SOMMARIO:1. L’art. 34 c.p.c.: l’interpretazione tradizionale. – 2. La distinzione tra pregiudizialità logica e pregiudizialità tecnica. – 3. Le ipotesi di pregiudizialità tecnica per legge. – 4. La posizione più recente della giurisprudenza. – 5. L’impostazione che si lascia preferire. – 6. L’impostazione seguita in dottrina da F.P. Luiso. – 7. Conclusioni.

1. L’art. 34 c.p.c.: l’interpretazione tradizionale

Il rapporto tra questione e causa pregiudiziale è disciplinato dal codice di rito che, all’art. 34, così recita: <<Il giudice, se per legge o per esplicita domanda di una delle parti è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene per materia o valore alla competenza di un giudice superiore, rimette tutta la causa a quest’ultima, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui>.

L’art. 34 ha come scopo immediato la disciplina delle deroghe di competenza consentite al fine di realizzare il cumulo di cause (causa principale e causa pregiudiziale) caratterizzate da un nesso di connessione qualificata, nella specie da relazione di pregiudizialità-dipendenza.

L’incipit dell’art. 34 “se per legge o per esplicita domanda di una delle parti” induce a ritenere che l’ambito applicativo della norma sia più ampio dei casi previsti per volontà della legge o per volontà di parte, e ricomprenda anche le ipotesi in cui sussiste il rapporto di pregiudizialità che non è necessario decidere con efficacia di giudicato. La questione oggetto di accertamento incidentale è la sola, rispetto a qualsiasi questione pregiudiziale di rito a di merito, a potersi trasformare in una causa autonoma avente ad oggetto una situazione giuridica soggettiva sostanziale (e, quindi, la tutela giurisdizionale di un diritto), tale da determinare il giudicato.

L’estensione del giudicato alle “questioni pregiudiziali” rappresenta uno degli snodi principali della importante tematica.

In termini generali, questioni pregiudiziali nel senso presupposto dalla norma sono solo le questioni che, oltre a costituire un passaggio obbligato dell’iter logico della decisione, possono costituire oggetto di un giudizio autonomo. Deve trattarsi così di un diritto o rapporto giuridico distinto e non di semplici questioni preliminari di merito (quale la prescrizione) o di semplici questioni di fatto o di diritto (si pensi alla questione relativa alla validità della disdetta in una causa diretta ad ottenere il rilascio dell’immobile locato; Cass., 14.4.1980, n. 2402).

Parte della dottrina, peraltro, ricostruisce la nozione di questione pregiudiziale come categoria più ampia, comprensiva delle questioni preliminari di merito ed in genere di tutte le questioni caratterizzate dalla idoneità a definire il giudizio. Tuttavia, anche questa dottrina non mette in dubbio che l’accertamento incidentale sia prospettabile solo per le questioni suscettibili di trasformarsi in controversia autonoma e di porsi quale oggetto di accertamento con efficacia di giudicato.

La disputa ha radici lontane; essa ha preso avvio nella dottrina tedesca del secolo scorso ed esplosa in Italia, vigente il codice del 1865, nella contrapposizione tra la teoria di Chiovenda degli accertamenti incidentali e quella di Mortara dell’eccezione riconvenzionale.

Come si desume dalla norma, la questione pregiudiziale deve autonomamente valutarsi ai fini della competenza solo se deve essere decisa con efficacia di giudicato: a sua volta, tale necessità si pone solo se, per esplicita domanda di parte oppure per legge, la questione è oggetto di vero e proprio accertamento incidentale. Diversamente la questione è conosciuta incidenter tantum ed è in sé compresa nella competenza del giudice adìto sulla causa principale (in virtù del principio generale per cui “il giudice dell’azione giudice dell’eccezione”). La norma riflette così la tradizionale impostazione chiovendiana secondo cui, in assenza di esplicita domanda, la questione non si trasforma in causa ed è conosciuta con effetti limitati al processo in corso.

Chiovenda, profondamente influenzato dalle idee dominanti nella dottrina tedesca a lui contemporanea, sostenne la limitazione dell’oggetto della pronuncia alla situazione di vantaggio, dedotta in giudizio con la domanda introduttiva.

Egli, pur riconoscendo che la statuizione finale è preceduta dalla decisione di una serie indefinita di punti e che taluno di essi ha struttura tale che potrebbe costituire oggetto di autonomo giudizio, ritenne, però, che la loro soluzione dovesse, di regola, avvenire al limitato fine della pronuncia sul petitum avanzato, vale a dire senza alcuna efficacia al di là della controversia instaurata.

Questi punti, se contestati, sono questioni e possono divenire oggetto del processo e della sentenza, mediante la proposizione di una domanda di accertamento incidentale, per mezzo della quale è operata la trasformazione della questione in causa pregiudiziale.

Tuttavia, a volte, l’accertamento con efficacia di giudicato della situazione condizionante è imposto direttamente dalla legge, in ragione di particolari esigenze di carattere pratico.

Lo stesso Chiovenda avvertì, però, che questo sistema è solo apparentemente semplice e lineare, rivelandosi, invece, estremamente complesso quando si passi dal piano teorico a quello delle applicazioni concrete.

In particolare, egli era pienamente consapevole, per un verso, della necessità di segnare nettamente i confini tra oggetto della pronuncia e pregiudizialità, posto che l’ampiezza dell’una reagisce su quella dell’altra, e, per l’altro verso, della difficoltà di individuare in concreto la volontà delle parti a vedere decisa con efficacia piena la situazione soggettiva pregiudiziale.

Allorché è affrontato il tema relativo al nesso intercorrente tra rapporto giuridico fondamentale e singola pretesa fatta valere, il principio generale accolto è che “se si fa valere con la domanda giudiziale uno soltanto dei diritti, il rapporto giuridico sarà bensì dedotto in giudizio come causa petendi, ma non sarà per sé oggetto del processo e del giudicato”.

A tale impostazione si è mantenuta formalmente fedele per alcuni decenni anche la giurisprudenza, ove si è escluso l’attivazione del meccanismo di rimessione al giudice competente se la questione sia controversa ma nessuna delle parti abbia, anche implicitamente, richiesto la pronuncia con efficacia di giudicato [per alcuni esempi, si rinvia a Consolo: Cass. 27.9.2011 n. 19748, in relazione all’accertabilità incidenter tantum dell’esistenza di un rapporto agrario da parte della sezione ordinaria del tribunale; Cass. 5.7.2011 n. 14650, in relazione alla questione della proprietà del bene in un giudizio di risarcimento dei danni dallo stesso subìti; Cass. 21.7.2003 n. 11320, quanto all’accertamento dell’entità del canone dovuto nel giudizio di risoluzione del contratto locazione per inadempimento del conduttore: Cass. 11.10.2002 n. 14560, secondo la quale la rimessione al giudice superiore si impone solo ove la domanda riconvenzionale implichi la soluzione di una questione pregiudiziale da risolvere con efficacia di giudicato; Cass. 27.3.1996 n. 2733, per l’eccezione di nullità del rapporto; Cass. 3.4.1992 n. 4091, per l’eccezione di usucapione opposta dal convenuto; Cass. 5.2.1991 n. 1076, per la contestazione dell’esistenza del rapporto di lavoro che è presupposto della domanda].

