1. Una testimonianza de relato.
Sono passati quarant’anni.
Il 23 settembre 1985 a Napoli veniva ucciso un giovane giornalista, Giancarlo Siani. Io sono del suo stesso quartiere, lui aveva 26 anni, aveva iniziato a fare il giornalista pubblicista. Io ero all’ultimo anno di liceo. L’omicidio avvenne al Vomero, quartiere borghese, dove Giancarlo viveva con la sua famiglia.
Hanno dedicato a Giancarlo delle rampe a cento metri dalla sua abitazione e dal luogo dell’omicidio, ma non ho mai capito perché non gli abbiano intitolato un luogo centrale, visibile, nevralgico, una piazza, un viale, non delle scale sostanzialmente marginali. Ma sbaglierò senz’altro, ci sarà una ragione toponomastica che mi sfugge.
Invece, ogni volta che mi reco alla stazione della metro di Salvator Rosa – quella metro che ormai conoscono i tanti turisti che vengono a Napoli, non tanto per la frequenza, quanto per la bellezza – passo sotto la casa di Giancarlo. C’è una targa che lo ricorda e da poco hanno ravvivato un murale bellissimo[1], dove si scorgono la macchina da scrivere di Giancarlo, una Olivetti Lexikon 80 che ora sta girando l’Italia, e la Citroen Mehari, quella dei suoi viaggi a Torre Annunziata, Torre del Greco, Castellammare di Stabia, doveva aveva sede la redazione territoriale alla quale quel giovane giornalista precario era stato assegnato dalla direzione de Il Mattino.
Non sono ricordi autoreferenziali: la mia è una sorta di testimonianza indiretta, una percezione di sensazioni, di pensieri, di impegni e di prospettive. Si, perché per me, come per tanti vomeresi e napoletani, Giancarlo ormai è uno di famiglia, è il fratello più grande, è una fonte di ispirazione per i propri percorsi professionali, un riferimento. Ne ho sentito parlare da colleghi e amici che lo avevano conosciuto sul campo di pallavolo della Fides Vomero, che frequentava anche da allenatore: e anche lì ha lasciato il segno. Ma al di là di questo, aver letto di lui, aver seguito le commemorazioni anno dopo anno, per quaranta anni, aver guardato al fratello Paolo, ai suoi familiari – ai nipoti Gianmarco e Ludovica, che guidano con Geppino Fiorenza la Fondazione che oggi ha il nome di Giancarlo – è stata una compagnia, una sollecitazione, una positiva provocazione anno dopo anno[2]. Aver trasformato una tragedia in impegno civile senza sosta, mettendo a nudo il dolore e convertendolo in una ragione di speranza, fa pensare, ti interpella, ti chiede se stai facendo tutto quello che ti è chiesto di fare e se stai riuscendo a essere quello che sei chiamato a essere.
L’impegno dei suoi familiari è l’impegno di Giancarlo: doveva essere proseguito, la sua morte assurda non poteva essere un evento sterile, ma doveva diventare una occasione di riscatto e di rinascita. E così è stato. Tutto ciò costituisce un interpello permanente per la mia vita come per quella di tanti altri.
Ecco perché sento di dover dare questa testimonianza, la mia, seppur indiretta, ma non per questo meno vera. La coerenza di Giancarlo, la sua professionalità, la serietà e l’indipendenza nel lavoro di giornalista, il rigore ma anche la disponibilità nel rapportarsi agli altri, la ricerca di verità e giustizia, che sono gli unici veri presupposti della pace: pace che in questo tempo – che sembra proiettarci ad oltre un secolo fa per tante ragioni – cerchiamo come non mai e che anche da Giancarlo veniva cercata, come ricorda una nota fotografia che lo ritrae ad una manifestazione con il simbolo della pace dipinto in volto.
In certo senso tutto si tiene insieme, perché Giancarlo, pur con la sua giovane età, ci consegna un mandato da attuare, ora e non domani. È per questo che invito chi sta leggendo queste poche e mal scritte righe a conoscere meglio la vita di Giancarlo Siani: da cittadini, ma anche da magistrati, per essere cittadini ma anche magistrati più consapevoli.
2. Una strana simmetria: due testimonianze dirette.
Sono passati quaranta anni.
