Indipendenza della Magistratura e Riforme Costituzionali
Dieci domande all’Accademia
Dialogando con Giuliano Scarselli
Professore di Diritto Processuale Civile
all’Università degli Studi di Siena
Nella relazione di accompagnamento della proposta A.C. n. 23 (ma la problematica è menzionata indirettamente anche nelle altre) c’è un richiamo importante alla “cultura del limite”, e si ricorda la propensione del potere giudiziario a esondare, mettendo a rischio le libertà e i diritti dei cittadini di fronte all’autorità dello Stato.
D.1 La “cultura del limite” è patrimonio esclusivo del giudice terzo, o a questa cultura devono essere formati tutti i magistrati?
D.2 La separazione della carriera della magistratura giudicante da quella requirente, con la previsione anche di due diversi concorsi, è funzionale al richiamo della “cultura del limite”?
R. Giuliano Scarselli: Direi, se non mi inganno, che per “cultura del limite” si debbano intendere le idee dell’illuminismo in materia, da Montesquieu a Voltaire e Kant.
Tuttavia non ritengo che quel richiamo contenuto nella relazione di accompagnamento della proposta di riforma sulla separazione delle carriere tra la magistratura giudicante e quella requirente abbia, o abbia voluto avere, quella valenza culturale.
Si tratta, a mio avviso, semplicemente di un richiamo con il quale si asserisce, sic et simpliciter, che il potere giudiziario deve darsi dei limiti, necessari al fine di assicurare i diritti dei cittadini e l’autorità dello Stato.
La “cultura del limite”, però, nella sua accezione illuminista, dovrebbe, prima di investire il potere giudiziario, concernere e interessare gli altri poteri dello Stato, e soprattutto il potere governativo; e mi sembra così un pò paradossale invocare la “cultura del limite” per la magistratura nello stesso momento storico in cui si prospetta una riforma detta di premierato, certamente non ispirata a quel principio, per il potere esecutivo.
Allora corre l’obbligo di essere più precisi: non si tratta di dar corso alla c.d. “cultura del limite”, che andrebbe applicata indistintamente a tutti i poteri dello Stato; si tratta più precisamente di indebolire la magistratura e di rafforzare l’esecutivo; si tratta, in buona sostanza, di mutare quell’equilibrio tra i poteri dello Stato che fino ad oggi abbiamo avuto.
Quindi: a) la “cultura del limite” non riguarda solo la magistratura ma tutti i poteri dello Stato e soprattutto, direi, il potere esecutivo; b) nel disegno di riforma costituzionale ovviamente la “cultura del limite” riguarda anche la funzione requirente, che si vuole misurata e prudente; c) la “cultura del limite”, tuttavia, non mi sembra abbia niente a che vedere con la separazione delle carriere, e quindi il suo richiamo in tale sede non mi pare pertinente; d) personalmente, infine, non condivido una riforma costituzionale che indebolisca l’indipendenza della magistratura e rafforzi l’esecutivo.
D3. Con la separazione degli organi di autogoverno si raggiungerà l’obiettivo di eliminare (o comunque ridurre) la corporativizzazione dei diversi tipi di magistrati?
R. Giuliano Scarselli: A mio parere sono due cose differenti: una è la separazione degli organi di autogoverno, inevitabile una volta ritenuto di separare la funzione giudicante dalla requirente, altra la corporativizzazione dei magistrati, che può più o meno esistere a prescindere dalla circostanza che l’organo di autogoverno sia uno, oppure siano due, a seguito della separazione delle carriere.
In ogni caso trovo discutibile, e non corrispondente a realtà, sostenere che la separazione della carriere possa essere funzionale (anche) a ridurre la corporativizzazione dei magistrati.
Le ragione della separazione delle carriere sono altre, e direi, non hanno niente a che vedere con i temi delle correnti o delle corporazioni in magistratura.