L’impostazione tradizionale è però ampiamente discussa in dottrina. In essa si delineano chiare tendenze ad ammettere, almeno in taluni casi, l’estensione oggettiva del giudizio pur in assenza di un’apposita domanda di accertamento incidentale. Si sostiene, cioè, che almeno in alcune ipotesi la questione pregiudiziale è automaticamente compresa nell’oggetto del giudizio e del futuro giudicato. Non priva di consensi è anzitutto la risalente teorica mortariana dell’”eccezione riconvenzionale”, intesa quale peculiare categoria di rapporti pregiudiziali soggetti alla decisione con efficacia di giudicato solo perché dedotti o contestati (MONTESANO).

La teoria dell’eccezione riconvenzionale richiama per molti versi la dottrina di Savigny del giudicato sugli elementi della pronuncia e rappresenta la più consapevole applicazione tra i nostri autori del principio che la controversia relativa al modo di essere di una situazione pregiudiziale debba necessariamente essere decisa con autorità di giudicato, pur in assenza di apposita domanda di parte.

Il mero esercizio, da parte del convenuto dello ius excipiendi, cui pure non abbia fatto seguito alcuna richiesta di accertamento sotto forma di domanda e ove riguardi un’autonoma situazione soggettiva, provoca un automatico ampliamento dell’oggetto dell’efficacia della sentenza; l’eccezione può, al pari della domanda, in ragione dell’intrinseca natura del suo oggetto, dilatare l’ambito oggettivo della statuizione finale, il quale è, pertanto, determinato non da ciò che è domandato, ma da ciò che è materia di lite tra le parti.

Per quel che concerne l’efficacia della sentenza in ordine all’eccezione riconvenzionale, Mortara distingue: 1) casi in cui l’accertamento della situazione pregiudiziale ha per le parti utilità limitata alla decisione della domanda principale: la sentenza non esercita alcuna efficacia sopra il diritto condizionante; 2) ipotesi in cui le parti hanno un interesse all’accertamento del rapporto pregiudiziale, distinto rispetto a quello alla decisione sul diritto soggettivo fatto valere dall’attore; la pronuncia investe allora con i propri effetti la situazione oggetto dell’eccezione riconvenzionale.

L’estensione dell’efficacia della sentenza al diritto pregiudiziale dipende, pertanto, dall’interesse delle parti (cfr. Relazione Massimario n. 51 del 10.7.2024, a cura di A. Scalera).

Secondo queste impostazioni, nessuna rilevanza ha la volontà delle parti; l’oggetto della pronuncia, in presenza dell’interesse, ricomprende automaticamente, in forza della sola proposizione della eccezione ed indipendentemente da una apposita istanza di parte, la situazione pregiudiziale.

Risultati praticamente non dissimili persegue chi (ORIANI; PROTO PISANI), pur non discorrendo di eccezione riconvenzionale, ritiene che la “previsione di legge”, che vale ad imporre l’accertamento incidentale, vada intesa in senso lato, in modo da giustificare tutta una serie di ipotesi in cui per ragioni di carattere sistematico non sarebbe assolutamente concepibile una cognizione con effetti limitati al processo.

Più radicale è la posizione di chi (PUGLIESE) ritiene che la formazione del giudicato sul rapporto pregiudiziale, lungi dall’essere condizionata alla proposizione di un’apposita domanda, dipenderebbe soltanto dal fatto che il giudice sia dotato di competenza anche rispetto ad esso. L’art. 34 entrerebbe in gioco solo se il rapporto pregiudiziale è estraneo alla competenza del giudice, esigendosi solo in tal caso, ai fini della sua decisione con efficacia di giudicato e dello spostamento di competenza, l’esplicita domanda di parte.

Una questione pregiudiziale idonea a configurarsi quale causa pregiudiziale postula non solo che vi sia una domanda di parte relativa ad un punto costituente un antecedente logico necessario, di fatto o di diritto, rispetto alla decisione della controversia principale proposta – che come tale può essere accertato in via incidentale – ma anche che tale questione assuma un rilievo autonomo, in quanto destinato a proiettare le sue conseguenze giuridiche, oltre il rapporto controverso, su altri rapporti, al di fuori della causa, con la formazione della cosa giudicata a tutela di un interesse giuridico concreto, che trascende quello inerente alla soluzione della controversia nel cui ambito la questione è stata sollevata (Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 24427 del 08/08/2022).

2. La distinzione tra pregiudizialità logica e pregiudizialità tecnica

Un superamento solo parziale dell’interpretazione tradizionale è dovuto alla distinzione tra “pregiudizialità logica” e “pregiudizialità tecnica” (MENCHINI e, in giurisprudenza, Cass. 21.1.2005 n. 1338, Cass. 6.3.2001 n. 3248, Cass. 19.1.1999 n. 462).

La modificazione della competenza per ragioni di connessione può determinarsi, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., soltanto in caso di pregiudizialità tecnica – che ricorre se, in ragione di una disposizione di legge o di una domanda di parte, è necessario decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale – e non anche in ipotesi di mera pregiudizialità logica (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 19934 del 19/07/2024).

Com’è noto, la consolidata giurisprudenza afferma che, in tema di questioni pregiudiziali, occorre distinguere quelle sono tali soltanto in senso logico, in quanto investono circostanze che rientrano nel fatto costitutivo del diritto dedotto in causa e devono essere necessariamente decise incidenter tantum e questioni pregiudiziali in senso tecnico, che concernono circostanze distinte ed indipendenti dal fatto costitutivo, del quale, tuttavia, rappresentano un presupposto giuridico, e che possono dar luogo ad un giudizio autonomo, con la conseguenza che la formazione della cosa giudicata sulla pregiudiziale in senso tecnico può aversi, unitamente a quella sul diritto dedotto in lite, solo in presenza di espressa domanda da parte di soluzione della questione stessa (così, ad esempio, Cass. 13 aprile 1995 n. 4229; cfr. altresì Cass., Sez. 3, Sentenza n. 10130 del 02/08/2000).

L’area disciplinata dall’art. 34 resta riservata alla “pregudizialità tecnica”, intesa quale relazione intercorrente tra rapporti geneticamente distinti, sebbene esteriormente collegati da un nesso di condizionalità (ad es., qualità di proprietario dell’autoveicolo rispetto all’azione di responsabilità ex art. 2054, comma 3, c.c.; qualità di erede rispetto alla causa sul credito ereditario; status familiare rispetto alla domanda di alimenti).

In questo contesto si argomenta la presenza di una serie di situazioni in cui il rapporto pregiudiziale, pur essendo concepibile come oggetto di un separato processo, è però implicitamente ed automaticamente dedotto ad oggetto del giudizio con la domanda che deduce il diritto dipendente [MENCHINI]. Si tratta dei casi in cui il rapporto pregiudiziale è dato dal rapporto obbligatorio complesso (il rapporto obbligatorio cd. fondamentale): in tali casi non si è in realtà in presenza di rapporti giuridici distinti ed eterogenei, bensì di un complesso unitario dal punto di vista genetico (per es., il rapporto di società, di locazione o di lavoro rispetto alla singola pretesa fatta valere, o ancora il titolo dell’obbligazione rispetto alla singola rata fatta valere): cd. pregiudizialità in senso logico. L’area della pregiudizialità in senso logico è così sottratta al campo di applicazione dell’art. 34, poiché la situazione pregiudiziale è automaticamente posta ad oggetto del giudizio già in virtù della domanda originaria (Cass. 16.3.2010 n. 6363, Cass. 14.5.2004 n. 9251, Cass. 24.2002 n. 4638; in senso contrario Cass. 27.3.1996 n. 2733, Cass., sez. un. 27.1.1993 1004, C 25.11.1991 n. 12633).