È davvero strano che a distanza di quaranta anni si incrocino sulla mia scrivania due libri, uno scritto cinque anni fa da Armando D’Alterio, l’altro pubblicato quest’anno da Pietro Perone. Il primo libro è scritto dal pubblico ministero della Procura di Napoli che, dopo due piste investigative fallimentari, giunse alla verità sull’omicidio di Giancarlo. Il secondo è scritto da un giornalista che, all’epoca giovanissimo, fu inserito nel pool che Il Mattino aveva costituito per seguire l’evoluzione delle indagini sull’omicidio e non abbandonare nell’oblio la testimonianza e la morte di Giancarlo.
I due libri, letti in parallelo, si rincorrono, narrano con lenti diverse – con la prospettiva di chi è nella redazione di un giornale e di chi invece si occupa dell’indagine – cosa accadde dopo l’omicidio, cosa si mosse per rallentare la ricerca della verità e per impedire di comprendere il movente (o i moventi concorrenti) dell’omicidio di Giancarlo.
Due testimoni diretti di quanto accadde dopo l’omicidio, D’Alterio e Perone, che poi ci accompagnano nelle rispettive indagini illuminando la vita di Giancarlo, le sue passioni, la sua intelligenza, il suo cuore, i suoi affetti. Una occasione per comprendere quel tempo, ma anche per comprendere il tempo presente.
Ci sono tre parole chiave che rendono simmetrica la lettura di questi due volumi, che ispirano la ricerca del pubblico ministero e del giornalista: indipendenza, passione, verità.
Indipendenza. Èl’indipendenza di Giancarlo nella pubblicazione dei suoi articoli che, nonostante gli avvertimenti, si confrontava con una camorra feroce legata alla mafia siciliana, quella dei Gionta e dei Nuvoletta e con un ceto politico amministrativo invischiato con la criminalità organizzata e con gli affari del post-terremoto in Campania. Ma l’indipendenza è anche quella di un pubblico ministero caparbio, che comprende che il suo ruolo è quello di indagare, costi quel che costi, come anche quella di un giornalista giovane, all’inizio della carriera, che mette da parte strade più comode, che possono consentire carriere più facili, e si fa coinvolgere nel pool de Il Mattino, non da tutti benvisto, perché forse era meglio dimenticare l’omicidio Siani piuttosto che comprendere e ricercare.
Passione. Credo che né i magistrati né i giornalisti debbano essere ‘missionari’, debbano attribuirsi il compito di ‘salvare il mondo’, perché queste autoinvestiture salvifiche rischiano di strumentalizzare il potere – terzo o quarto che sia – anche quando nascono con le migliori intenzioni, rischiando letture parziali, faziose, non sempre utili davvero alla ricerca della verità e della giustizia. Ma al magistrato e al giornalista certamente non spetta il ruolo di mero burocrate. Il binomio inscindibile potere – responsabilità che governa il mestiere del magistrato come quello del giornalista, implica necessariamente passione e coraggio, volontà di superare gli ostacoli, doti che vanno combinate a competenza, umiltà, capacità di vero ascolto. Tutto ciò era nel dna di quel giovane giornalista.
Verità. Si la verità. Il libro di D’Alterio si intitola «La stampa addosso». L’espressione era stata utilizzata dal sindaco di Torre Annunziata a proposito di Giancarlo Siani che scriveva delle vicende dell’amministrazione comunale torrese sul più importante quotidiano del mezzogiorno. «Terra nemica» è il titolo del libro di Pietro Perone, che denuncia come Siani fu lasciato solo in una terra ostile, a fare quello che deve fare un «giornalista giornalista», come Marco Risi fa dire ad un collega di Siani nel film Fortapàsc. La ricerca della verità portò alla morte di Giancarlo. È allora la ricerca della verità che lega gli scritti di D’Alterio e Perone.
La narrazione delle indagini guidate da un pubblico ministero coraggioso, con una squadra di polizia giudiziaria della quale conquista la fiducia progressivamente, anche con azioni che mettono a repentaglio la propria incolumità: «La stampa addosso» ricostruisce una quantità di eventi, dettagli, particolari, che fanno parte della vita di chi dirige le indagini da pubblico ministero indipendente, con l’intelligenza e la dedizione di chi sa che deve rendere conto alla propria coscienza e alla Costituzione, e a nessun altro: soggetto solo alla legge. Una lettura appassionante e incalzante.