Io, personalmente, fin dalla stesura della prima edizione del mio manuale di Ordinamento giudiziario, ovvero venti anni fa, nel 2004, presi posizione contro la separazione delle carriere; negli anni, non ho poi avuto modo di mutare questa mia posizione, che anzi ribadii anche in un più recente saggio apparso su www.judicium.it del 9 novembre 2017: Contro la separazione delle carriere tra pubblici ministeri e giudici.
Riconosco, tuttavia, che si tratta di un tema delicato, e che non mancano buone ragioni anche in senso contrario.
D4. La perfetta parità di numero tra membri laici e membri togati nel CSM servirebbe a raggiungere l’obiettivo di togliere potere alle correnti della magistratura associata o potrebbe accentuare la contrapposizione tra le due anime del Consiglio?
R. Giuliano Scarselli: Qui entriamo in un tema di primaria importanza, e mi sia consentita una premessa.
– Come lei ha fatto riferimento, noi ci stiamo occupando della proposta di riforma costituzionale A.C. 23, alla quale poi sono collegate le proposte A.C. 434 e 824, che presentano testi identici, e poi la proposta A.C. 806, che presenta, rispetto a quelle, solo piccole differenze.
Tutte queste proposte di riforma costituzionale sono rubricate Norme per l’attuazione della separazione delle carriere giudicante e requirente della magistratura; dal che, chi si presti a leggere nel dettaglio gli articolati che seguono, immagina di trovarsi dinanzi a modificazioni costituzionali che consentano, appunto, la separazione delle due magistrature e nient’altro.
Al contrario, sotto tale etichetta, si profilano novità dell’ordine giudiziario di più vasta e incisiva gravità, e che viceversa non emergono né nei titoli delle riforme, che continuano a definirsi Norme per l’attuazione della separazione delle carriere, né nel dibattito pubblico.
Queste novità appaiono, così, nascoste, inserite in questi progetti quali fossero accessori di alcun significato, mentre al contrario sono modifiche di grande impatto sull’assetto degli artt. 101 e ss. Cost.
E la prima tra queste riforme nascoste è proprio quella che lei ora ha ricordato, e che prevede la modificazione della composizione dei membri del CSM rispetto a quella esistente, e dispone che il rapporto tra membri togati e membri laici non dovrà più essere quello di 2/3 di membri togati e un 1/3 di membri laici, ma dovrà trasformarsi invece in un rapporto di parità, ovvero metà dei membri dovrà essere nominata tra i magistrati ordinari secondo criteri fissati dalla legge, e l’altra metà dovrà al contrario comporsi di avvocati e professori universitari nominati dal Parlamento (oppure dal Parlamento e dal Presidente della Repubblica nella misura di ¼ ciascuno; così i nuovi artt. 104 e 105 bis Cost).
Ora, una modificazione così grave e importante non può inserirsi all’interno di una riforma avente ad oggetto altro.
In una audizione che ho tenuto presso la Commissione affari Costituzionali del Senato ho ricordato, al riguardo, l’istituto francese del c.d. cavalier législativ, che si realizza quando in una legge viene inserito qualcosa che con quella legge non ha niente a che vedere, e ciò “afin de faire passer des dispositions législatives sans éveiller l’attention de ceux qui pourraient s’y opposer” (così espressamente la nozione data).
Portavo, al riguardo, l’esempio dell’ultima legge francese sull’immigrazione e del relativo giudizio espresso su di essa dal Conseil constitutionnel circa la incostituzionalità di alcuni punti di quella legge proprio perché aventi ad oggetto materie e questioni che niente avevano a che vedere con l’immigrazione.
Ebbene, i nuovi artt. 104 e 105 bis Cost. costituiscono, parimenti, un cavalier législativ, poiché inseriscono in un progetto di legge titolato Norme per l’attuazione della separazione delle carriere modifiche costituzionali che non attengono alla materia, e che al contrario, incidendo sulla composizione del CSM, comportano un diverso assetto del sistema costituzionale della magistratura.
– Venendo al merito, non è forse inutile ricordare le battute principali del dibattito che in Assemblea costituente si sviluppò circa la composizione del CSM (v. Verbali Assemblea costituente, Roma, 1979, V, 3665 e ss.).