In quest’ottica, il giudicato non copre soltanto la statuizione finale relativa al bene della vita controverso, bensì si estende a tutte le questioni costituiscono la premessa o il presupposto logico necessario e presupposto essenziale della decisione.

La coerenza è talora recuperata là dove si esclude che l’orientamento sia riferibile alle pregiudiziali vere e proprie cc.dd. in senso tecnico, per le quali la decisione con efficacia giudicato torna invece a ricondursi al quadro dell’art. 34, e così ad essere condizionata alla esplicita domanda di parte (per la distinzione tra questioni pregiudiziali in senso logico e questioni pregiudiziali in senso tecnico, rispetto alle quali la formazione del giudicato dipende dalla presenza della esplicita domanda di parte, Cass. 2.8.2000 n. 10130).

La menzionata dottrina ha distinto le questioni pregiudiziali tra quelle in senso logico e quelle in senso tecnico e ne ha messo in risalto i rispettivi risvolti processuali.

In particolare, è stato affermato che la “pregiudizialità tecnica” fa riferimento all’ipotesi in cui vi siano due differenti diritti o rapporti giuridici connessi per pregiudizialità e che, invece, la “pregiudizialità logica” faccia riferimento al nesso intercorrente tra un rapporto giuridico ed un suo effetto, ossia “di una relazione tra la parte ed il tutto”.

In altri termini, mentre la “pregiudizialità in senso tecnico” farebbe riferimento al nesso intercorrente tra fattispecie autonome, la “pregiudizialità in senso logico” indicherebbe il nesso di condizionamento tra il rapporto giuridico fondamentale e l’effetto che la legge fa scaturire da questo e si manifesterebbe in relazione al funzionamento della fattispecie costitutiva del rapporto giuridico.

La dottrina più moderna recepisce la distinzione tra questioni pregiudiziali “in senso logico” e questioni pregiudiziali “in senso tecnico” e, tuttavia, ritiene che solo le prime rientrino in automatico nell’ambito dell’oggetto del giudizio e del giudicato, anche in assenza di contestazioni da parte del convenuto.

Ciò vale a dire che la deduzione in giudizio di un singolo diritto derivante da una fattispecie più ampia comporta un’estensione automatica del giudicato al rapporto fondamentale.

Dunque, sebbene la domanda abbia ad oggetto una situazione elementare facente parte di un più ampio rapporto giuridico fondamentale, la cognizione del giudice si estende in automatico, anche in assenza di domanda di una previsione di legge, a quest’ultimo e, conseguentemente, l’accertamento giudiziale posto in essere in relazione a questo rientra automaticamente nell’ambito oggettivo del giudicato.

Questo orientamento, sostenuto da parte della dottrina e dalla giurisprudenza assolutamente prevalente, risulta coerente con l’impianto valoriale del processo civile italiano.

Invero, in primo luogo, lo stesso è rispettoso sia del principio di stabilità sia del principio di armonizzazione delle decisioni giudiziarie, posto che un accertamento giudiziale che si estenda automaticamente anche al rapporto fondamentale da cui scaturisce la posizione elementare di cui richiede tutela è dotato di maggiore solidità e permette di evitare successive pronunce contrastanti.

In secondo lungo, è rispettoso del principio di economia processuale, permettendo di addivenire ad una soluzione definitiva non solo in relazione alla posizione elementare, ma anche in relazione al rapporto fondamentale da cui la prima scaturisce e che se rappresenta il presupposto logico-indefettibile: in questo modo, dunque, si evita una moltiplicazione seriale dei processi e si offre alle parti una soluzione complessiva già entro il primo procedimento.

Tra la domanda di risarcimento del danno relativa all’an debeatur e quella relativa al quantum debeatur, ad esempio, non si pone un rapporto di piena alternatività, ma un rapporto di pregiudizialità logica, non soggetta all’applicazione dell’art. 34 c.p.c., che, invece, riguarda la diversa fattispecie della pregiudizialità tecnica; ne consegue che, nell’ipotesi in cui le due domande siano proposte contemporaneamente davanti a due giudici diversi, non deve procedersi alla sospensione necessaria del giudizio sul quantum in attesa della definizione di quello sull’an, mentre, in caso di contemporanea proposizione delle domande al medesimo giudice, quella pregiudiziale non deve essere decisa autonomamente, poiché l’accertamento sul diritto pregiudicato (oggetto della domanda di condanna specifica) implica quello sul rapporto pregiudicante (oggetto della domanda di condanna generica), a cui si estende l’effetto di giudicato (per Cass., Sez. U, Ordinanza n. 14060 del 26/07/2004, in tal caso è applicabile l’art. 337, secondo comma, c.p.c., il quale, in caso di impugnazione di una sentenza la cui autorità sia stata invocata in un separato processo, prevede soltanto la possibilità della sospensione facoltativa di tale processo, e tenuto conto altresì del fatto che, a norma dell’art. 336, secondo comma, c.p.c., la riforma o la cassazione della sentenza sull’an debeatur determina l’automatica caducazione della sentenza sul quantum anche se su quest’ultima si sia formato un giudicato apparente, con conseguente esclusione del conflitto di giudicati; conf. Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 20351 del 23/07/2024).

A ben vedere, peraltro, tale posizione non è molto distante da quella espressa in passato da Chiovenda.

Invero, già questi aveva introdotto alcune significative deroghe al principio generale.

In primo luogo, ove si tratti di rapporti giuridici semplici, i quali, cioè, si esauriscono in un solo diritto, la regola è capovolta, in quanto oggetto della domanda è necessariamente anche la dichiarazione di esistenza del rapporto. In secondo luogo, nei rapporti giuridici complessi, bisogna distinguere fra i vari diritti che ne fanno parte quelli che hanno carattere principale o fondamentale o centrale, poiché, quando questi sono fatti valere, deve ritenersi che oggetto della domanda e del giudicato sia senz’altro e direttamente, insieme con il diritto fatto valere, anche il rapporto giuridico stesso.

Ad esempio, il Chiovenda afferma che, nel diritto di proprietà, la facoltà principale consiste nel pretendere che tutti si astengano dal godimento della cosa e quindi dal possesso che è condizione del godimento; perciò la revindica non è in realtà che lo stesso diritto di proprietà fatto valere tutto quanto contro l’attuale possessore, il che si esprime dicendo che il diritto di proprietà non è semplicemente pregiudiziale alla revindica, ma è fatto valere con questa.

Un fenomeno analogo può aversi in caso di actio negatoria. Qui l’attore fa valere in giudizio semplicemente il suo diritto di proprietà, e considera gli atti con cui il convenuto ha esercitato la sua pretesa servitù semplicemente come atti contrari al suo diritto di proprietà, come se si trattasse di una azione di revindica. Questa è anche la ragione per cui l’attore ha l’onere di provare non l’inesistenza della servitù, come se si trattasse d’azione d’accertamento negativo, ma soltanto il suo diritto di proprietà.

