Indipendenza della Magistratura e Riforme Costituzionali – Dieci domande all’Accademia

Indipendenza della Magistratura e Riforme Costituzionali
Dieci domande all’Accademia

Dialogando con Cesare Pinelli
Professore Ordinario di Diritto Costituzionale
Università La Sapienza di Roma

D.1 Nella relazione di accompagnamento della proposta A.C. n. 23 (ma la problematica è menzionata indirettamente anche nelle altre: le proposte A.C. 434 e 824, che presentano testi identici, e la proposta A.C. 806, che presenta, rispetto alle altre, solo piccole differenze) c’è un richiamo importante alla “cultura del limite”, e si ricorda la propensione del potere giudiziario a esondare, mettendo a rischio le libertà e i diritti dei cittadini di fronte all’autorità dello Stato.

L’articolo 106 della Costituzione, in base alle modifiche proposte, prevede che «Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati».

La “cultura del limite” è patrimonio esclusivo del giudice terzo, o a questa cultura dovrebbero essere formati tutti i magistrati? La separazione della carriera della magistratura giudicante da quella requirente, con la previsione anche di due diversi concorsi, è funzionale al richiamo della “cultura del limite”?

R. Cesare Pinelli: la cultura del limite mi sembra un ottimo argomento proprio per non separare la formazione culturale dei magistrati giudici da quella dei magistrati pubblici ministeri. Anche negli ordinamenti degli Stati Europei, in cui vi è la separazione netta tra la carriera dei giudici e quella dei pubblici ministeri, la formazione è comunque comune. Sarebbe semmai auspicabile non la separazione, ma una più ampia formazione comune di tutti i protagonisti del processo, ivi compresi gli avvocati. Un concorso unico serve proprio a mantenere e preservare la comune formazione e la cultura della giurisdizione, che altrimenti rischierebbe di andare persa.

D.2 L’articolo 104 della Costituzione viene modificato con l’espressa previsione che l’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente, governate ciascuna da due distinti Consigli superiori. (art.104 CSM giudicante – art.105 bis CSM requirente).

Con la separazione degli organi di autogoverno si raggiungerà l’obiettivo prefissato di eliminare (o comunque ridurre) la corporativizzazione dei diversi tipi di magistrati?

R. Cesare Pinelli: il Consiglio Superiore della Magistratura è l’organo di garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura ordinaria, ossia dei «magistrati istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario». Il C.S.M. è attualmente composto da 3 membri di diritto, e 30 elettivi, di cui 20 appartenenti alla magistratura e 10 membri eletti dal Parlamento. I membri di diritto sono il Presidente della Repubblica, il Primo Presidente della Corte di Cassazione e il Procuratore generale della stessa Corte.

Il Presidente della Repubblica svolge il ruolo di presidente del C.S.M. La presidenza gli è stata affidata dalla Costituzione per due motivi: rafforzare l’autonomia e l’indipendenza del Consiglio e, quindi, mediatamente, della magistratura e assicurare il collegamento della magistratura con il sistema generale dei poteri dello Stato. Non si tratta di una presidenza meramente onorifica. È, al contrario, una presidenza effettiva: non nel senso che il Presidente partecipi alla vita quotidiana del Consiglio e ne presieda le riunioni (la sua presenza è, anzi, un evento eccezionale), ma nel senso che il Presidente è costantemente informato sui lavori dell’organo ed è coinvolto nelle decisioni più importanti.

La scelta della Costituzione a favore di una «coppia istituzionale» — Presidente della  Repubblica, garante dell’unità nazionale, e Vicepresidente del Csm, eletto dallo stesso organo — è espressione poi di una visione della separazione tra i poteri, tipica del costituzionalismo contemporaneo improntata ad un metodo non verticistico ma collaborativo.

La separazione degli organi di governo autonomo, a mio parere, è altra cosa da  tenere ben distinta dalla corporativizzazione dei magistrati, che può più o meno esistere a prescindere dalla circostanza che l’organo di autogoverno sia uno, oppure siano due. Dalla separazione, potrebbe anzi seguire l’effetto contrario di quello voluto da chi propone la riforma, ovvero una maggiore corporativizzazione della magistratura inquirente.