I costituenti, infatti, sposarono la proposta di Oscar Luigi Scalfaro, giovane magistrato all’epoca, il quale, nell’adunanza del 12 novembre 1947, premesso il pericolo che l’ingerenza della politica e del governo può avere sull’indipendenza della magistratura, asseriva che: «il pericolo viene a scomparire mutandosi quella composizione in queste diverse proporzioni, che cioè nel Consiglio Superiore vi siano sotto la presidenza del Presidente della Repubblica, due terzi di magistrati eletti dalla Magistratura ed un terzo di non magistrati eletti dall’Assemblea» (pag. 3820).
L’emendamento Scalfaro veniva portato in votazione nella successiva adunanza del 25 novembre 1947, accompagnato da un intervento di Nobili Tito Oro, che parimenti merita riportare: «Mi pare, onorevole Presidente, che noi abbiamo già votato il primo comma del testo originario della Commissione, col quale si stabilisce che la Magistratura è un ordine autonomo e indipendente. Se questo vogliamo stabilire ed osservare, non dobbiamo stare a fare la questione di un rappresentante di più o di un rappresentante di meno, quando è stata già strappata, nella formazione di quel Consiglio Superiore che avrebbe dovuto essere l’organo e la garanzia dell’autonomia e dell’indipendenza, una rappresentanza paritetica della Magistratura e del Parlamento; quando cioè a quel Consiglio che avrebbe dovuto essere strumento di autonomia, e quindi rappresentanza esclusiva della Magistratura, si è portata una duplice contrapposta rappresentanza, che è espressione di dualismo e di controllo e quindi negazione di autonomia e di indipendenza» (pag. 4080).
Dunque, quel dualismo, dato da una rappresentanza paritetica tra togati e laici, costituisce negazione di autonomia e di indipendenza.
Ed è su questa premessa che viene messo ai voti “l’emendamento dell’onorevole Scalfaro, il quale propone che il Consiglio Superiore della Magistratura sia costituito di membri designati per due terzi dai magistrati e per un terzo dal Parlamento” (pag. 4081).
E la proposta Scalfaro veniva approvata dall’Assemblea.
E’ evidente, così, che se la maggioranza dei membri del CSM è come oggi togata, è possibile considerare l’amministrazione della giurisdizione distanziata dall’attività politica; ma se al contrario i membri laici saranno in parità di numero rispetto ai togati, e vice-presidente resterà egualmente un membro laico, andrà da sé che gli equilibri dell’organo non saranno più gli stessi, e l’idea dei nostri costituenti di una amministrazione della giurisdizione non subordinata alla classe politica, se non ai governanti di turno, andrà persa.
L’incidenza della politica sulla giurisdizione, così, potremmo dire, si istituzionalizzerebbe, ed entreremo in questo modo in una nuova fase costituzionale della magistratura.
Ed è altresì infine evidente che la scelta di mutare la composizione del CSM non può essere giustificata con l’idea di ridurre o annullare la corporativizzazione della magistratura, poiché l’un aspetto non ha niente a che vedere con l’altro.
D5. Con l’esclusione di ogni altra competenza che non sia espressamente indicata dalla Costituzione (ovvero assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari), viene meno la possibile funzione consultiva del Consiglio, così come oggi prevista dalla legge n. 195 del 1958: dai pareri richiesti dal Ministro della Giustizia alle proposte sul funzionamento e organizzazione dell’ordinamento giudiziario?
R. Giuliano Scarselli: Beh, da un punto di vista formale direi senz’altro di sì.
Se il nuovo art. 105 Cost. prevedrà espressamente che: “Altre competenze”, ovvero altre competenze rispetto a quelle già espressamente indicate circa le assunzioni, le assegnazioni, i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari, “possono essere attribuite solo con legge costituzionale”, va da sé che le funzioni consultive previste nella legge ordinaria non saranno più esistenti né possibili, in quanto non previste da legge costituzionale.
