Indipendenza della Magistratura e Riforme Costituzionali
Dieci domande all’Accademia
Dialogando con Gaetano Azzariti
Professore Ordinario di Diritto Costituzionale
Università La Sapienza di Roma
D.1 Nella relazione di accompagnamento della proposta A.C. n. 23 (ma la problematica è menzionata indirettamente anche nelle altre – le proposte A.C. 434 e 824, che presentano testi identici, e poi la proposta A.C. 806, che presenta, rispetto a quelle, solo piccole differenze) c’è un richiamo importante alla “cultura del limite”, e si ricorda la propensione del potere giudiziario a esondare, mettendo a rischio le libertà e i diritti dei cittadini di fronte all’autorità dello Stato.
L’articolo 106 della Costituzione, in base alle modifiche proposte, prevede che «Le nomine dei magistrati giudicanti e requirenti hanno luogo per concorsi separati».
òLa “cultura del limite” è patrimonio esclusivo del giudice terzo, o a questa cultura dovrebbero essere formati tutti i magistrati? La separazione della carriera della magistratura giudicante da quella requirente, con la previsione anche di due diversi concorsi, è funzionale al richiamo della “cultura del limite”?
R. Gaetano Azzariti: nella relazione si afferma anche che la separazione delle carriere non è un fine ma un mezzo. Naturale allora porsi una prima domanda: “la separazione rappresenta il mezzo idoneo allo scopo perseguito?”. E ancor prima, “c’è bisogno di cambiare la Costituzione per separare le carriere dei magistrati?”.
Queste domande sono più che legittime, perché a leggere la giurisprudenza costituzionale e la più recente normativa ordinaria sembrerebbe di no.
D’altronde, già da tempo e, in particolare nell’ultima novella del 2022 (la legge n. 71), la separazione è nei fatti. Il sostanziale divieto di passaggio dalle funzioni requirenti a quelle giudicanti, se non una sola volta nel corso della carriera, a condizioni stringenti e con l’obbligo di un cambiamento di sede, appare aver già conseguito il fine della separazione di fatto delle carriere.
Il superamento del concorso unico viene presentato, nelle relazioni di accompagnamento ai disegni di legge, come necessaria conseguenza della distinzione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti.
In realtà, non è affatto una conseguenza logica.
E le misure in concreto previste, quale conseguenza della separazione, in realtà non paiono non solo non necessarie, ma neppure efficaci per assicurare lo scopo perseguito di garantire la terzietà del giudice.
È infatti nel processo inteso come procedimento – e quindi certamente con la decisione, ma anche e ancor prima con le indagini, con la raccolta delle prove, con il contraddittorio tra le parti – che si realizza la giurisdizione, nonché si dà corpo al principio del giusto processo.
Proprio la scelta della separazione dovrebbe, pertanto, consigliare di preservare e garantire almeno l’unicità del concorso; e ciò al fine di assicurare una comune cultura della giurisdizione per entrambe le figure.
Sarebbe controproducente – una vera eterogenesi dei fini – se si dovesse pervenire alla conclusione che, nel primo caso, vista la specificità del ruolo delle procure, si debba prestare una particolare attenzione agli strumenti di indagine, mentre la cultura delle garanzie verrebbe assunta come fondamentale nei soli concorsi dei giudici. Più che separazione delle carriere avremmo ottenuto lo scopo di formare pubblici ministeri “poliziotti” e, magari, anche giudici inconsapevoli delle realtà investigative.
Nessun dubbio che vi debba essere una cultura del limite, e che questa sia da riscoprire e rinsaldare. Tale cultura non è, né può essere però patrimonio esclusivo del giudice terzo. A questa cultura devono essere formati tutti i magistrati, e questo è un ottimo argomento per affermare la necessità di prevedere un unico concorso per valutare le capacità tecniche e la cultura garantista di chi – nelle sue diverse funzioni – esercita un potere che può andare oltre il limite e mettere a rischio i diritti e la libertà di ciascuno di noi.
Dovremmo forse prendere insegnamento dalla Germania ove è netta la separazione fra giudici e pubblici ministeri, ma è unico il percorso formativo per tutte le professioni legali, ivi compresi gli avvocati.