La separazione degli organi di governo autonomo, sia che essi siano presieduti dal Presidente della Repubblica sia che siano presieduti dalle due figure apicali (Presidente della Cassazione – Procuratore Generale, come dalla proposta 806), pone seri problemi. Se a presiedere i due consigli è il Presidente della Repubblica, intravedo anche questioni di compatibilità in caso di contrasto tra gli stessi; se a presiederli dovessero essere le due figure apicali verrebbe a mancare quell’indispensabile collegamento della magistratura con il sistema generale dei poteri dello Stato, compito oggi precipuo del Presidente della Repubblica.

D 3. Nella relazione alla proposta n.23 si legge poi che al fine di scongiurare che, da organi autonomi e indipendenti di governo della magistratura, i Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente operino quali organismi corporativi e autocratici, ne è mutata anche la composizione. L’art. 104 prevede quindi che “gli altri componenti sono scelti per la metà tra i giudici ordinari con le modalità stabilite dalla legge e, per l’altra metà, dal Parlamento in seduta comune tra i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo quindici anni di esercizio”.

La perfetta parità di numero tra membri laici e membri togati nel CSM servirebbe a raggiungere l’obiettivo indicato nella relazione di togliere potere alle correnti della magistratura associata o potrebbe invece accentuare la contrapposizione tra le due anime del Consiglio?

R. Cesare Pinelli: il fatto che la componente “togata” sia largamente prevalente assicura oggi la tutela dell’indipendenza della magistratura dall’esterno. La presenza della componente “laica” minoritaria dovrebbe rappresentare – secondo il dettato Costituzionale – un elemento di garanzia del corretto funzionamento del Consiglio, ostacolando il corporativismo ed eventuali azioni discriminatorie da parte dei gruppi maggioritari dei magistrati contro le minoranze.

La perfetta parità di numero tra membri laici e membri togati, senza dubbio alcuno, potrebbe accentuare la contrapposizione e incidere anche sull’indipendenza. È evidente che se i membri laici saranno in parità di numero rispetto ai togati, e vice-presidente resterà egualmente un membro laico, inevitabilmente gli equilibri dell’organo non saranno più gli stessi, e l’idea dei nostri costituenti di una amministrazione della giurisdizione autonoma e non subordinata alla classe politica andrà persa.

D4. Con l’esclusione di ogni altra competenza che non sia espressamente indicata dalla Costituzione (ovvero assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari), viene meno la possibile funzione consultiva del Consiglio, così come oggi previste dalla legge n. 195 del 1958: dai pareri richiesti dal Ministro della Giustizia alle proposte sul funzionamento e organizzazione dell’ordinamento giudiziario?

R. Cesare Pinelli: da un punto di vista formale, direi senz’altro di sì. Se il nuovo art. 105 Cost. prevederà espressamente che: “Altre competenze” possono essere attribuite solo con legge costituzionale, le funzioni consultive previste nella legge ordinaria non saranno più esistenti né possibili, in quanto non previste da legge costituzionale. A riguardo, mi domando come si faccia a restringere queste funzioni e a mettere l’orologio indietro, prefigurando tra l’altro una concezione punitiva del Consiglio Superiore della Magistratura. Mi domando poi come potrebbe in futuro il Consiglio Superiore della Magistratura esprimersi sulle tabelle degli Uffici giudiziari, e/o sulla loro organizzazione esimendosi dal prendere in considerazione provvedimenti di legge e amministrativi, proposte di legge e interventi finanziari incidenti sull’organizzazione medesima.

D5. Il terzo comma dell’articolo 107 della Costituzione per il quale “i magistrati si distinguono solo per funzioni” è abrogato. Cosa comporta o cosa potrebbe comportare l’abrogazione?

R. Cesare Pinelli: non si tratta di una abrogazione indispensabile per realizzare l’intento dei presentatori di separare le carriere. A questo scopo, infatti, sarebbero largamente sufficienti le distinzioni introdotte nei disegni di legge costituzionale in tema di “definizione” della magistratura, di differenti concorsi di accesso, di Consigli superiori separati e così via.

L’abrogazione sembra invece destinata a incidere all’interno delle carriere separate, sancendo la fine del principio di eguaglianza degli appartenenti alle carriere giudicante e requirente, aprendo la via a “distinzioni” diverse da quelle relative alle funzioni e ponendosi come potenziale preludio della rinascita di gerarchie e di trattamenti economici differenziati all’interno del corpo delle due magistrature giudicanti e requirenti.