Né mi sembra che la funzione consultiva possa ricavarsi con una interpretazione estensiva delle altre funzioni riconosciute dall’art. 105 Cost., e ciò sia perché non vedo come possa ricavarsi detta funzione consultiva dal nuovo art. 105 Cost. con una attività meramente esegetica, e sia perché l’aver previsto in Costituzione che altre funzioni possono darsi solo se previste da legge costituzionale porta a ritenere che le funzioni stesse debbano soggiacere ad un principio di tassatività, coerente con l’idea che il CSM possa svolgere solo quei compiti espressamente indicati in Costituzione.
Ciò tuttavia conferma quanto stiamo sostenendo, ovvero che questa riforma è intesa a ridurre e a contenere l’ambito di indipendenza e di funzioni del CSM.
Peraltro, che si sia inteso indebolire l’autonomia della magistratura appare altresì da ulteriori interventi di quella riforma; tra queste: la modifica dell’art. 104 Cost. ove l’indipendenza è riconosciuta non più rispetto “ad ogni altro potere” dello Stato bensì solo rispetto “ad ogni potere”, così escludendo che la Magistratura possa costituire un potere dello Stato; coerentemente a ciò, poi, rileva altresì la modifica del Titolo IV della Costituzione, non più avente ad oggetto “La Magistratura” bensì “L’ordine giudiziario”; nonché, di particolare rilevanza, l’ulteriore specificazione nel nuovo art. 104 Cost. secondo il quale la metà togata dei membri del CSM “non viene più eletta dai magistrati ordinari ma i criteri di scelta dei magistrati che la compongono vengono rimessi alla legge ordinaria” (così la Relazione).
Si tratta di nuove disposizioni che solo ad una prima lettura possono considerarsi marginali o di secondaria importanza; esse, al contrario, si inseriscono bene e precisamente in quel contesto di indebolimento del CSM che sopra abbiamo rilevato.
D6. Cosa comporta, o potrebbe comportare, l’abolizione del terzo comma dell’art.107 della Costituzione per il quale “i magistrati si distinguono solo per funzioni”?
R. Giuliano Scarselli: Questo, a mio parere, è il secondo cavalier législativ contenuto nel progetto di riforma.
E’ pacifico che l’inciso secondo il quale: “I magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni” costituisce momento essenziale dell’organizzazione della magistratura; la sua soppressione non può essere allora qualcosa che si inserisce, incidenter, in una riforma che riguarda altro.
Nelle schede di lettura su tale intervento predisposte dalla Camera dei Deputati a pag. 24 si legge che: “La modifica appare consequenziale rispetto alla separazione formale dell’ordine giudiziario nelle due categorie della magistratura giudicante e della magistratura requirente”.
Certamente questa contrapposizione sarà la prima che caratterizzerà i magistrati se si arriverà ad una simile riforma; tuttavia, questa contrapposizione non dovrebbe egualmente impedire che i vari magistrati, ognuno poi nel proprio ordine, continuino però a distinguersi solo per diversità di funzioni.
Se si giungerà, invece, all’abrogazione integrale del 3° comma dell’art. 107 Cost. senza nient’altro specificare, pare evidente che la novità potrà essere non solo funzionale alla nuova contrapposizione tra magistratura giudicante e requirente, ma anche idonea ad incidere sulla struttura e l’organizzazione delle due magistrature, con il rischio che a questo punto tutti gli ordini giudiziari, giudicanti o requirenti che siano, perdano il modello di magistratura diffusa fino ad oggi avuto, e si assimilino così, puramente e semplicemente, alle altre pubbliche amministrazioni.