D.2 L’articolo 104 della Costituzione – nelle varie proposte – viene modificato con l’espressa previsione che l’ordine giudiziario è costituito dalla magistratura giudicante e dalla magistratura requirente, governate da due distinti Consigli superiori (art.104 CSM giudicante – art.105 bis CSM requirente).
Con la separazione degli organi di autogoverno si raggiungerà l’obiettivo prefissato di eliminare (o comunque ridurre) la corporativizzazione dei diversi tipi di magistrati?
Se volessimo conservare un luogo che (auto)governi le diverse giurisdizioni, preservando la cultura della giurisdizione stessa, dovremmo forse procedere in direzione opposta: unificando i tanti “Consigli” delle diverse magistrature (amministrativa, contabile, tributaria, militare) e fornendo una copertura costituzionale anche a quelli che sino a ora non l’hanno.
Un unico organo, diviso in sezioni, presieduto dal Capo dello Stato, per garantire l’autonomia e l’indipendenza di tutti gli ordini della magistratura – anche quelle speciali – rappresenterebbe una vera novità, e permetterebbe un importante confronto delle varie culture delle nostre magistrature. Tale unificazione in considerazione della composizione eterogenea di un Consiglio così composto potrebbe, poi, ridurre il tasso di “politicità” delle diverse giurisdizioni.
Nell’ipotesi in cui si dovesse scegliere la via della separazione degli organi di autogoverno, per mantenere comunque la comune cultura della giurisdizione, si dovrebbe contestualmente pensare a rivitalizzare i luoghi di incontro, confronto e formazione comuni dei magistrati, allargati all’avvocatura e all’università.
D. 3 Nella relazione della proposta n.23 si legge poi che «al fine di scongiurare che, da organi autonomi e indipendenti di governo della magistratura, i Consigli superiori della magistratura giudicante e requirente operino quali organismi corporativi ed autocratici, ne è mutata anche la composizione».
La perfetta parità di numero tra membri laici e membri togati nel CSM servirebbe a raggiungere l’obiettivo indicato nella relazione di togliere potere alle correnti della magistratura associata o potrebbe invece accentuare la contrapposizione tra le due anime del Consiglio?
R. Gaetano Azzariti: sulla modifica della composizione dei membri elettivi, con la parificazione dei membri laici a quelli togati, mi limito a osservare che se appare chiara la finalità politica sottesa (evitare che il governo dei giudici e dei pubblici ministeri sia nelle mani di una magistratura politicizzata), si dovrebbe pensare anche a evitare che si pervenga a un governo dei magistrati da parte della politica ovvero a una situazione di non auspicabile aumento della conflittualità tra magistratura e politica in seno all’organo di autogoverno. La perfetta parità (fatto salvo il membro di diritto) tra laici e togati, l’eliminazione (in una delle proposte di legge) della presidenza al Capo dello Stato, la conservazione della vicepresidenza a un membro laico potrebbe precostruire un assetto ove la contrapposizione tra le due anime dei Consigli si potrebbe accentuare. La parità dei numeri non è una soluzione, anzi potrebbe aumentare le tensioni; diventerebbe decisivo il voto del vicepresidente e si perderebbe quell’equilibrio voluto dalla Costituzione. E non sarebbe un esito auspicabile.
D.4 Con l’esclusione di ogni altra competenza che non sia espressamente indicata dalla Costituzione (ovvero assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari), viene meno la possibile funzione consultiva del Consiglio, così come oggi previste dalla legge n. 195 del 1958: dai pareri richiesti dal Ministro della Giustizia alle proposte sul funzionamento e organizzazione dell’ordinamento giudiziario?
R. Gaetano Azzariti: L’esclusione di ogni altra competenza che non sia espressamente indicata dalla Costituzione (ovvero assunzioni, assegnazioni, trasferimenti, promozioni, provvedimenti disciplinari), rischia certamente di far venir meno anche ogni possibile funzione consultiva del Consiglio, così come oggi previste dalla legge n. 195 del 1958: dai pareri richiesti dal Ministro della Giustizia alle proposte sul funzionamento e organizzazione dell’ordinamento giudiziario.