A dire il vero, in tema di actio negatoria servitutis, la titolarità del bene si pone come requisito di legittimazione attiva e non come oggetto della controversia, sicché la parte che agisce in giudizio per far accertare l’inesistenza dell’altrui diritto di servitù su un fondo del quale affermi di essere il proprietario ha l’onere non già di fornire, come nell’azione di revindica, la prova rigorosa della proprietà del fondo, ma di dimostrare, con ogni mezzo e anche in via presuntiva, di possederlo in forza di un valido titolo, atteso che detta azione non tende necessariamente all’accertamento dell’esistenza della titolarità della proprietà, ma all’ottenimento della cessazione dell’attività lesiva, spettando, invece, al convenuto l’onere di provare l’esistenza del proprio diritto, in virtù di rapporto di natura obbligatoria o reale, di compiere l’attività lamentata come lesiva dalla controparte (Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 1905 del 23/01/2023; cfr. altresì Cass., Sez. 2, Sentenza n. 472 del 11/01/2017).

3. Le ipotesi di pregiudizialità tecnica per legge

Ipotesi di questioni pregiudiziali per cui la cognizione incidenter tantum è esclusa per legge sono consuetamente ravvisate nella questione della validità del precedente matrimonio nel giudizio di impugnazione del secondo per bigamia [art. 124 c.c.; Cass. 4.3.1980 n. 1436] o nella questione della esistenza del credito eccepito in compensazione (come si desume dall’art. 35). La prima previsione viene, del resto, ritenuta espressione di un principio generale secondo cui le questioni di stato dovrebbero essere sempre decise con efficacia di giudicato per volontà di legge [Cass. 12.4.1980 n. 2220; Cass. 4.3.1980 n. 1436, relativamente alla questione dell’esistenza del rapporto di filiazione naturale).

In tema di compensazione dei crediti, ad esempio, se è controversa, nel medesimo giudizio instaurato dal creditore principale o in altro già pendente, l’esistenza del controcredito opposto in compensazione, il giudice non può pronunciare la compensazione, neppure quella giudiziale, perché quest’ultima, ex art. 1243, comma 2, c.c., presuppone l’accertamento del controcredito da parte del giudice dinanzi al quale è fatta valere, mentre non può fondarsi su un credito la cui esistenza dipenda dall’esito di un separato giudizio in corso e prima che il relativo accertamento sia divenuto definitivo; in tale ipotesi, resta pertanto esclusa la possibilità di disporre la sospensione della decisione sul credito oggetto della domanda principale, ed è parimenti preclusa l’invocabilità della sospensione contemplata in via generale dall’art. 295 c.p.c. o dall’art. 337, comma 2, c.p.c., in considerazione della prevalenza della disciplina speciale dell’art. 1243 c.c. (Cass., Sez. U, Sentenza n. 23225 del 15/11/2016; conf. Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 27113 del 18/10/2024).

In una prospettiva parzialmente diversa si collocano i casi in cui la giurisprudenza esclude la cognizione incidenter tantum di questioni soggette alla giurisdizione di un giudice diverso da quello civile ordinario o alla competenza di organi specializzati. Ad esempio, si esclude qualsiasi potere di accertamento del giudice civile ordinario, anche di mera cognizione incidenter tantum, delle questioni devolute alla giurisdizione esclusiva delle commissioni tributarie (Cass. 24.10.1997 n. 10546: Cass. 28.1.1993 n. 1052; Cass. 5.7.1990 n. 7019; Cass. 10.5.1990 n. 3843, Cass. 5.2.1988 n. 1200; ammette la cognizione incidenter tantum da parte del giudice civile solo se la questione tributaria ha esclusivo rilievo nell’ambito del rapporto privatistico Cass., sez. un., 14.12.1992 n. 13199), oppure in ordine alle questioni soggette alla competenza del tribunale regionale delle acque pubbliche (così per la questione della demanialità delle acque Cass. 31.5.1986 n. 3692). All’opposto si ammette la cognizione incidenter tantum delle questioni rientranti nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo (così, ad es., per la questione sulla natura di pubblico impiego del rapporto pregiudiziale a causa previdenziale instaurata presso il giudice ordinario: Cass., sez. un., 4.1.1993 n. 7, Cass. 5.2.1991 n. 1076).

Per quanto riguarda, infine, la configurabilità della domanda di accertamento incidentale sul rapporto pregiudiziale intercorrente fra una delle parti e un terzo, minoritaria è l’opinione che ne esclude l’ammissibilità [FRANCHI; in senso opposto FABBRINI]. Secondo l’orientamento prevalente in giurisprudenza, riguardo al rapporto con il terzo è configurabile tanto la cognizione incidenter tantum che la domanda di accertamento incidentale, e solo in quest’ultimo caso è necessaria la chiamata in giudizio del terzo (Cass. 16.2.2005 n. 3105; Cass. 21.1.1992 n. 675; Cass. 28.4.1987 n. 4104; Cass. 17.1.1986 n. 320; Cass. 29.11.1983 n. 7152; C 11.8.1981 n. 4904; Cass. 7.1.1981 n. 79).

4. La posizione più recente della giurisprudenza

In primo luogo, merita di essere richiamato l’arresto nomofilattico di S.U. n. 21763 del 29/07/2021 (Rv. 662227-03), secondo cui <<In tema di sospensione del giudizio per pregiudizialità necessaria, salvi i casi in cui essa sia imposta da una disposizione normativa specifica che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell’art. 295 c.p.c. (e, se disposta, può essere proposta subito istanza di prosecuzione ex art. 297 c.p.c.), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell’art. 337, secondo comma, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell’art. 336, secondo comma, c.p.c.>>.

In particolare, S.U. n. 21763/2021 afferma che <<integra questione pregiudiziale la sussistenza della pregiudizialità tecnica o tecnico-giuridica o in senso stretto qualora vengano n considerazione più rapporti giuridici uno dei quali (quello pregiudiziale) appartiene alla fattispecie dell’altro che da quello dipende (pregiudicato); in sostanza, l’oggetto della causa pregiudicata non può essere deciso come sancisce la norma stessa senza la necessaria e preventiva definizione, con efficacia di giudicato, della causa pregiudicante; in tal caso, l’accertamento di un diritto presuppone l’accertamento di un altro diritto (ad esempio, lo status familiae quale fatto costitutiva rispetto all’obbligo alimentare oppure il diritto di proprietà del veicolo che ha cagionato il sinistro come fatto costitutivo dell’obbligazione risarcitoria ex art. 2054 c.c.); integra punto pregiudiziale la sussistenza della pregiudizialità logica, qualora un antecedente logico necessario va risolto incidenter tantum rispetto alla decisione della domanda principale che da esso dipende; in tal caso, l’accertamento dell’esistenza, della validità e della natura di un rapporto giuridico costituisce il presupposto di un diritto (ad esempio, nelle domande di adempimento contrattuale, il contratto rispetto alla pretesa di adempimento dedotta in causa; il pagamento del canone rispetto al contratto di locazione)>>.

Tra le decisioni più recenti sull’argomento va menzionata Sez. 1, Ordinanza n. 24427 dell8/08/2022 (Rv. 665626-01), secondo cui <<affinché una questione pregiudiziale si trasformi in causa pregiudiziale è necessario, oltre alla domanda di parte, anche un interesse ad agire effettivo, che travalichi quello immediato e circoscritto alla sola definizione della causa iniziale, e consistente nell’attitudine della questione a influire su altri rapporti, proiettando su di essi le sue conseguenze giuridiche>>.