Quella di Perone è una analisi rigorosa del mondo del giornalismo, un interpello a riflettere sul mestiere del giornalista e sulla sua indipendenza. Sergio Zavoli, giunto alla direzione de Il Mattino con Paolo Graldi, decise di costituire quel pool di giovani giornalisti, fra i quali Perone, perché la stampa continuasse a ‘stare addosso’, anche dopo la morte di Giancarlo: occorreva un giornalismo di inchiesta indipendente. Non doveva venire meno nell’opinione pubblica il desiderio di sapere chi avesse ucciso Giancarlo e quale fosse il movente, e anche l’azione giudiziaria andava seguita e stimolata, dopo che alcune precedenti piste investigative si erano rilevate false e avevano lasciato nell’oblio giudiziario l’omicidio Siani.
3. Inseguendo speranze.
Sono passati quarant’anni.
Non voglio svelare ulteriormente il contenuto di questi due libri, appassionanti e incalzanti. Voglio solo concludere con un passaggio del libro di Perone, che denuncia la situazione dell’epoca. Un monito che vale anche oggi, quanto al rischio di una informazione ‘dipendente’: «Potere e giornalismo tutt’uno».
La riforma costituzionale della giustizia o, meglio, della magistratura, se approvata, porterà anche il pubblico ministero alla stessa relazione di dipendenza, oltre a rendere sicuramente più debole il giudice: «Potere e magistratura tutt’uno» potremmo dire.
L’indipendenza assicurata dallo statuto costituzionale a D’Alterio – per indagare sull’omicidio Siani e non solo – a cavallo fra politica, affari e camorra, e l’indipendenza assicurata da un direttore del calibro di Sergio Zavoli al pool di giornalisti di Perone, devono essere d’esempio per il presente e per il futuro.
La democrazia si nutre di separazione tra i poteri e di controlli reciproci: solo così può garantire un obiettivo, quello di rendere le legittime aspettative delle persone qualcosa di concreto.
Non mi sembra un caso che il titolo del primo articolo di Giancarlo Siani fosse proprio: «Inseguendo speranze», un titolo che corrisponde all’impegno costituzionale per la speranza. Si, perché alla Repubblica – cioè, a tutti noi, magistrati, giornalisti, cittadini – è chiesto di promuovere la speranza, rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale, che impediscono il pieno sviluppo della persona umana e la sua piena partecipazione alla vita politica, economica e sociale del Paese, come recita l’art. 3 della Costituzione.
L’indipendenza di magistrati e giornalisti, allora come ora, non è un bene finale ma strumentale alla speranza e implica la garanzia e l’impegno ad essere realmente indipendenti. Se non altro lo dobbiamo a quel giovane giornalista, precario, che riuscì a «stare addosso» in «terra nemica».
- Pietro Perone, «Giancarlo Siani. Terra Nemica», prefazione di Marco Risi e postfazione di Gianmarco Siani, Edizioni San Paolo, Milano, 2025.
- Armando D’Alterio, «La stampa addosso. Giancarlo Siani. La vera storia dell’inchiesta», prefazione di Maurizio Molinari, introduzione di Ottavio Ragone e Conchita Sannino, interventi di Paolo Siani e Tonino Palmese, collana Novanta-Venti La Repubblica, Guida Editori, Napoli, 2020.
- Pietro Perone e Filippo Soldi, «Quaranta anni senza Giancarlo Siani», film-documentocon la partecipazione di Toni Servillo, regia di Filippo Soldi, disponibile su Raiplay all’indirizzo: https://www.raiplay.it/programmi/quarantaannisenzagiancarlosiani?wt_mc=2.www.cpy.raiplay_prg_QuarantaannisenzaGiancarloSiani.
- Marco Risi, «Fortapàsc», film disponibile su Raiplay all’indirizzo: https://www.raiplay.it/programmi/fortapasc?wt_mc=2.www.cpy.raiplay_prg_Fortapasc.
[1] Opera del collettivo artistico Orticanoodles.