La fine dell’indipendenza “interna” porta con sé la fine di quella “esterna”; l’una non può sussistere in assenza dell’altra.

D6. Il terzo comma dell’articolo 106 della Costituzione è sostituito dal seguente: «La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari di università in materie giuridiche a tutti i livelli della magistratura giudicante».

La nomina di professori universitari e avvocati “a tutti i livelli della magistratura giudicante” – non sorretta com’è ora dai requisiti di straordinarietà e autorevolezza – sarebbe una modalità alternativa di reclutamento in linea con la selezione per pubblici concorsi degli impiegati civili dello Stato e in particolare dei magistrati?

R. Cesare Pinelli: circa, infine, la possibilità di nominare, a tutti i livelli della magistratura giudicante, avvocati e professori universitari in materie giuridiche al di fuori della selezione dei pubblici concorsi, va rilevato che l’art. 97, ultimo comma, e l’art. 106, primo comma, della Costituzione stabiliscono la regola dell’accesso mediante concorso degli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e dei magistrati in particolare. La nuova norma comporterebbe quindi un problema di armonizzazione con le norme citate e la loro ratio. A ciò aggiungasi che si verrebbe in tal modo a creare una modalità alternativa di reclutamento non sorretta com’è ora dai requisiti di straordinarietà e autorevolezza. L’attuale testo dell’art.106 prevede che possano essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione professori universitari e avvocati con almeno quindici anni di esercizio, “per meriti insigni”. Tale nomina avviene peraltro ad opera sempre del Consiglio Superiore della magistratura. Nella proposta formulazione l’art.106 consentirebbe, invece, ad avvocati e a professori universitari, l’accesso senza concorso, e senza garanzie di eccellenza, a “tutti i livelli della magistratura giudicante”.

D7. La relazione allegata al disegno di legge costituzionale n.935 per il premierato giustifica questa riforma richiamando l’esigenza di contrastare “l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e volatilità delle maggioranze, il «transfughismo» parlamentare, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico”. Con il c.d. premierato si potrebbe in effetti conseguire l’obiettivo di rendere stabili i governi?

R. Cesare Pinelli: I pregi attribuiti dai proponenti al modello di premierato in questione consistono nella scelta popolare della persona posta al vertice del Governo (che, a differenza delle ipotesi presidenziali, non eliminerebbe il ruolo di garanzia esercitato dal Presidente della Repubblica), nella formazione del Governo “la sera stessa del voto”, nella sua durata per l’intera legislatura, nel rinnovo simultaneo di Esecutivo e Parlamento, nonché nella consonanza politica e nell’equilibrio tra i due poteri grazie anche alla regola dello scioglimento automatico del Parlamento, che voti la sfiducia o rigetti la questione di fiducia.

A fronte dei vantati pregi, i difetti sarebbero: l’inevitabile indebolimento del Capo dello Stato in quanto eletto dal Parlamento (e non legittimato dal popolo a differenza del Primo Ministro) e fortemente ridimensionato nei suoi poteri di intermediazione politica, l’eccesso di potere riconosciuto al Primo ministro eletto sia all’interno del potere esecutivo sia nei confronti del Parlamento (che perderebbe ogni funzione nella investitura del Governo), e l’irrigidimento del rapporto tra Parlamento e Governo. A ciò deve aggiungersi che la stabilità dell’Esecutivo non è poi scontata in virtù della mera omogeneità politica tra maggioranza premierale e maggioranza parlamentare; la stabilità potrebbe, infatti, essere garantita solo da un sistema elettorale congiunto che farebbe derivare il Parlamento dal voto dato al candidato Premier. Una siffatta stabilità governativa sarebbe però certamente condizionata dalla posizione attribuita al Presidente del Consiglio. Alla stessa non corrisponderebbe necessariamente l’efficacia dell’azione di governo, con ogni probabilità pregiudicata dalle divisioni interne a una coalizione di maggioranza eterogenea, coattivamente indotta dalla necessità di coalizioni larghe per conquistare il premio necessario per vincere le elezioni. Non verrebbero pertanto superati i problemi attuali, né verrebbero comunque superati i contrasti interni alle coalizioni. Non da ultimo, sono negativamente da considerare la ridotta rappresentatività del Parlamento e un’ ulteriore riduzione del ruolo dei partiti, la cui funzione fondamentale sarebbe limitata alla proposizione di un candidato alla massima carica politica.