Ed ancora, Sez. Lav., Ordinanza n. 41895 del 29/12/2021 (Rv. 663372-01), che riporta la distinzione tra pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica: la prima <<si verifica qualora vengano in considerazione due o più rapporti giuridici, uno dei quali (quello pregiudiziale) appartiene alla fattispecie dell’altro, che dipende da esso (quello pregiudicato)>>; la seconda (pregiudizialità logica) si verifica, invece, quando nell’ambito di un unico rapporto giuridico l’accertamento di un diritto richiede il previo accertamento di una situazione giuridica che è comune ad altri diritti nascenti dal medesimo rapporto>>.

Sez. Lav., n. 41895/2021 afferma, inoltre, che <<Nel primo caso l’accertamento di un diritto presuppone l’accertamento di un altro diritto; ad esso si riferisce l’articolo 34 cod. proc. civ., secondo cui l’accertamento di una questione pregiudiziale non è idoneo a passare in giudicato, salvi i casi in cui una decisione con efficacia di giudicato sia richiesta per legge o per apposita domanda di una delle parti. Nel secondo caso, invece, vi è un punto pregiudiziale, ovvero un antecedente logico necessario – comune a due diverse domande relative ad uno stesso rapporto giuridico; la pronuncia resa al riguardo acquista l’efficacia del giudicato, indipendentemente da una domanda di parte. Si è detto al riguardo che il giudicato copre le questioni che rientrano nel fatto costitutivo del diritto dedotto in causa, alle quali si riferisce la locuzione “pregiudiziale in senso logico”>>.

Mette conto, poi, riportare quanto statuito da Sez. 3, Sentenza n. 8093 del 3.4.2013 (Rv. 625650 01), secondo cui <<Il punto pregiudiziale si concreta in un qualunque presupposto logico-giuridico o di fatto che sia necessario al giudice accertare per giungere ad accordare il bene richiesto dall’attore ed importa che esso venga deciso normalmente in via strumentale ed incidentale (appunto, incidenter tantum) senza alcuna efficacia autonoma e ciò tanto nel caso che il punto non sia stato contestato quanto nell’ipotesi inversa in cui vi sia stata contestazione e, quindi, sia stata data origine ad una questione pregiudiziale. Tuttavia, affinché la questione pregiudiziale importi la instaurazione di una causa pregiudiziale, non è sufficiente che la parte o le parti chiedano sulla questione un accertamento con efficacia di giudicato. A tal uopo, il richiedente deve dimostrare che la domanda di accertamento con efficacia di giudicato autonomo risponda ad un’esigenza che trascende quella immediata alla soluzione della causa in corso, vale a dire che deve essere resa palese la idoneità della questione che forma oggetto della richiesta ad influire su liti diverse da quella per comporre la quale la questione stessa é sorta>>.

E’ pacifico che la domanda di accertamento incidentale non è ammissibile se non sorretta da un interesse effettivo alla decisione della questione con efficacia di giudicato.

5. L’impostazione che si lascia preferire

Si definisce “pregiudiziale” quella situazione sostanziale, la cui esistenza assume rilevanza per stabilire se sussista o meno il diritto azionato; quella questione, cioè, che, pur non interessando l’oggetto della pronuncia, deve essere risolta dal giudice per decidere la domanda proposta.

In altre parole, la c.d. pregiudizialità di merito può essere definita come il riflesso delle relazioni sostanziali intercorrenti fra due o più situazioni giuridiche soggettive o rapporti giuridici, ove uno dei quali – il cd. pregiudiziale o “fatto-diritto” – costituisce un elemento costitutivo di quello dipendente.

La questione sulla quale la dottrina si è a lungo interrogata è se le questioni pregiudiziali sono conosciute incidenter tantum, cioè con effetti limitati al processo in corso, oppure sono decise con autorità di cosa giudicata, cioè con effetti vincolanti in ogni futuro processo, pur avente un oggetto diverso.

Sul problema dell’estensione dell’efficacia della sentenza alle questioni pregiudiziali non si ha uniformità di vedute: in particolare, mentre parte della dottrina e della giurisprudenza limitano l’autorità del giudicato alla decisione relativa al petitum, altri autori e la giurisprudenza maggioritaria ampliano l’efficacia vincolante della sentenza sino a ricomprendere l’accertamento di quegli elementi, che costituiscono i presupposti logici necessari della pronuncia.

Una fattispecie in presenza della quale si è particolarmente discusso in dottrina se la questione relativa all’esistenza della situazione giuridica violata rientri nell’oggetto del giudizio e sia decisa con efficacia di giudicato ovvero sia oggetto di mera cognizione incidentale (salvo l’accertamento con efficacia di giudicato, ai sensi dell’art. 34) è quella che si realizza allorquando nel processo venga fatta valere la violazione di un diritto reale o assoluto.

Ci si domanda: ove l’attore faccia valere una pretesa di contenuto negativo oppure di contenuto positivo, volta alla tutela o al ripristino della propria posizione di signoria sulla cosa, oggetto del giudicato è soltanto il riconoscimento della esistenza o dell’inesistenza dell’obbligo dedotto in giudizio (si pensi a quello di restituzione della cosa), o anche l’accertamento della situazione reale, che questo tende a realizzare?

La nostra dottrina ricostruisce il diritto reale come situazione composita, ossia come aggregato di poteri e facoltà del titolare sulla cosa e di doveri di astensione dei terzi rispetto alla stessa. Le singole facoltà ed i singoli doveri di astensione non sono distinguibili, come entità autonome, dal diritto reale; non sono ontologicamente differenziabili da questo; sono, anzi, ricompresi in esso e ne esprimono il contenuto.

Sembra naturale, secondo una certa impostazione (FAZZALARI), sostenere che la deduzione in giudizio di una situazione semplice (ad esempio, dell’obbligo restituzione della cosa) si risolve nella richiesta di tutela dello stesso rapporto complesso (esempio, proprietà), del quale fa prima esprime solo in parte il contenuto.

Nell’ambito di questo orientamento dottrinale, vi è, poi, chi sostiene che occorre esaminare il contenuto della decisione per determinare l’oggetto del giudicato.

Infatti, si afferma che il provvedimento di accoglimento dell’azione di rivendicazione fa stato in ordine non soltanto all’obbligo di restituzione, ma anche alla titolarità del diritto di proprietà in capo all’attore. Riguardo alle sentenze di rigetto, bisogna invece distinguere; infatti, ove il rigetto si fondi sulla declaratoria di inesistenza del diritto di proprietà dell’attore, è negata con autorità di giudicato la proprietà. Al contrario, se la pronuncia negativa si basa sull’accertamento dell’inesistenza di un altro fatto costitutivo (ad esempio, sul rilievo che il convenuto non è possessore), non si ha alcuna decisione, neppure implicita, in ordine alla proprietà e resta perciò, impregiudicata la possibilità di farla valere in un successivo processo.

Questa impostazione – che estende, dunque, l’oggetto del giudizio dalla situazione semplice (il diritto fatto valere) alla situazione complessa sottostante (il rapporto reale) – trova conferma nella giurisprudenza maggioritaria e nella dottrina tedesca e d’oltralpe.