E il tema, sia consentito, è di particolare delicatezza, poiché l’idea di immaginare una gerarchia nell’esercizio della funzione giurisdizionale, e di limitare la libertà dei singoli giudici di interpretare la legge, è purtroppo una realtà già in atto; cosicché, se il valore costituzionale secondo il quale i giudici si distinguono solo per funzioni verrà meno, allora davvero si potrà immaginare un ordine giudiziario futuro con dei giudici sovra-ordinati e dei giudici sotto-ordinati, con dei giudici di serie A e altri giudici di serie B; e la novità costituzionale non inciderebbe più, solo e soltanto, sull’art. 107, 3° comma Cost., bensì anche, conseguentemente, su tutte le altre norme costituzionali che regolano la magistratura.
Osservo ulteriormente che, purtroppo, l’idea della gerarchizzazione della magistratura è oramai entrata nella testa di moltissimi giudici.
Quando ho iniziato la professione di avvocato negli anni ’80 vi erano ancora dei giudici di Tribunale, se non addirittura dei Pretori, che restavano volentieri per tutta la durata della loro attività lavorativa a fare i giudici di merito di primo grado, poiché consideravano quella attività la più rilevante sul piano giurisdizionale e sociale, a contatto con i cittadini e con i loro problemi.
Oggi è praticamente impossibile trovare ancora magistrati di quella pasta, il carrierismo è diventato al contrario la regola, e direi che ogni giudice, fin dalle prime valutazioni di professionalità, immagina infatti di fare carriera, e di abbandonare il prima possibile le sue funzioni semplicemente giudicanti per entrare in quelle dirigenziali.
L’idea che i magistrati si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni si è così in primo luogo persa di fatto.
Sarebbe invece a mio parere necessario non solo evitare di sopprimere una disposizione cardine dell’organizzazione della magistratura quale quella dell’art. 107, 3° comma Cost., bensì necessario valorizzare e apprezzare quella vecchia mentalità che faceva della magistratura veramente una funzione diffusa, così indispensabile per la democrazia di un paese e la libertà dei cittadini
D7. La nomina di professori universitari e avvocati “a tutti i livelli della magistratura giudicante” – non sorretta com’è ora dai requisiti di straordinarietà e autorevolezza – sarebbe una modalità alternativa di reclutamento in linea con la selezione per pubblici concorsi degli impiegati civili dello Stato e in particolare dei magistrati?
R. Giuliano Scarselli: E qui siamo arrivati al terzo cavalier législativ.
Si tratta, ancora una volta, di riforma che non ha niente a che vedere con la separazione delle carriere.
Come lei ricorda, infatti, il nuovo art. 106, 3° comma Cost. andrebbe a disporre che: “La legge può prevedere la nomina di avvocati e di professori ordinari universitari a tutti i livelli della magistratura giudicante”; l’attuale prevede invece, mi sia consentito ricordare, che: “Su designazione del CSM possono essere chiamati all’ufficio di consigliere di cassazione per meriti insigni, professori ordinari di università in materie giuridiche e avvocati che abbiano quindici anni di esercizio e siano iscritti negli albi speciali per le giurisdizioni superiori”.
Le differenze tra un testo e l’altro sono evidenti: a) nel primo caso il potere di inserire in magistratura soggetti aspiranti fuori concorso è affidato al CSM, nel secondo caso viene invece trasferito alla legge, che evidentemente potrà regolare il fenomeno in modo del tutto discrezionale, non essendo fissati in Costituzione criteri per ciò; b) nel primo caso si tratta di accedere solo presso la Corte di cassazione, mentre ora si immagina che il fenomeno possa estendersi a tutti i livelli della magistratura giudicante; c) nel primo caso la condizione per accedere senza concorso alla magistratura è quella di aver conseguito meriti insigni, mentre oggi pare che ogni professore e ogni avvocato, anche senza meriti insigni e senza anzianità particolare, possa accedere ad ogni tipo di magistratura.
Si comprende, così, non solo che l’istituto verrebbe totalmente snaturato da questa novellazione, ma anche che vi sarebbe il rischio di far accedere in magistratura soggetti privi di idonea formazione, fuori da ogni regola e da ogni controllo del CSM.