La proposta di premierato di cui al disegno di legge costituzionale, fondata su istituti volti a verticalizzare il potere con serio pericolo per l’equilibrio tra i poteri e il ruolo dei soggetti costituzionali di intermediazione politica e di garanzia,  non è attualmente applicata in nessuno Stato democratico (in passato ha avuto una breve sperimentazione in Israele), e non è assistita dagli opportuni contrappesi come avviene negli Stati Uniti e in Francia dove l’equilibrio tra i poteri è reso possibile dall’elezione separata del Parlamento.

D8. Non vi è l’indicazione di una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio, anzi l’attuale formulazione letterale del testo del disegno di legge di riforma prevede che la legge elettorale debba in ogni caso assicurare al premier questa maggioranza quale che sia il numero dei voti ottenuti. Questa disposizione, che sembrerebbe destinata ad essere soppressa con un emendamento, presenta profili di incostituzionalità?

R. Cesare Pinelli: tra le tante anomalie del progetto, una riguarda proprio l’elezione congiunta del Presidente del Consiglio e dei parlamentari sulla base di un sistema elettorale che garantisca al premier eletto una maggioranza del 55% dei seggi in ciascuna delle due Camere. Non vi è l’indicazione di una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio, anzi l’attuale formulazione letterale del testo del disegno di legge di riforma prevede che la legge elettorale debba in ogni caso assicurare al premier questa maggioranza quale che sia il numero dei voti ottenuti. Ma, come è noto, per la giurisprudenza della Corte costituzionale l’assenza di una soglia percentuale di voti ottenuti (o la previsione di una soglia non “ragionevole”) rappresenta una violazione dei principi costituzionali supremi della rappresentatività del Parlamento e dell’eguaglianza del voto che neppure con legge costituzionale possono essere derogati, con la conseguente incostituzionalità di una legge, anche costituzionale, che tale soglia non preveda. Nella sentenza n. 1 del 2014, la Corte Costituzionale ha infatti affermato che “l’assenza di una ragionevole soglia di voti minima per competere all’assegnazione del premio è … tale da determinare una alterazione del circuito democratico definito dalla Costituzione, basato sul principio fondamentale di eguaglianza del voto”.

Peraltro, il collegamento dell’elezione del capo del governo e di quella dei membri del Parlamento mediante un voto unico non esiste in nessuno degli Stati democratici nei quali è prevista l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (secondo il modello presidenziale o semipresidenziale) e non era prevista neppure nella breve esperienza israeliana di elezione diretta del premier. In alcuni tra questi Stati è prevista bensì l’elezione diretta contemporanea del Presidente e del Parlamento, ma sempre con voti distinti e su schede separate, con la conseguente possibilità che la maggioranza parlamentare non corrisponda a quella di cui è espressione il Presidente (“governo diviso” negli Stati Uniti, e “coabitazione” in Francia).

D9.I presentatori e i sostenitori della proposta di riforma sottolineano che essa concerne un limitato numero di articoli della Costituzione e dunque sarebbe “in continuità con la tradizione costituzionale e parlamentare italiana” (così il comunicato del Consiglio dei ministri n. 57/2023).

R. Cesare Pinelli: la realtà è ben diversa. In primo luogo, l’impatto di una riforma sulla Costituzione non dipende dal numero degli articoli che sarebbero modificati, ma dalla loro incidenza sull’asse portante della forma di governo da essa prevista e di riflesso sulla intera architettura costituzionale. E infatti la riforma proposta viene a incidere fortemente non solo sulla posizione e sui poteri

del Governo, ma anche sulla posizione e sui poteri del Parlamento e del Capo dello Stato, e dunque in generale sulla struttura del nostro sistema democratico.