Questa regola è espressa da due massime di frequente applicazione: per la prima di esse non soltanto la pronuncia finale, con la quale venga riconosciuto ad una delle parti il bene della vita controverso, ma anche gli accertamenti che si presentino come presupposti logici necessari della decisione sono coperti dall’autorità di cosa giudicata [tra le più recenti pronunce, si veda Sez. 3, Ordinanza n. 5486 de 25/02/2019: <<L’autorità di giudicato copre sia il dedotto, sia il deducibile, cioè non soltanto le ragioni giuridiche fatte espressamente valere, in via di azione o in via di eccezione, nel medesimo giudizio (giudicato esplicito), ma anche tutte quelle altre che, se pure non specificamente dedotte o enunciate, costituiscano, tuttavia, premesse necessarie della pretesa e dell’accertamento relativo, in quanto si pongono come precedenti logici essenziali e indefettibili della decisione (giudicato implicito)>>; Sez. L. Ordinanza n. 25745 del 30/10/2017: <<Il giudicato copre il dedotto e il deducibile in relazione al medesimo oggetto e, pertanto, riguarda non solo le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che, sebbene non dedotte specificamente, costituiscono precedenti logici essenziali e necessari della pronuncia>>].

Per la seconda, qualora due giudizi tra le stesse parti vertano sul medesimo rapporto o negozio giuridico, l’accertamento compiuto circa una questione di fatto o di diritto, che incida su un punto fondamentale comune ad entrambe le cause ed abbia costituito la premessa logica della statuizione, preclude il riesame del punto accertato e risolto, anche quando l’altro giudizio abbia finalità diverse da quelle che rappresentano lo scopo ed il petitum del primo.

Orbene, in fattispecie quale quella presa in esame, si deroga alla regola generale ex art. 34 c.p.c., in base alla quale la questione pregiudiziale si trasforma in causa pregiudiziale solo per il tramite di una domanda tempestivamente proposta.

Invero, il diritto di proprietà non è semplicemente pregiudiziale all’actio negatoria, ma è fatto valere con questa. Come logico corollario di questo approccio, se, con l’actio negatoria servitutis, si fa valere il diritto di proprietà, non potrebbe dirsi nuova la domanda di accertamento di un siffatto diritto, trattandosi di una domanda diretta essenzialmente ad ottenere gli effetti di una esplicita pronuncia con forza di giudicato, che, altrimenti, rimarrebbe implicita.

Dunque, sebbene la domanda abbia ad oggetto una situazione elementare facente parte di un più ampio rapporto giuridico fondamentale, la cognizione del giudice si estende in automatico anche in assenza di domanda o di una previsione di legge a quest’ultimo e, conseguentemente, l’accertamento giudiziale posto in essere in relazione a questo rientra automaticamente nell’ambito oggettivo del giudicato.

6. L’impostazione seguita in dottrina da F.P. Luiso

Nel solco di quanto esposto nel § che precede si inserisce l’autorevole tesi esposta da LUISO.

L’Autore parte da due esempi pratici:

1)         diritto agli alimenti (art. 438 c.c.) à fattispecie caratterizzata da: a) uno stato di bisogno incolpevole dell’alimentando (mero fatte); b) una situazione florida dell’alimentatore (mero fatto); c) un rapporto di parentela fra i due (status) (situazione giuridica);

2)         fattispecie risarcitoria à danno ingiusto, dolo o colpa e fatto illecito + proprietà dell’oggetto che ha prodotto il danno (ad es., il proprietario dell’autovettura che ha prodotto il danno è responsabile per il risarcimento dei danni prodotti, ex art. 2054, comma 3, c.c.). Pertanto, un elemento della fattispecie è il diritto di proprietà (elemento o effetto giuridico), che non è un mero fatto.

Poi analizza i casi in cui oggetto della prima decisione è il diritto pregiudiziale, facendo i seguenti esempi di rapporto di pregiudizialità:

1) la fattispecie costitutiva da cui nasce il diritto e, correlativamente, l’obbligo agli alimenti, è composta da tre elementi: A) il debitore deve essere un soggetto benestante; B) deve esserci un bisogno incolpevole dell’alimentato; X) tra debitore e creditore deve esistere un rapporto di parentela. A+ B+ X danno vita all’obbligazione alimentare Y: A e B sono meri fatti storici, rilevanti solo come elementi della fattispecie Y; lo status di parentela (X) è invece una situazione sostanziale, quindi possibile oggetto di una precedente sentenza passata in giudicato. Ipotizziamo che ci sia una tale sentenza, che alternativamente abbia dichiarato oppure negato che le parti del processo alimentare siano padre e figlia. Quando si discute degli alimenti, si deve anche accertare se attore e convenuto sono padre e figlia, e su tale punto esiste una precedente sentenza passata in giudicato. Il giudice deve prendere per buono quanto statuito in quella sentenza, o deve autonomamente istruire la questione, ed autonomamente deciderla?

2) l’ordinamento prevede delle ipotesi di responsabilità solidale tra colui che commette un fatto illecito (responsabile principale) e il proprietario del bene che è servito a compiere l’illecito (art. 2054, comma 3, c.c.). A (incidente stradale) e B (danni provocati) sono fatti storici che volta per volta si dovranno accertare, ma su X (che l’obbligato sia proprietario dell’autoveicolo che ha prodotto i danni) può esserci una sentenza passata in giudicato. Quando il giudice del processo sul diritto (dipendente) al risarcimento dei danni deve accertare se effettivamente il convenuto è proprietario dell’autoveicolo che ha prodotto i danni, potrebbe esserci una precedente sentenza in cui si è statuito che la proprietà dell’autoveicolo spetta (o non spetta) al convenuto.

3) tra capitale ed interessi vi è un rapporto di pregiudizialità- dipendenza. L’esistenza dell’obbligo di pagare il capitale è fatto costitutivo dell’obbligo di pagare gli interessi: gli interessi presuppongono sempre che vi sia o vi sia stato l’obbligo di pagare il capitale. Una volta accertata, con sentenza passata in giudicato, la debenza del capitale, quando si discuterà degli interessi (e quindi ci si chiederà se il capitale era dovuto), il giudice deve attenersi a quanto statuito nella prima sentenza, oppure deve autonomamente istruire la questione (della debenza del capitale) ed autonomamente deciderla?

La soluzione, pacifica, al problema la individua nell’art. 2909 c.c., il quale stabilisce che l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato ad ogni effetto. Quando si è definito con sentenza passata in giudicato il modo di essere del diritto pregiudiziale e nel secondo processo si discute della situazione dipendente, le parti e il giudice del secondo processo sono vincolati a ciò che è stato deciso sulla situazione pregiudiziale.

1) Nel secondo processo il giudice, per accertare se esiste il diritto agli alimenti, darà di A e B la configurazione che risulterà dall’istruttoria della causa, mentre di X non potrà dare altra configurazione che quella che scaturisce dalla precedente sentenza passata in giudicato.

2) Se si è stabilito che il capitale era dovuto dall’1.10.1999, rimane incontestabile, nel successivo processo relativo agli interessi, che questi sono dovuti dall’1.10.1999 fino al momento in cui il capitale è stato pagato.

L’Autore passa poi ad analizzare il caso in cui oggetto della prima decisione è il diritto dipendente.

Per condannare al risarcimento dei danni il proprietario dell’autoveicolo che ha prodotto l’incidente, il giudice deve convincersi che il soggetto a cui si chiedono i danni è (o meglio, era al momento dell’incidente) effettivamente il proprietario dell’autoveicolo. Per accertare un obbligo alimentare, il giudice deve convincersi che esiste un rapporto di parentela. Per condannare agli interessi, il giudice deve convincersi che è esistito per un certo periodo l’obbligo relativo al capitale.