E soprattutto ciò potrebbe rappresentare l’abbandono del principio secondo il quale l’accesso in magistratura è dato esclusivamente per concorso pubblico, e potrebbe costituire il presupposto affinché un domani vi siano dei magistrati nell’ordine giudiziario che debbano dire grazie a qualcuno per essere diventati tali.
Poiché poi un principio cardine dell’autonomia della magistratura è da sempre quello dell’accesso per concorso pubblico in via esclusiva, il venir meno di questo principio può costituire, a mio parere, un nuovo stravolgimento dell’assetto complessivo dei valori costituzionali del Titolo IV della Costituzione.
D8. La relazione allegata al disegno di legge costituzionale per il premierato giustifica questa riforma richiamando l’esigenza di contrastare “l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e volatilità delle maggioranze, il «transfughismo» parlamentare, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico”. Con il c.d. premierato si potrebbe in effetti conseguire l’obiettivo di rendere stabili i governi?
R. Giuliano Scarselli: Certo, è evidente che con il c.d. premierato si ottiene l’obiettivo di rendere più stabile il Governo; anzi, direi che sarà sicuramente così, poiché è chiaro che se il primo ministro viene eletto direttamente dal popolo ed ha ministri di sua fiducia che (sostanzialmente) egli nomina, e ancora se al primo ministro viene assicurata una maggioranza parlamentare di almeno il 55%, ed ha parlamentari collegati ad una lista politica della quale egli è il leader, non v’è dubbio che in questo modo il governo è stabile e senz’altro riesce a governare indisturbato per cinque anni.
Il problema, però, mi sembrerebbe, è che il valore da perseguire non è solo quello della stabilità del governo, bensì parimenti quello di assicurare il pluralismo in un clima di libertà democratiche.
Si tratta, in sostanza, di trovare un equilibrio tra libertà e autorità, e in una democrazia la libertà dovrebbe avere la prevalenza sull’autorità, anche a costo di un prezzo da pagare per ciò.
Oggi, viceversa, sembra che il problema si possa facilmente risolvere aumentando il peso dell’autorità a danno della libertà.
Tra il serio e il faceto si potrebbe direi che se io mi taglio un braccio, sicuramente perdo di peso, però chissà se questo è il modo migliore per dimagrire; allo stesso modo, se il sistema aumenta d’autorità, la stabilità del governo è garantita, e fenomeni di eterogeneità e volatilità delle maggioranze e «transfughismo» parlamentare, non se ne hanno; però, di nuovo, chissà se questa è la soluzione migliore da adottare.
In ogni caso, seppur sia indiscutibile che questa riforma dia maggiori stabilità al governo, non corrispondono a mio parere a verità le altre asserzioni che si trovano nella relazione di presentazione del disegno di legge costituzionale.
Non è vero che queste modifiche consentirebbero la valorizzazione “del ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico nazionale”, poiché questa riforma assicura solo al primo ministro di rimanere stabilmente in carica per cinque anni ma non assicura affatto che il primo ministro rispetti il programma politico con il quale si è presentato agli elettori e in forza del quale gli elettori lo hanno votato, in quanto, è evidente, se il primo ministro dovesse, dopo le elezioni, mutare orientamenti o assumere indirizzi diversi da quelli prospettati in campagna elettorale, non succederebbe niente, né la Costituzione riformata prevede correttivi per ipotesi del genere.
Parimenti, trovo fuori luogo asserire che questo sistema è “in grado di assicurare contenuti programmatici di medio-lungo periodo”, poiché oggi, tutto al contrario, questi programmi non sono (sostanzialmente) più stabiliti dai governi, bensì da normative e decisioni europee, a fronte delle quali la libertà di determinazione degli Stati membri si è sempre più ridotta, o addirittura sparita dopo l’approvazione del PNRR, che oggi regola e determina ogni possibile agenda governativa e parlamentare.
E ancora, la soppressione dell’istituto dei senatori a vita, più che finalizzata ad assicurare “stabilità delle maggioranze”, sembra a mio parere coordinarsi con le finalità della riforma volte alla svalutazione del parlamento, e a sposarsi con la logica oggi corrente di non riconoscere a nessuno meriti insigni o valore culturale, scientifico o artistico.