In effetti il disegno di legge altera in modo rilevante l’attuale equilibrio tra i poteri costituzionali: in primo luogo a danno del Presidente della Repubblica che, in quanto eletto dal Parlamento e non dal popolo, disporrà di una legittimazione e di una forza politica chiaramente inferiore rispetto a quella di cui disporrà il Presidente del Consiglio eletto direttamente dal popolo. Attraverso la modifica degli artt. 92 e 94 i poteri del Presidente della Repubblica  verranno invero svuotati, per effetto della sostanziale abolizione del potere di scelta e di nomina del Presidente del Consiglio e per la trasformazione del potere di scioglimento delle Camere da atto discrezionale in atto vincolato. Con conseguente ridimensionamento anche dei poteri di intermediazione politica che il Capo dello Stato oggi esercita. Il conferimento dell’incarico al Presidente del Consiglio eletto o al suo eventuale sostituto non sarà più una nomina, bensì un atto dovuto, mentre la nomina dei ministri su proposta del capo del Governo, al pari degli altri poteri di garanzia che il Capo dello Stato oggi esercita attraverso i suoi atti formali e informali, verranno a risultare depotenziati dalla sua ridotta legittimazione rispetto a quella ben più forte del Presidente del Consiglio. Lo stesso scioglimento del Parlamento diventerà un atto dovuto (il Presidente della

Repubblica “procede allo scioglimento delle Camere” quando il Governo non ottenga la fiducia iniziale delle Camere e in tutti i casi di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio subentrato al premier eletto dal popolo).

Altrettanto squilibrato risulterà il rapporto tra il capo del Governo e il Parlamento, che non sarà più in grado di svolgere le sue funzioni fondamentali di investitura e di controllo dell’esecutivo e di confronto tra le diverse posizioni politiche anche a tutela del pluralismo. Come ho già precedentemente osservato l’organo assembleare verrà indebolito fin dal momento della sua elezione, non solo per l’elezione congiunta con quella del Presidente del Consiglio, ma soprattutto perché da essa dipendente. Con questa riforma, il Governo non emanerebbe più dal Parlamento, ma direttamente dal voto popolare, e la fiducia iniziale risulterebbe scontata, in quanto garantita dalla minaccia dello scioglimento automatico. Infine, voglio evidenziare (e non mi sembra casuale) come non vi sia alcuna disposizione volta a migliorare la funzionalità del Parlamento al fine di superare la sostanziale sua emarginazione nella legislazione e nel controllo, che oggi si registra anche e soprattutto per effetto del ricorso abnorme alla decretazione d’urgenza e all’uso della questione di fiducia sulla conversione dei decreti-legge e sui maxiemendamenti del Governo.

D10. La riforma del premierato incide sulla posizione del Parlamento e del Capo dello Stato? e dunque in generale sulla struttura del nostro sistema democratico? E sulla posizione della Magistratura?

R. Cesare Pinelli: non vi è dubbioche con la riforma del premierato venga avviato un processo di concentrazione del potere nelle mani della persona chiamata ad occupare il vertice del Governo, senza un livello adeguato di rappresentatività politica e con una corrispondente riduzione dei poteri di controllo costituzionale affidati al Parlamento e al Presidente della Repubblica.

Non posso esimermi, poi, da una riflessione anche sulla possibile violazione del principio fondamentale sancito dall’art. 1 della Costituzione che affida al popolo l’esercizio della sovranità, ma “nelle forme e nei limiti della Costituzione” e dunque nel rispetto di quel principio supremo che rende la nostra Repubblica una democrazia rappresentativa: una violazione in grado di intaccare quella “forma repubblicana” che l’art. 139 della Costituzione sottrae alla revisione costituzionale. Una democrazia rappresentativa non può prescindere infatti dal ruolo e dalla effettiva rappresentatività del Parlamento.

Nelle condizioni date di un sistema politico quale il nostro, da sempre frammentato e diviso, la riforma del Premierato si presenta anche rischiosa, perché tale da aprire la strada, specialmente in situazioni di emergenza oggi sempre più ricorrenti, a deviazioni incompatibili con lo spirito di una democrazia rappresentativa, pluralista e garantista, qual è quella adottata a fondamento del nostro impianto repubblicano.

In considerazione dell’accentuata verticalizzazione, della perdita dell’originaria posizione centrale da parte del Parlamento, dell’indebolimento della posizione di garanzia del Presidente della Repubblica, nessun dubbio che la riforma potrebbe riflettersi negativamente anche sull’indipendenza della Magistratura. Dall’esame congiunto della riforma in questione con la riforma di cui abbiamo in precedenza parlato, e che incide sulla composizione del Consiglio Superiore della Magistratura portando a metà i componenti laici del Consiglio, appare con tutta evidenza che in futuro anche il Consiglio Superiore della Magistratura, o più correttamente i Consigli Superiori delle Magistrature giudicante e requirente, potranno essere fortemente condizionati dal primo ministro.

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