Si tratta di stabilire se ciò che il primo giudice (nel processo avente ad oggetto il diritto dipendente) ha detto della situazione pregiudiziale forma giudicato; se, all’interno del secondo processo che ha per oggetto la situazione pregiudiziale, la configurazione di questa è bloccata dalla precedente sentenza o è liberamente discutibile. Ad es.: una volta che il primo giudice occupandosi del rapporto alimentare – abbia detto che attore e convenuto sono padre e figlia, nel secondo processo, che ha ad oggetto (proprio) l’esistenza del rapporto di filiazione, si può discutere liberamente del modo di essere di tale rapporto, oppure no?

Individua la soluzione parziale del problema nell’art. 34 c.p.c.. La decisione della questione pregiudiziale ha efficacia di giudicato solo se nel precedente processo, quando è stata discussa, vi è stata l’esplicita domanda di una delle parti, oppure la legge prevede (ma sono ipotesi rarissime) che della questione pregiudiziale si debba decidere con efficacia di giudicato. Se è mancata la domanda di parte o non sussiste la previsione di legge, ciò che il giudice del primo processo (sul diritto dipendente) ha detto circa il modo di essere della situazione pregiudiziale non costituisce una decisione con efficacia di giudicato, ma una mera cognizione incidenter tantum (cioè finalizzata esclusivamente alla decisione del diritto dipendente, oggetto del processo).

La soluzione appena esposta (definita espressamente come parziale), e che si fonda sull’art. 34 c.p.c., è praticamente indiscussa con riferimento alle ipotesi in cui un diritto entra a comporre la fattispecie di un altro diritto (cd. pregiudizialità in-senso tecnico). Il problema che si pone (e che è molto dibattuto) è se la stessa disciplina appena illustrata si applichi anche alla cd. pregiudizialità in senso logico, cioè a quelle ipotesi in cui viene dedotto in giudizio uno degli effetti di un rapporto giuridico (che, come tutti i rapporti giuridici, ha una pluralità di effetti). Se il giudice, per decidere dell’esistenza o inesistenza del diritto, che costituisce uno degli effetti del rapporto giuridico, ha preso posizione sull’esistenza o sulla qualificazione del rapporto a cui quell’effetto si riallaccia, ci si domanda se tale statuizione estende la sua efficacia anche all’esistenza o inesistenza o qualificazione del rapporto giuridico presupposto.

Anche qui soccorrono alcuni casi pratici:

1)  Tizio (lavoratore) chiede a Caio il pagamento della tredicesima (o il riconoscimento delle ferie non godute; in entrambi i casi trattasi di un diritto dipendente), affermando l’esistenza di un rapporto di lavoro dipendente. Il giudice, per statuire sulla tredicesima, porta la sua cognizione sull’esistenza del rapporto di lavoro dipendente. La sentenza passa in giudicato. In seguito Caio (datore di lavoro) chiede a Tizio il risarcimento dei danni per violazione dell’obbligo di fedeltà (altro obbligo, come la tredicesima, tipico del rapporto di lavoro dipendente). Ci si chiede: nel secondo processo è vincolante la qualificazione che, nella prima sentenza, il giudice ha dato del tipo di rapporto intercorrente tra le parti? Il giudice del secondo processo è vincolato a ritenere che tra le parti sussiste un rapporto di lavoro dipendente, o potrebbe anche, ad es., giungere alla conclusione che si tratta di un rapporto di lavoro autonomo, e quindi rigettare la domanda di Caio?

2) Tra Tizio (acquirente) e Caio (venditore) è stato stipulato un contratto di compravendita di un’auto. Tizio, acquirente, chiede la consegna del bene sulla base del contratto, Caio, venditore, eccepisce che il contratto è inesistente o invalido (nullo, annullabile, etc.). Il giudice prende posizione su tale difesa, la ritiene fondata, e quindi rigetta la domanda. Successivamente Caio, in un secondo processo, fa valere un altro effetto (diritto) che fa parte del rapporto di compravendita: il pagamento del prezzo. Nel secondo processo ciò che il primo giudice ha detto del contratto di compravendita si deve tener fermo, oppure il secondo giudice potrebbe considerare valido ed efficace il contratto, e quindi condannare Tizio a pagare il prezzo della compravendita?

Al problema su esposto sono state date due soluzioni diverse.

A) Per taluni vale lo stesso criterio che si applica per la pregiudizialità in senso tecnico (art. 34 c.p.c.): il giudicato sull’esistenza e qualificazione del rapporto si forma solo se c’è domanda di parte (negli esempi fatti, avente ad oggetto, rispettivamente, l’accertamento della qualificazione del rapporto e la validità, efficacia, risoluzione del contratto).

B) Altri rilevano che, mentre nella pregiudizialità in senso tecnico la situazione pregiudiziale è un vero e proprio diritto che attribuisce un bene della vita, il rapporto giuridico di per sé non è una situazione sostanziale attributiva di alcun bene della vita.

Il contratto di compravendita, il rapporto di lavoro dipendente, etc., di per sé non danno niente a nessuno: l’utilità nasce dai singoli effetti del contratto di compravendita (consegna del bene, pagamento del prezzo, trasferimento della proprietà, obbligo di garanzia per i vizi, garanzia per l’evizione, etc.) o del rapporto di lavoro dipendente (ferie, tredicesima, fedeltà, etc.). Da ciò deriva che nessun elemento si può trarre dall’articolo 34 c.p.c. perché altro è che pregiudiziale sia un diritto vero e proprio (ecco perché si chiama pregiudizialità in senso tecnico), altro è che si discuta dell’esistenza e qualificazione di un rapporto che è solo uno strumento, un’entità strumentale e artificiale, che ha il solo scopo di rendere omogenei i più effetti, i più diritti che da esso scaturiscono.

Nella pregiudizialità tecnica abbiamo un diritto dipendente e un diritto pregiudiziale. Il diritto pregiudiziale è una vera e propria situazione sostanziale attributiva di un bene della vita, tant’è vero che essa ha un suo << valore » anche a prescindere dall’esistenza del diritto dipendente. Il rapporto di filiazione esiste e vale anche se non esiste il diritto agli alimenti. La proprietà dell’autovettura esiste anche se questa non produce incidenti.

Non è immaginabile che colui, il quale ha ottenuto la consegna de bene sostenendo, e vedendosi dare ragione, che il contratto è valido, ne eccepisca la nullità quando viene chiamato a pagare il prezzo. Applicare le regole dell’art. 34 c.p.c. alla pregiudizialità logica significa giungere proprio quei risultati, che il legislatore sostanziale vuole impedire creando figura del rapporto giuridico.

Il criterio da usare quindi per la pregiudizialità logica è quello dell’antecedente logico necessario. Se il giudice, per decidere dell’effetto antecedente (diritto) dedotto in giudizio, si è dovuto occupare (antecedente logico) della esistenza e qualificazione del rapporto a cui tale diritto appartiene, allora ciò che il giudice ha stabilito del rapporto forma giudicato ove venga in discussione, in un successivo processo, un altro diritto che appartiene allo stesso rapporto. Se però, per decidere del diritto, il giudice non ha avuto bisogno di occuparsi del rapporto, il giudicato non si forma. Se, per decidere del diritto, è stato necessario nel primo processo risalire al rapporto, il giudicato si forma; se non è stato necessario, il giudicato non si forma. Risalire al rapporto per decidere del diritto non è sempre necessario.