D9.I presentatori e i sostenitori della proposta di riforma sottolineano che essa concerne un limitato numero di articoli della Costituzione e dunque sarebbe “in continuità con la tradizione costituzionale e parlamentare italiana” (così il comunicato del Consiglio dei ministri n. 57/2023).
R. Giuliano Scarselli: La riforma del premierato concerne effettivamente solo quattro articoli della Carta costituzionale, ovvero gli artt. 59, 88, 92 e 94.
Peraltro, le modifiche degli artt. 59 e 88 possono essere considerate minori, riguardando una la soppressione dell’istituto del Senatore a vita (abolizione dell’art. 59), e l’altra l’impossibilità del Presidente della Repubblica di sciogliere una sola Camera (possibilità, peraltro, già caduta da tempo in desuetudine; modifica dell’art. 88 Cost.).
Le modifiche principali hanno invece ad oggetto gli artt. 92 e 94: il nuovo art. 92 prevede che il Presidente del Consiglio dei ministri sia eletto direttamente dal popolo ed abbia un premio che gli garantisca il 55% dei seggi in ciascuna delle due Camere; e il nuovo art. 94 dispone che se le Camere non danno (per due volte consecutive) la fiducia al Governo queste vengono sciolte dal Presidente della Repubblica.
Ciò premesso, è evidente, però, che la gravità o l’ammissibilità di una riforma costituzionale non si fa in base al numero degli articoli coinvolti bensì in base ai principi, alle regole e ai valori modificati.
Ora, nei limiti delle osservazioni che possono essere svolte in una intervista, direi che questa riforma, seppur contenuta in pochi articoli, muti egualmente, e non solo in aspetti marginali, la forma di Governo voluta dai nostri costituenti; e non mi sembra corrispondente a verità che questa riforma rispetti “la tradizione parlamentare italiana”, poiché con essa, invece, la centralità del Parlamento si perde.
Anzi, mi sia consentito sollevare dei dubbi sulla stessa possibilità di approvare una simile riforma.
Al riguardo, ricordo che, seppur l’art. 139 Cost. reciti solo che: “La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”, nessun costituzionalista ha mai pensato che fuori da questo limite tutto il resto possa essere modificato: e in Assemblea costituente Piero Calamandrei e poi Lodovico Sforza Benvenuti e Paolo Rossi, sostennero infatti energicamente che i principi fondamentali della Repubblica non potevano essere oggetto di revisione costituzionale; e proprio Lodovico Sforza Benvenuti sottoponeva all’Assemblea plenaria del 3 dicembre 1947, un art. 130 bis in tal senso, il quale, seppur condiviso nella sostanza da tutti, non trovava approvazione solo per ragioni tecniche.
Con gli anni ’50 il tema della revisione costituzionale si rendeva materia di dibattito dottrinale, e tra questi giuristi ricordo le posizioni di Costantino Mortati e di Alessandro Pizzorusso: il primo poneva la differenza tra limiti espressi e limiti impliciti; e il secondo faceva la stessa cosa, asserendo che non potevano essere modificati “quei diritti i quali, pur non essendo esplicitamente menzionati nella Costituzione, risultano implicitamente tutelati sulla base del sistema di valori che essa fa proprio”.
Su ciò interveniva infine la stessa Corte costituzionale, la quale sentenziava che: “La Costituzione italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali. Tali sono tanto i principi che la stessa Costituzione esplicitamente prevede come limiti assoluti al potere di revisione costituzionale, quale la forma repubblicana, quanto i principi che, pur non essendo espressamente menzionati fra quelli non assoggettabili al procedimento di revisione costituzionale, appartengono all’essenza dei valori supremi sui quali si fonda la Costituzione italiana” (così Corte Cost. 29 dicembre 1988 n. 1146).