In questo modo si giungerebbe a negare, a un organo di rappresentanza della magistratura, la stessa possibilità di dare pareri su richiesta o sulle questioni propriamente organizzative, legate ad esempio alla formazione delle tabelle degli uffici giudiziari.
Tra gli atti più criticati del Consiglio, in quanto ritenuti “politici”, ci sono le c.d. pratiche a tutela, le quali però non assumono le forme dei pareri, bensì quelle delle risoluzioni ovvero delle delibere. E pertanto – in quanto collegabili ai giudizi sulle assegnazioni, trasferimenti e promozioni – ben potrebbero comunque rientrare tra le funzioni di autorganizzazione. Con la conseguenza paradossale che il Consiglio non potrebbe più esprimere pareri, ma potrebbe comunque pronunciarsi in difesa corporativa su singoli casi.
Resta poi difficile da capire in quale modo il Consiglio Superiore potrebbe deliberare sulle materie di sua competenza, ad esempio sull’organizzazione degli Uffici, senza esprimere pareri su materie connesse ma fuori dalla sua competenza in quanto non espressamente indicate in Costituzione.
D.5 Il terzo comma dell’articolo 107 della Costituzione per il quale “i magistrati si distinguono solo per funzioni” è abrogato. Cosa comporta o cosa potrebbe comportare l’abrogazione?
R. Gaetano Azzariti: la tutela dell’indipendenza interna dei giudici risulta rafforzata proprio dalla previsione che i magistrati «si distinguono soltanto per diversità di funzioni», la quale esclude la possibilità di una gerarchia all’interno dell’ordine giudiziario. L’abrogazione della disposizione potrebbe avere effetti sull’indipendenza interna, e consentire la reintroduzione di un sistema gerarchico.
D.6 La nomina di professori universitari e avvocati “a tutti i livelli della magistratura giudicante” – non sorretta com’è ora dai requisiti di straordinarietà e autorevolezza – sarebbe una modalità alternativa di reclutamento in linea con la selezione per pubblici concorsi degli impiegati civili dello Stato e in particolare dei magistrati?
R. Gaetano Azzariti: circa la possibilità di nominare, a tutti i livelli della magistratura, avvocati e professori universitari in materie giuridiche al di fuori della selezione dei pubblici concorsi, si rivelano due criticità. La prima riguarda l’armonizzazione con gli artt. 97, ultimo comma, e 106, primo comma, Cost., i quali stabiliscono la regola dell’accesso mediante concorso degli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e dei magistrati in particolare.
La seconda criticità è connessa alla prima ed è legata alla creazione di una modalità alternativa di reclutamento non sorretta com’è ora dai requisiti di straordinarietà e autorevolezza (l’attuale art.106 prevede, infatti che possano essere chiamati all’ufficio di consiglieri di Cassazione professori universitari e avvocati con almeno quindici anni di esercizio, “per meriti insigni”).
D.7 La relazione allegata al disegno di legge costituzionale n.935 per il premierato giustifica la riforma richiamando l’esigenza di contrastare “l’instabilità dei Governi, l’eterogeneità e volatilità delle maggioranze, il «transfughismo» parlamentare, valorizzando il ruolo del corpo elettorale nella determinazione dell’indirizzo politico della Nazione attraverso l’elezione diretta del Presidente del Consiglio dei ministri e la stabilizzazione della sua carica, per dare appoggio e continuità al mandato democratico”. Con il c.d. premierato si potrebbe in effetti conseguire l’obiettivo di rendere stabili i governi?
R. Gaetano Azzariti: È una questione apparente. È vero che i governi durano troppo poco, ma ciò è dovuto essenzialmente ai partiti politici e alla debolezza delle coalizioni. Tutte le crisi sono state, infatti, determinate dalla rottura tra i partiti che di volta in volta erano espressione delle diverse maggioranze. È sui partiti che bisognerebbe dunque intervenire. Non ha fondamento, invece, la richiesta di dare ulteriori poteri al governo. Il governo ha, in realtà, già troppi poteri, e nel corso del tempo si è appropriato di spazi e competenze non suoi. Abusando dei poteri a esso conferiti in via straordinaria, domina il dibattito parlamentare con strumenti che tendono a riaffermare di continuo il suo potere supremo: dalla decretazione d’urgenza ai maxi emendamenti, alle reiterate questioni di fiducia. I poteri del governo dovrebbero quindi essere ridotti e non aumentati; in tal modo si garantirebbe una maggiore autonomia del Parlamento.