1) Tizio chiede la condanna di Caio al pagamento della tredicesima maturata nel 1983. Caio eccepisce la prescrizione. Il giudice può decidere della domanda senza doversi occupare del problema dell’esistenza del rapporto di lavoro dipendente. Egli può rigettare la domanda, affermando che, se anche il diritto esisteva perché il rapporto di lavoro doveva qualificarsi di lavoro subordinato, esso ormai si è prescritto.

2) Chiesta la consegna del bene compravenduto, il giudice può rigettare la domanda per due motivi: perché il bene è già stato consegnato, e qui il giudice non prende posizione sul contratto di compra- vendita; perché il contratto di compravendita è invalido, e qui il giudice prende posizione sul contratto. Nel primo caso la decisione sul rapporto non è un antecedente logico necessario, e quindi nella sentenza non si forma giudicato sul punto; nel secondo caso l’invalidità del rapporto è antecedente logico necessario, e su di esso si forma giudicato nel senso di escludere l’esistenza del rapporto.

È evidente che, in virtù dell’applicazione del principio della ragione più liquida, è più facile che il rigetto della domanda sia pronunciato senza che il giudice abbia necessità di prendere posizione sull’esistenza e/o qualificazione del rapporto. Tuttavia, anche se più raramente, pure l’accoglimento della domanda può prescindere dall’accertamento dell’esistenza e/o qualificazione del rapporto. Es.: Tizio chiede a Caio la restituzione del bene da lui detenuto a titolo di comodato, per l’avvenuta scadenza del termine; Caio eccepisce che non di comodato si tratta, sebbene di locazione. Tizio replica che, anche se si trattasse di locazione, il rapporto sarebbe ugualmente scaduto. Se il giudice ritiene fondata la replica, può condannare Caio al rilascio senza prendere posizione sulla qualificazione del rapporto, perché questa nel caso concreto è irrilevante.

7. Conclusioni

Probabilmente, allorquando la giurisprudenza si trovò dinanzi ad un bivio quando alla estensione dell’accertamento con portata di giudicato, la scelta più ragionevole (che poi non venne adottata) sarebbe stata quella di inquadrare entrambe le ipotesi di pregiudizialità nell’ambito dell’art. 34 c.p.c. Una decisione di tal fatta avrebbe reso necessario, in adesione alla teoretica chiovendana, sempre e comunque una domanda, nell’ottica che il giudicato è sulla domanda.

Sono note le ragioni, di carattere non esclusivamente giuridico, per le quali venne creata la figura a sé stante della pregiudizialità logico-giuridica: dare maggiore solidità al rapporto fondamentale sottostante; evitare successive pronunce contrastanti; 3) assicurare il principio di economia processuale.

A ben vedere, però, si è ormai imboccata una via senza ritorno, perché un ipotetico revirement provocherebbe danni maggiori, determinando ricadute traumatiche su almeno due ambiti nei quali l’orientamento della Suprema Corte si è ormai faticosamente consolidato negli ultimi anni: 1) la riduzione dell’ambito applicativo della sospensione necessaria (SU n. 21763/2021), ormai limitata alla sola pregiudizialità tecnica; 2) il giudicato implicito, ormai configurabile solo in presenza di una pregiudizialità logica.

E’ opportuno ricordare che il giudicato rileva almeno sui piani della prova (si pensi alla probatio diabolica in tema di diritti reali), del contraddittorio (si pensi alla chiamata del terzo; cfr. Cass. n. 10130/2000) e dell’interesse ad agire (affinchè rilevi anche in altri giudizi).

Al di là della confusione di accenti (basti pensare all’atecnico richiamo operato, nell’ambito della pregiudizialità di tipo logico, all’accertamento in via incidentale, che certo non può essere inteso come accertamento con effetti limitati al processo in corso, ma come mero passaggio logico indefettibile), non resta che confermare il diritto vivente formatosi medio tempore, chiarendone però la portata applicativa.

In termini generali, la distinzione tra pregiudizialità tecnica e pregiudizialità logica si fonderà sul concernere la prima rapporti giuridici autonomi, uno dei quali è fatto costitutivo o estintivo/modificativo o impeditivo (collegati da un nesso sostanziale di pregiudizialità, appunto, tecnica), e riguardare la seconda un’unica fattispecie, con riferimento alla quale si fa valere uno degli effetti del più complesso rapporto alla base (si pensi ai rapporti di società o di lavoro, ai contratti di compravendita o alle domande di adempimento contrattuale).

Più specificamente:

A) la questione pregiudiziale (la domanda trasforma, poi, la questione in causa pregiudiziale) connessa alla pregiudizialità tecnica si ha in presenza di autonomi rapporti giuridici connessi per pregiudizialità; in siffatta evenienza l’accertamento di un diritto (vale a dire, di un diritto che attribuisce un bene della vita o di una situazione giuridica sostanziale la cui esistenza assume rilevanza per stabilire se sussista o meno il diritto azionato) presuppone l’accertamento di un altro diritto [esempi: 1) lo status familiae rispetto al diritto agli alimenti; 2) la proprietà del veicolo rispetto alla responsabilità ex art. 2054, comma 3, c.c.];

B) il punto pregiudiziale connesso alla pregiudizialità logica si ha al cospetto di un unico rapporto giuridico; in tale evenienza l’accertamento dell’esistenza, della validità e della natura (recte, qualificazione) di un rapporto giuridico costituisce il presupposto (logico necessario) di un diritto [esempi: 1) nelle domande di adempimento contrattuale, il contratto rispetto alla pretesa di adempimento dedotta in causa; 2) il diritto di proprietà non è semplicemente pregiudiziale alla revindica, ma è fatto valere con questa, trattandosi di un rapporto giuridico complesso]. Se con la domanda si fa valere un diritto facente parte di un più ampio rapporto giuridico fondamentale (inteso come presupposto logico indefettibile), la cognizione del giudice si estende in automatico a quest’ultimo (cioè alla situazione complessa sottostante). Sfruttando il secondo esempio, se in un giudizio si invoca il diritto (revindica) alla restituzione di una cosa, è inevitabile che il giudice estenda la sua indagine alla sussistenza (titolarità) del diritto (di proprietà) che è alla base della pretesa fatta valere.

In quest’ottica, le posizioni di Mortara, Chiovenda (con le indicate ‘deroghe’) e Menchini si rivelano molto più vicine di quello che a prima vista potrebbe sembrare.

Da ultimo, fermo restando che, pur apparendo la distinzione tra le due pregiudizialità, per certi versi, artificiosa, è opportuno non scardinare il sistema, resterebbe da domandarsi (ma la disamina esonderebbe dal campo di indagine del presente scritto) quale sia l’ambito applicativo dell’art. 34 c.p.c., la cui formulazione letterale è rimasta invariata dal 1942. Ciò alla luce del rilievo per cui, mentre allorquando venne introdotto esisteva l’indissolubilità tra giudicato e giudice competente e la competenza aveva un carattere che rasentava la sacralità, attualmente l’incompetenza va rilevata non oltre la prima udienza (ai sensi dell’art. 38 c.p.c.).

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