Dunque, la questione è chiara: una revisione costituzionale che abbandoni la forma di governo parlamentare, preveda l’elezione diretta del primo ministro ed attribuisca ad esso una maggioranza ex lege per governare, consentendo parimenti allo stesso la possibilità di scegliersi parlamentari e ministri, ovvero una riforma che capovolga (direi interamente) le scelte a suo tempo fatte dai nostri costituenti, è una riforma che attenta ai “valori supremi”, o valori fondamentali, della Repubblica?
Poiché, par ovvio, se la risposta dovesse essere sì, allora è chiaro che questa riforma del premierato, prima ancora di essere condivisibile o non condivisibile, è più radicalmente una cosa che non si può fare.
D10. La riforma del premierato incide sulla posizione del Parlamento e del Capo dello Stato? e dunque in generale sulla struttura del nostro sistema democratico? E sulla posizione della Magistratura?
R. Giuliano Scarselli: Mi riallaccio a quanto già detto.
Mi sembra evidente che questa riforma incida anche sulla posizione del Parlamento e su quella del Capo dello Stato, e non solo sul primo ministro.
Senza entrare in sottili disquisizioni di diritto costituzionale mi limiterei a segnalare che oggi il parlamento deve dare la fiducia al governo e se non la dà, o questa viene revocata, il governo non può andare avanti, e il Capo dello Stato deve nominare un nuovo presidente del consiglio dei ministri. Con la riforma che si immagina il parlamento invece non può non dare la fiducia al primo ministro, e se lo fa, non è il governo che cade, ma è il parlamento che deve essere sciolto.
Quanto al Capo dello Stato è parimenti evidente che i suoi compiti si riducono a fronte di queste novità, poiché egli non ha più alcuna discrezionalità né nello scegliere il primo ministro, che deve essere quello eletto dal popolo anche dopo la prima sfiducia del parlamento, e deve essere “un altro parlamentare che è stato candidato in collegamento al Presidente eletto” in caso di cessazione della carica, né nello sciogliere il parlamento, che costituisce al contrario per il Capo dello Stato atto dovuto tanto nelle ipotesi in cui il parlamento dia la sfiducia al primo ministro, quanto nelle ipotesi in cui il nuovo presidente del Consiglio in collegamento al Presidente eletto non abbia ottenuto la fiducia.
E parimenti, è ovvio, che questa riforma incide, seppur indirettamente, anche sulla Magistratura.
Se noi, infatti, uniamo questo disegno di riforma costituzionale con l’altra riforma sopra vista A.C. 23, e vediamo che una riforma porta a metà i componenti del CSM, e questa indebolisce il Parlamento mettendolo sotto l’egemonia e la direttiva del primo ministro, va da sé che in futuro il CSM potrà essere fortemente inciso dal primo ministro, cosicché il principio di indipendenza della magistratura dal potere esecutivo rischierà, evidentemente, di rimanere solo una teoria non corrispondente alla pratica.
Di nuovo: queste modificazioni attengono ai valori fondamentali e/o supremi della Repubblica?
La relazione tecnica al disegno di legge esclude che la riforma presenti “contrasti con i limiti espliciti ed impliciti alla revisione costituzionale”, ed esclude che essa intacchi i valori di “democrazia, rappresentatività, separazione dei poteri e prerogative degli organi costituzionali”
Io solleverei qualche dubbio.
Poiché, una per tutte, la separazione dei poteri non va intesa in senso assoluto ma come equilibrio e limite di ogni potere dello Stato con gli altri; fu il lavoro dei nostri costituenti quella di creare una sorta di limiti ed equilibri tra i poteri dello Stato tali da evitare esperienze totalitarie quali quella appena terminata del fascismo.
Possiamo, allora, così fortemente mutare gli equilibri tra i poteri dello Stato voluti dai nostri costituenti?
È un potere equilibrato quello del primo ministro nella sua carica quinquennale a seguito di questa riforma costituzionale?
Rispetta il principio della separazione dei poteri e delle prerogative degli organi costituzionali una riforma che metta il CSM sotto la forte incidenza del primo ministro?
Sono questi i temi che dovranno essere affrontati.