D.8 Non vi è l’indicazione di una soglia minima di voti per l’attribuzione del premio, anzi l’attuale formulazione letterale del testo del disegno di legge di riforma prevede che la legge elettorale debba in ogni caso assicurare al premier questa maggioranza quale che sia il numero dei voti ottenuti. Questa disposizione, che sembra sarà oggetto di un emendamento, presenta profili di incostituzionalità?
R. Gaetano Azzariti: la disposizione dovrebbe essere oggetto di un emendamento per la sua soppressione. Per la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 1 del 2014) l’assenza di una soglia percentuale di voti ottenuti (o la previsione di una soglia non “ragionevole”) rappresenta, infatti, una violazione dei principi costituzionali supremi della rappresentatività del Parlamento e dell’eguaglianza del voto che neppure con legge costituzionale possono essere derogati, con la conseguente incostituzionalità di una legge, anche costituzionale, che tale soglia non dovesse prevedere.
D.9 I presentatori e i sostenitori della proposta di riforma sottolineano che essa concerne un limitato numero di articoli della Costituzione e dunque sarebbe “in continuità con la tradizione costituzionale e parlamentare italiana” (così il comunicato del Consiglio dei ministri n. 57/2023).
R. Gaetano Azzariti: Non è la quantità degliarticoli che conta; può essere sufficiente un solo articolo per mutare radicalmente il sistema costituzionale; non è la quantità che fa la qualità.
L’elezione diretta del Presidente del Consiglio può non essere considerata un male in sé, ma lo diventa in un paese come il nostro privo di forti contropoteri e che, a seguito della riforma, perderebbe l’unico organo di garanzia politica attualmente operante. Il Presidente della Repubblica, presidente garante della Costituzione, verrebbe infatti letteralmente travolto dal presidente governante. Rimarrebbe solo il suo simulacro. La forma di governo parlamentare cesserebbe, e dominerebbero le logiche di un presidenzialismo asimmetrico, privo dei contrappesi previsti in altri ordinamenti.
In questa “asimmetria” si cela il rischio più grave per la nostra democrazia. Presupposto di ogni forma di governo che si voglia democratica e non illiberale è la conservazione di un equilibrio tra i diversi poteri: Parlamento, Governo, Magistratura.
D.10 La riforma del premierato incide sulla posizione del Parlamento e del Capo dello Stato? e dunque in generale sulla struttura del nostro sistema democratico? E sulla posizione della Magistratura?
R. Gaetano Azzariti: La riforma – come ho già detto – incide profondamente sulla struttura del nostro sistema democratico, in quanto si squilibrano tutti i poteri, con l’evidente tentativo di passare dalla democrazia pluralista della partecipazione e della rappresentanza a una democrazia del capo.
Una revisione consapevole della Costituzione, dovrebbe invece e anzitutto rafforzare il Parlamento e ristabilire i giusti rapporti con gli altri poteri.
Presidenzialismo o premierato e autonomia differenziata: qualunque opinione si abbia circa tali riforme, è ben certo che le stesse ci condurrebbero in un altro sistema ben diverso da quello disegnato con la Costituzione repubblicana.
Anche per l’autonomia differenziata si pone una questione di equilibri. L’articolo 5 della Costituzione riconosce e promuove le autonomie locali, ma garantisce anche l’unità e indivisibilità della repubblica; la nostra Costituzione garantisce tutti i diritti inviolabili – civili, politici, sociali – su tutto il territorio nazionale. Attribuendo in via esclusiva ad alcune regioni, fatti salvi i livelli essenziali, materie come sanità, scuola, lavoro, tale principio rischia di rimanere lettera morta.
Tutte le riforme in questione vanno nel senso della verticalizzazione. In questo scenario, è ben prospettabile che anche la riforma del premierato possa incidere negativamente sui principi di autonomia e indipendenza della Magistratura.