili, ed in particolare di bambini), non potrà investigare sul quarto crimine astrattamente previsto dallo Statuto di Roma, vale a dire quello di aggressione.

Nella Risoluzione dell’Assemblea degli Stati Parte dell’11 giugno 2010, tenutasi a Kampala in Uganda, finalmente è stata conferita una definizione del crimine di aggressione, oggi contenuta nell’art. 8 bis dello Statuto della Corte. Nella stessa sede, tuttavia, si è deciso di introdurre due nuovi articoli nel corpo dello Statuto: l’art. 15-bis e l’art. 15-ter, i quali hanno stabilito delle condizioni serratissime perché il Procuratore possa procedere ad indagare su detta ipotesi di reato.

Quando la denunzia proviene da uno Stato Parte, ovvero quando è lo stesso Procuratore che, motu proprio, decide di investigare su una aggressione, il comma 5 dell’art. 15-bis prescrive un limite davvero stringente: non è consentito alla Corte giudicare atti di aggressione che siano compiuti da soggetti aventi la nazionalità di Stati non-Parte ovvero sul loro territorio! Come è intuibile, già questa limitazione non consentirebbe oggi al Procuratore di ‘iscrivere’ il crimine di aggressione quale ipotesi a carico di politici o militari russi per i fatti commessi in Ucraina!

I confini all’esercizio della giurisdizione riguardano però anche gli Stati Parte: secondo l’art. 15-bis comma 4, questi possono addirittura rifiutarsi, con una dichiarazione preventiva ed ad hoc, di riconoscere la giurisdizione della Corte con riguardo ad investigazioni per atti di aggressione, con ciò di fatto precludendo ogni sforzo di giustizia penale internazionale sulle condotte di invasione. Dunque, in concreto, anche se Israele, Russia, Stati Uniti, decidessero un giorno di aderire al sistema della Corte Penale Internazionale, con una semplice dichiarazione preliminare (che però può essere ritirata e che, anzi, deve essere rivista entro tre anni), avranno la facoltà di escludere ogni interferenza del tribunale internazionale per eventuali fatti di aggressione commessi.

Esistono poi i requisiti di carattere procedurale e legati al sistema di diritto internazionale deciso a Kampala nel 2010, che però, per fortuna sono oggi del tutto superati: vi è stata infatti già la ratifica di almeno 30 Stati membri (condizione minima per l’entrata in vigore delle norme che concernono il crimine di aggressione) ed è stata adottata, il 15 dicembre 2017 a New York, la Risoluzione dell’Assemblea degli Stati Parte che ha consentito, a partire dal 17 luglio 2018, praticamente a venti anni esatti dalla firma del trattato a Roma, alla Corte di investigare e processare individui per ipotesi di responsabilità di aggressione.

Ultimo limite fissato dall’art. 15-bis (e sempre concernente le ipotesi di denunzia di uno Stato Parte o di indagine motu proprio) è il previo ‘avviso’ che il Procuratore deve trasmettere al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite circa la denunzia o la propria intenzione di intraprendere una indagine autonoma per aggressione. Deve dunque attendere sei mesi per verificare se il Consiglio di Sicurezza adotti un provvedimento nel quale stabilisca che un atto di aggressione internazionale è effettivamente stato commesso. In caso di inerzia del Consiglio di Sicurezza, trascorsi sei mesi, può però comunque procedere, sempre che una Camera Preliminare della Corte lo autorizzi a partire con l’indagine.

Tali condizioni vengono meno quando la denunzia provenga dallo stesso Consiglio di Sicurezza, ex art. 15-ter dello Statuto. Come rammentato, specie per la situazione Ucraina, è tuttavia praticamente escluso che il Consiglio, che funziona con il potere di veto dei cinque membri permanenti, possa determinarsi ad invocare l’apertura di una formale inchiesta per l’ipotesi di aggressione compiuta in Ucraina dall’esercito russo.

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